20 Marzo 1968
Diletti Figli e Figlie!
La vostra vita Ci trova occupati da un pensiero, di cui crediamo bene dare conto anche a voi, come padre ai suoi, figli.
È un anno ( l'anniversario esatto cadrà il 26 marzo ), è un anno da che Noi abbiamo pubblicato la lettera-enciclica, che dalle parole iniziali s'intitola « Populorum progressio », rivolta alla Chiesa e al mondo per impegnare l'attenzione di tutti sopra un fatto caratteristico e capitale del nostro tempo, il risveglio cioè della coscienza dei popoli circa il bisogno di progredire, un risveglio che sembra scoprire una legge generale dell'umanità, quella d'essere di più, d'avere di più, di fruire di più dei beni che la vita ed il mondo mettono a disposizione dell'uomo.
Questa idea di progresso non era nuova per le nazioni già civilizzate e sviluppate, tanto da costituire una di quelle formule magiche e mitiche di cui l'uomo moderno si compiaceva e si esaltava, come fosse una religione, una somma concezione dei tempi nuovi.
Ma quando l'idea di progresso entrò nella psicologia delle popolazioni stagnanti nelle loro forme primitive, o imperfette di civiltà, prive cioè delle prodigiose risorse economiche e sociali derivanti dalle scoperte scientifiche ( pensate, ad esempio, all'elettricità ) e dall'applicazione delle risorse della natura alla macchina, a potenti strumenti cioè ausiliari del lavoro umano fino a moltiplicarne prodigiosamente il rendimento diminuendone in pari tempo la fatica, un'inquietudine enorme sollevò e solleva queste popolazioni, suscitando in esse il desiderio, il bisogno, il diritto a passare dal livello modesto, e spesso miserabile, del loro tenore di vita ad un livello più alto, più ricco, più degno, più umano.
Questa aspirazione è tuttora in piena efficienza; essa fermenta nella maggior parte dell'umanità, producendo gli effetti molteplici, che tutti conosciamo: lo sforzo verso l'indipendenza, politica dapprima, economica e culturale poi, mettendo in evidenza condizioni alle volte tristissime di questi popoli nuovi, la fame, la malattia, l'ignoranza, l'incapacità a trasformarsi in meglio con le loro proprie forze; e insofferenti come essi sono d'ogni sfruttamento colonialista, non riconoscono talora nemmeno i vantaggi che l'epoca coloniale loro recò, e misurano così la loro inferiorità al confronto dei popoli progrediti, con sentimenti ribelli ad ogni forma di tutela da parte di popoli ricchi, e ostili a quello stesso benessere che si è fra loro prodotto per opera altrui, e ancor oggi detenuto da pochi, forestieri o indigeni che siano, a loro quasi esclusivo vantaggio.
Lacrime e collera caratterizzano, per lo più, la psicologia di questi popoli giovani, che soffrono d'un male nuovo, prima inavvertito, oggi intollerabile, l'avvertenza della sperequazione economica e civile, che li separa e li umilia nel confronto dei popoli benestanti.
È un problema cruciale e mondiale.
Esso trasferisce la famosa questione sociale dall'interno delle singole società alla dimensione internazionale, alla umanità intera; e se la giustizia sociale - che promuove la trasformazione delle classi componenti una società verso una più equa distribuzione della ricchezza e della cultura, in modo che a nessuno manchi la sufficienza per vivere da uomo, ed a nessuno sia dato un esagerato ed egoistico godimento dei beni temporali quando altri ne siano penosamente privi - si applica sul piano delle relazioni fra nazione e nazione, si comprende la vastità e l'importanza dei problemi suscitati dal progresso moderno, quando oramai ogni popolo ne acquisti la nozione, e con la nozione la pretesa, per tanti versi legittima, d'esserne partecipe.
Può la Chiesa disinteressarsi di questo gigantesco aspetto della vita umana contemporanea?
