28 Giugno 1967
Diletti Figli e Figlie!
Domani la Chiesa celebra la festa dei Santi Pietro e Paolo, a Roma, che custodisce le tombe dei due Apostoli, giustamente solenne, e quest'anno ancor più, a causa della celebrazione centenaria del loro martirio.
Perché è da notare che la festa ha per motivo la « passio », cioè la morte, cioè il martirio di questi primi e maggiori annunciatori del Vangelo.
Noi siamo abituati a questo uso della Chiesa, il quale lega il ricordo dei seguaci esemplari ed eroici di Cristo più che alla loro vita e alla loro storia, alla loro morte; e sappiamo che l'origine del culto dei Santi nella Chiesa è da cercare nell'intenzione di onorare e di invocare colui che per il nome di Cristo ha dato, in modo cruento, la propria vita.
Un fatto di sangue, una tragedia, esecranda per la meditata ingiustizia di chi la compie, e pietosissima per l'inerme innocenza di chi la, subisce, è l'oggetto della memoria, sempre commossa, sempre pia, della Chiesa; la quale tuttavia non arresta il suo pensiero al delitto commesso e subito, ma ne cerca il valore morale, e cioè l'esempio sia di fortezza, che di mansuetudine, il quale traspare dalla morte commemorata; ed ancor più la Chiesa osserva e celebra nell'eroe ricordato il significato spirituale, il perché religioso di quella uccisione, e lo chiama testimonianza, lo, chiama martirio.
Il martirio costituisce così un fatto relativo alla fede; esso è stato sofferto a causa della fede, e si traduce perciò in un attestato in favore della fede.
La considerazione di questo aspetto della festa dei santi Apostoli, celebrati innanzi tutto perché martiri, si presta a molti studi e a vari pensieri, che al Nostro scopo pratico di questo colloquio settimanale, possono ridursi ad una semplice, ma importante osservazione: la fede comporta un pericolo, comporta un rischio, forse comporta un attentato alla propria tranquillità e alla propria incolumità.
Ecco un altro aspetto che rende difficile la fede; ed oggi, tacitamente e intimamente risoluti, come siamo, a non volere fastidi, a non affrontare molestie e danni a causa delle nostre idee, la difficoltà si fa molto grave.
Raramente siamo disposti a batterci per dei principi, non legati a immediati interessi; raramente esponiamo la nostra persona al giudizio altrui, tanto meno alle altrui vessazioni; ci piace pensare per conto nostro ciò che non incontra critiche e pericoli; e nella conversazione sociale ci piace facilmente aderire senza sforzo all'opinione pubblica, ovvero ci torna comodo dar ragione al più forte, anche se non è il più ragionevole; facilmente diventiamo gregari e conformisti; ed in fatto di religione non vorremmo mai ch'essa ci procurasse delle noie; vorremmo anzi spesso una religione che ci mettesse al riparo d'ogni malanno in questa vita e in quella futura.
La Chiesa, allora, organo della religione, dovrebbe concepirsi come un sistema di assicurazione spirituale, e per di più, se possibile, di qualche utilità temporale.
E vogliamo molto spesso essere in sintonia con gli altri; aderiamo facilmente oggi ad un « pensiero di massa ».
Questa tendenza all'adesione ad un pensiero comunitario può essere molto buona e molto nociva a seconda che tale pensiero è o non è conforme alla verità: e su questo punto la riflessione critica, o la guida d'un magistero saggio può essere molto importante.
Ma di solito chiamiamo « rispetto umano » l'istinto ad evitare lo sforzo d'avere un pensiero personale da difendere, e a schivare la responsabilità e l'affermazione delle proprie convinzioni e delle proprie azioni; e questa è una debolezza, talora una ipocrisia, e qualche volta viltà.
Per ciò che ci riguarda occorre, Figli carissimi, ristabilire una prima persuasione: la fede è una forma di pensiero che deve profondamente occupare la nostra mentalità, la nostra psicologia, la nostra personalità.
Essere credenti significa qualche cosa di molto serio, qualche cosa di veramente nostro, di intimo, di personale, di decisivo.
Dal giorno in cui la nostra vita ha incontrato Cristo ( fu il giorno del nostro battesimo, o della nostra conversione ), essa è stata incorporata a Lui; essa ha una sola fisionomia, una sola legge dominante: essere cristiana, pena la decadenza, pena il tradimento, non solo verso Cristo, ma altresì verso noi stessi, verso la nostra coscienza, verso la nostra vita.
Questo è ciò che hanno compreso le generazioni veramente cristiane: qual è il sommo valore della vita, per non dire insieme il sommo dovere?
È quello di aderire, mediante Cristo, a Dio, che è la Vita, non soltanto in Sé, ma anche per noi.
Aderire a Dio, alla Vita vera, è ormai la questione principale per noi; la fede perciò deve valere per noi, in caso di confronto, o di conflitto, più della nostra vita.
La bilancia dei valori ci mostra che la fede ha maggior peso della nostra stessa esistenza mortale.
Tremenda e stupenda verità: e questa è la prima.
( Vale la pena di vivere, se noi abbiamo ragioni superiori di vivere! ).
La seconda accresce la nostra posizione drammatica di credenti; ed è che la fede bisogna professarla.
In qualche debita forma, s'intende, che non esclude, anzi esige misura, tatto, prudenza; ma sta il fatto che la fede interiore deve diventare, in date circostanze e in date maniere, fede esteriore; per l'onore della fede stessa, cioè di Cristo e di Dio; per la coerenza ed il vigore della personalità del credente; e per la testimonianza ai fratelli ed al mondo.
Perciò dicevamo che la fede è difficile.
Ma aggiungiamo subito: è difficile ai fiacchi e ai paurosi; la fede richiede forza d'animo, grandezza di spirito; anzi la conferisce a chi si esercita nella sua semplice e nobile professione.
E concludiamo col ricordare che quel Cristo, il Quale vuole i suoi seguaci così forti e militanti, è quello stesso che dà loro la grazia di esserlo, magnificamente, quando occorre.
La storia dei martiri di ieri e di oggi lo dice.
Riflettete, Figli carissimi, a ciò, e siate sicuri.
Vi diremo col Signore: « Nolite timere » ( Mt 10,28 ), non abbiate paura!
Con la Nostra Benedizione Apostolica.