13 Aprile 1966
Questi giorni pasquali ci obbligano a pensare a due cose: alla risurrezione del Signore; al rapporto che la nostra vita ha con tale fatto, con tale mistero.
Sappiamo bene che tutto quanto Gesù Cristo ha compiuto ed ha patito, « acta et passa » , non è circoscritto alla sua singola vita, ma fa parte d'un disegno divino che comprende anche noi.
Egli è il Redentore; vale a dire che tutta la sua opera redentrice riguarda noi uomini; è finalizzata alla nostra salvezza: « propter nos et propter nostram salutem descendit de caelo », così cantiamo nel « Credo »; e siamo soliti a riferire questa sorprendente e consolante verità specialmente alla morte del Signore: è morto per noi, diciamo.
Siamo invece meno abituati a considerare la risurrezione del Signore come un fatto a noi relativo; e nella nostra pietà, se non nella nostra dottrina, non diamo alla risurrezione di Cristo l'importanza soteriologica, che le deve essere riconosciuta.
Ricordiamo S. Paolo: « Cristo fu sacrificato per le nostre mancanze, e fu risuscitato a motivo della nostra giustificazione » ( Rm 4,25 ).
San Tommaso, con la consueta precisione, c'insegna che dalla risurrezione del Signore emana una duplice virtù rigeneratrice, non solo delle anime, ma anche dei corpi, una effettiva, l'altra esemplare ( S. Th. III, 56, 2 ).
E cioè: « Gesù Cristo non è venuto sulla terra semplicemente per morire; egli è venuto per unirci a Lui e per associarci al suo trionfo …
La morte non è che la metà dell'opera redentrice, che reclama la risurrezione come suo complemento necessario …
Senza la risurrezione la fede non ha il suo vero oggetto; senza la risurrezione il battesimo non ha il suo completo simbolismo » ( Prat. II, 252 ).
Ed ecco il battesimo, che costituisce appunto il primo e fondamentale rapporto vitale e soprannaturale fra la Pasqua del Signore e la Pasqua nostra, fra la sua risurrezione e la nostra.
Bisogna ancora ascoltare San Paolo: « … quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella morte di lui.
Siamo stati infatti sepolti con lui per mezzo del battesimo nella morte, affinché, come fu risuscitato Cristo da morte per la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita » ( Rm 6,3-4 ).
Questi insegnamenti sono molto importanti, non solo nel campo dottrinale, ma altresì nel campo spirituale e in quello pratico.
È a questo punto, che ha origine, nella fede e nella grazia, la nostra inserzione in Cristo, che nasce il nostro titolo di cristiani.
Cristiano è colui ch'è battezzato; e il battezzato è un essere umano reso partecipe d'un nuovo principio, reale e morale, di vita, la vita stessa di Cristo; è un uomo nato di nuovo ( cfr. Gv 3,7 ); un uomo che è stato inizialmente salvato « mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento di Spirito Santo » ( Tt 3,5 ); incorporato così a Cristo, e segnato con un sigillo, un'impronta, un carattere, che non si cancella più; il carattere della fisionomia di Cristo, stampato nell'anima, e tale da qualificarlo figlio di Dio: « Tutti quelli che hanno ricevuto Cristo, hanno acquistato il potere di diventare figli di Dio » ( Gv 1,12 ).
Questa sorte, figli carissimi, è la nostra.
Il Concilio, in quel grande suo documento, che studia le relazioni fra la Chiesa e il mondo, parte giustamente dal concetto cristiano dell'uomo.
Voi ricordate che l'avere un vero ed esatto concetto dell'uomo è il problema capitale e più difficile della filosofia, della sapienza umana; e che il pericolo della civiltà è quello di fondarsi sopra una concezione falsa o incompleta della vita umana.
Oggi si parla tanto di « umanesimo », cioè d'un progresso civile derivato da una data definizione dell'uomo.
Ma chi sa dire veramente chi è l'uomo?
Le molte e grandi difficoltà di dare dell'uomo una vera definizione tentano, ad ogni passo, a dare definizioni parziali, che sembrano solide, perché desunte da qualche esperienza immediata, generalmente a tendenza biologico-materialista.
« In realtà - dice il Concilio - solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo » ( Gaudium et spes, 22 ).
Noi dobbiamo svolgere questo problema, accogliendo la definizione che la fede ci offre, ricordando che ciascuno di noi, se battezzato, è « uomo nuovo, quello creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità » ( Ef 4,24 ).
Dobbiamo cioè formarci la coscienza che siamo battezzati, che siamo cristiani, che siamo cittadini della Chiesa, fratelli di Cristo e viventi in Lui, figli adottivi di Dio.
Questo senso di dignità, sacra e stupenda, questa consapevolezza della nostra vocazione allo stato soprannaturale, questo concetto luminoso e vero della vita devono formare la nostra saggezza, e devono renderci facile mantenere l'impegno che da questa coscienza deriva.
Ecco, è semplice: bisogna vivere da cristiani, se sappiamo ciò che significa essere cristiani.
Il costume cristiano, l'educazione cristiana, lo stile morale cristiano e perfino l'arte cristiana hanno la loro radice nella coscienza della nostra elevazione soprannaturale, mediante il battesimo, che ci ha fatti partecipare ai meriti e alla virtù della Pasqua di Cristo, della sua morte redentrice e della sua risurrezione rigeneratrice.