La Chiesa certamente non è fatta per occuparsi della soluzione tecnica di questi problemi; vogliamo dire dei problemi economici e politici che riguardano la ammissione dei popoli in via di sviluppo al livello di sufficienza e di dignità che loro compete; ma questi stessi problemi derivano la loro forza logica ed umana da una concezione della vita umana, che solo la religione ad essi fornisce.
E cioè: è la religione, quella cristiana fra tutte, che vede nel progresso umano una intenzione divina: Dio ha creato l'uomo perché fosse signore della terra, e la terra fosse a beneficio ordinato di tutti.
È la religione che offre fondamento di giustizia alle rivendicazioni dei non abbienti, quando ricorda che tutti gli uomini sono figli d'uno stesso Padre celeste, e perciò fratelli.
È la religione che sola può ricordare al ricco d'essere amministratore, e non padrone dispotico dei suoi beni, i cui frutti devono in qualche equa misura essere a profitto di chi ne abbisogna.
È la religione cattolica, la nostra, che instaura la legge suprema della carità, chiaroveggente dei mali e dei bisogni del prossimo, e cogente, col soave e libero impero dell'amore, al soccorso altrui; ed è la religione di Cristo, della quale è principio e fine in questo mondo l'ordine, l'equilibrio, la concordia degli uomini, che ricorda essere lo sviluppo dei popoli il nome attuale della pace.
Potevamo Noi tacere, se così stanno le cose? Non potevamo.
E perciò abbiamo parlato.
È sembrato ad alcuni che la Nostra parola fosse aspra e ingiustificata verso quei sistemi economici, che di per sé non tendono a creare condizioni paritarie fra gli uomini, favorendo gli uni e obbligando gli altri a soffrire d'una perpetua condizione d'inferiorità; ma non è certo Nostra intenzione di disconoscere i termini naturali dei processi economici, né d'offendere coloro che ne sono i promotori, quando una visione non parziale, non egoista, ma globale, ma umana inquadri tali processi nelle esigenze del bene comune.
Così è sembrato ad altri che, denunciando Noi nel nome di Dio i gravissimi bisogni per cui soffre tanta parte dell'umanità, Noi aprissimo la via alla così detta teologia della rivoluzione e della violenza: lungi dal Nostro pensiero e dal Nostro linguaggio una simile aberrazione; cosa ben diversa dalla positiva, coraggiosa e energica attività necessaria, in molti casi per instaurare nuove forme di progresso sociale ed economico.
Come pure è sembrato a molti, e fors'anche a voi che Ci ascoltate, che una così complessa e gigantesca questione, qual è quella della retta e decisa promozione del progresso del popoli, esulasse dall'interesse degli uomini singoli, dalla iniziativa privata e da quella dei corpi intermedi; e ciò è vero; questa è questione di chi governa le sorti della politica generale e delle relazioni internazionali; ma tuttavia essa può e deve interessare l'attenzione di tutti, dev'essere oggetto di opinione pubblica, deve entrare nella mentalità di tutti, dev'essere problema di coscienza d'ogni cristiano: le moderne comunicazioni hanno fatto nostro prossimo anche i lontanissimi; e dove è la fame, la miseria, l'impotenza a vivere da uomini liberi e degni, ivi è la chiamata alla nostra carità.
Quando voi beneficate le missioni, quando concorrete al soccorso della fame nel mondo: quando sostenete le opere che promuovono l'alfabetizzazione, eccetera, voi rispondete alla vocazione di questa carità universale, che mira al giusto progresso dei popoli.
Abbiamo voluto ricordarvi questo grande tema, a cui la Chiesa è impegnata, ed a cui attende con intelligente e fervorosa attività la Nostra Commissione Post-conciliare Iustitia et Pax ( di cui vediamo qui presenti alcuni valorosi dirigenti ), affinché sappiate come oggi palpita il cuore della Chiesa; e se il vostro batte all'unisono col suo; la Nostra Benedizione Apostolica vi è assicurata.