Tutto questo Noi ora pensiamo, vogliamo e invochiamo, quando auguriamo a ciascuno di voi, con la Nostra Benedizione Apostolica, la « buona Pasqua ».
Abbiamo anche Noi celebrato la Pasqua di quest'anno 1966 col pensiero dapprima dell'unità dei cristiani fra loro, e poi dell'unione di tutti gli uomini nella pace fraterna e nella collaborazione civile.
È un pensiero che sgorga spontaneamente dalle profondità del mistero pasquale: l'universalità della redenzione deriva dal disegno di Dio e dice la grandezza e la gratuità del suo amore; la necessità che tutti abbiamo della medesima salvezza, ottenuta da Cristo col suo unico sacrificio, obbliga tutti a ricorrere all'identica fonte di perdono e di grazia; la diffusione nel mondo e nella storia del messaggio pasquale è parimente un principio di unità, perché tale diffusione annuncia all'umanità la medesima ed univoca fede, mediante un servizio qualificato di verità e di carità, il ministero cioè del magistero apostolico, rivolto a formare un solo popolo credente, il popolo di Dio, vivente come « un cuor solo e un'anima sola » ( At 4,32 ); tutto ciò insomma che Cristo ci ha lasciato di Sé, con la sua gloriosa risurrezione, la sua parola, il suo esempio, il suo amore.
La comunione di vita nostra con la sua vita vittoriosa, in noi infusa dalla stessa fede e dai medesimi sacramenti, dalla appartenenza ad una medesima e visibile comunità religiosa, che è la Chiesa, e dalla attesa comune del suo ultimo ritorno, tutto ci parla di unità, tutto ci obbliga all'unità, che più profonda ed essenziale non potrebbe essere, se, come Cristo stesso insegnò nel suo estremo discorso ai discepoli, tale unità fra i seguaci veri di Lui deve modellarsi e generarsi sull'insondabile e consustanziale unità, che fa del Padre celeste e del Verbo suo Figlio, nello Spirito Santo, un solo ed unico Iddio ( cfr. Gv 17,11 ).
Un complesso poi di circostanze ha più fortemente richiamato in Noi questo pensiero dell'unità.
La celebrazione del Concilio Ecumenico, ora concluso, il quale, come è detto nel proemio del Decreto conciliare sull'Ecumenismo, ha avuto come uno dei suoi scopi principali « il ristabilimento dell'unità da promuoversi fra tutti i Cristiani ».
È ovvio che questo intento sia ritornato con urgenza al Nostro spirito nella celebrazione della festa pasquale, che ha ripresentato alla Nostra preghiera tutti i fini del grande Concilio.
Il ricordo del Nostro incontro col Patriarca Atenagora, avvenuto più di due anni or sono a Gerusalemme, ravvivato nella ricorrenza pasquale da scambievoli messaggi augurali; la memoria della cancellazione delle scomuniche del 1054, felicemente celebrata il 7 dicembre scorso alla chiusura del Concilio; e la grata impressione della recente visita dell'Arcivescovo Anglicano Dottor Ramsey, piena di storico e di spirituale significato, sono presenti al Nostro spirito nella festività della risurrezione del Signore, non soltanto come conforto per felici avvenimenti conseguiti sull'incerto cammino verso la reintegrazione di tutti i cristiani nell'unica Chiesa di Cristo, ma altresì come auspicio di nuovi possibili passi verso questa mèta desiderata.
Perché le difficoltà non mancano, e per sé sono tali da non lasciar prevedere una sollecita e soddisfacente soluzione.
Da alcuni si vorrebbero dalla Chiesa cattolica sacrifici dottrinali e costituzionali, ch'essa non può fare senza venir meno alla sua fedeltà alla verità del Vangelo e della tradizione che ne deriva.
La Chiesa cattolica desidera piuttosto, dal canto suo, di appianare la via all'incontro pieno e definitivo con i Fratelli separati, cercando di rassicurarli circa la logica, per tutti onorevole, delle posizioni cattoliche; cercando di onorarli col riconoscere certi aspetti di alcune caratteristiche delle loro tesi religiose, meritevoli di comune consenso, e cercando ancora di favorirli, per quanto la realtà storica e pratica lo consenta, col semplificare le esigenze rinunciabili delle forme espressive dell'adesione ad un'unica Chiesa; e si confida che questo sforzo di leale accostamento sarà reciproco.
Ed è questa complessa considerazione, tutta intessuta di ostacoli umanamente parlando insormontabili, che la Pasqua illumina d'una gioiosa speranza, quella della possibilità di raggiungere un giorno la perfetta riconciliazione con tutti i credenti in Cristo risorto.
La risurrezione di Cristo è tale miracolo che Ci fa ripetere, riferendola al nostro caso, la parola del Signore stesso: « Presso gli uomini questo è impossibile; ma presso Dio tutte le cose sono possibili » ( Mt 19,26 ).
Perciò il Nostro animo si protende in umile preghiera al Signore, affinché Egli voglia, intorno a Sé e nella sua unica Chiesa, ricomporre la grande famiglia dei suoi discepoli; si estende in affettuoso e paterno invito a tutti i cattolici, affinché sempre più abbiano in loro e tra loro il senso sublimante dell'unità del Corpo mistico; e si allarga in rispettoso saluto a tutti i credenti in Cristo, mentre già a noi è ineffabile letizia ascoltarne il coro ecumenico, ad Oriente e ad Occidente, inneggiante con noi a Colui ch'è « il primo e l'ultimo: visse e morì; ed ecco, ora è vivente per tutti i secoli ».