4 Dicembre 1968
Diletti Figli e Figlie!
Quando noi vi parliamo, quando il dovere del Nostro ministero Ci obbliga ad esprimere ciò che crediamo vero e necessario alla salvezza ( « guai a me se non annunciassi il Vangelo! », ammonisce S. Paolo: 1 Cor 9,16 ), quando qualche interiore testimonianza ci dà l'inebriante certezza della nostra fede ( cfr. Rm 8,16 ), Noi siamo presi da uno spirituale sgomento, che solo il dovere e l'amore del Nostro ufficio Ci fa superare; ed è quello di non sapere parlare, di non saper dire ciò che vorremmo e ciò che dovremmo; vengono sempre alla mente i gemiti del profeta Geremia: « Ah! ah! ah! Signore Dio, ecco ch'io non so parlare » ( Ger 1,6 ); e ciò non solo per la Nostra inettitudine, ma per due altri motivi: primo per la grandezza, per la profondità, per l'ineffabilità di ciò che si dovrebbe dire; e per il dubbio se chi Ci ascolta possa comprendere ciò che diciamo.
Quest'ultima difficoltà, quella cioè di farsi capire, diventa ai nostri giorni per quanti hanno la missione d'annunciare la dottrina della fede sempre maggiore, sempre più impegnativa, e sempre più problematica.
Come tradurre in parole comprensibili le verità religiose?
come conservare al dogma cristiano la sua intangibile ortodossia e rivestirlo d'un linguaggio accessibile agli uomini del nostro tempo?
come mantenere gelosamente l'autenticità del messaggio della salvezza e come insieme farlo accogliere dalla mentalità moderna?
Voi sapete come questa difficoltà didattica crei oggi problemi formidabili al magistero della Chiesa, e come induca alcuni maestri della religione e non pochi pubblicisti ( la cui arte è di tutto rendere comprensibile, anzi facile e impressionante ) a fare uno sforzo di esprimere chiaramente, felicemente la verità religiosa, in modo che tutti la possano accogliere e, in certa misura, comprendere.
Questo sforzo è plausibile, è meritorio; esso determina e qualifica l'annuncio del messaggio rivelato, cioè la predicazione, l'insegnamento, l'apologetica, la riflessione teologica.
Se il contatto fra Dio e l'uomo avviene normalmente per via di parola, e non solo per via di fatti, di segni, di carismi ( cfr. 1 Cor 2,5 ), occorre che la parola sia in qualche modo comprensibile; essa conserva la sua trascendente profondità, ma, mediante l'analogia dei termini in cui si esprime, può essere accettata, capita, ridotta nelle anguste proporzioni di chi l'ascolta ( ricordiamo la sentenza scolastica: quidquid recipitur per modum recipientis recipitur; cioè: ciò che è contenuto, lo è secondo la capienza del recipiente ).
E qui si giustifica l'arte pedagogica della gradualità, dell'esemplificazione, del linguaggio parlato, come pure quella dell'eloquenza, o della rappresentazione figurativa, applicata alla comunicazione, alla trasmissione, alla diffusione del verbo rivelato.
Questo sforzo di adattamento della Parola rivelata alla comprensione degli uditori, cioè dei discepoli di Dio ( cfr. Gv 6,45 ) è esposto al pericolo di andare oltre l'intenzione che lo rende lodevole, e oltre la misura, che lo mantiene fedele al messaggio divino; cioè al pericolo di ambiguità, di reticenza, o di alterazione dell'integrità di tale messaggio; quando non sia addirittura indotto nella tentazione di scegliere nel tesoro delle verità rivelate quelle che piacciono, tralasciando le altre, ovvero nella tentazione di modellare queste verità secondo concezioni arbitrarie e particolari, non più conformi al senso genuino di quelle verità.
Pericolo e tentazione, che sono di tutti, perché tutti, venendo a contatto con la Parola di Dio, cercano di adattarla alla propria mentalità, alla propria cultura; di sottoporla cioè a quel libero esame, che toglie alla medesima Parola di Dio il suo univoco significato e la sua obbiettiva autorità, e finisce per privare la comunità dei credenti dell'adesione ad una identica verità, ad una medesima fede: la « una fides » ( Ef 4,5 ) si disintegra, e con essa quella stessa comunità, che si chiama la Chiesa unica e vera.
Basterebbe questa osservazione per convincersi della bontà del disegno divino che vuole protetta la Parola rivelata, contenuta nella Scrittura e nella tradizione apostolica, da un canale trasmittente, vogliamo dire da un magistero visibile e permanente, autorizzato a custodire, a interpretare, a insegnare quella Parola.
Voi comprendete quanto sia grave e delicata la questione del nostro linguaggio religioso ( cfr. Denz.-Sch. 1500, 782, 2831; 1658; 3020, 1800; 3881, 2309; Giov. XXIII, A.A.S. 1962, 790, 792 ): da un lato, esso deve rimanere rigorosamente conforme al Pensiero divino e a quella Parola, che ce ne ha dato originaria e originale notizia; d'altro lato, esso deve farsi ascoltare e, per quanto è possibile, capire da coloro a cui è rivolto.
Nessuna meraviglia se l'insegnamento religioso appare di natura sua - per il contenuto, e per l'espressione autentica che lo comunica - difficile; e neppure v'è da stupirsi se quello sforzo di adattamento, di cui dicevamo, ossia di « aggiornamento » come ora si dice, possa talvolta riuscire imperfetto sia a riguardo della dottrina da esporre, sia a riguardo degli uditori a cui farlo accettare.
E nessuna meraviglia se le forme di studio e d'esposizione teologica sono molteplici; e una può essere impegnata alla considerazione d'un dato aspetto della dottrina, e un'altra rivolta piuttosto ad un aspetto autentico ma diverso; anzi questa molteplicità di forme è auspicabile; essa indica la ricchezza del nostro patrimonio dottrinale, indica la fecondità inesauribile delle esplorazioni esegetiche, speculative, storiche, letterarie, morali, bibliche, liturgiche, mistiche, eccetera, di cui esso può essere oggetto; indica altresì la relativa libertà di studio e di esposizione, che consente agli studiosi, ai maestri, agli artisti ed anche ai semplici fedeli di attingere alla fonte d'acqua viva della dottrina della fede quanto occorre alla nostra sete.
Ma una condizione è necessaria, quella che dicevamo dell'assoluto rispetto all'integrità del messaggio rivelato.
Su questo punto la Chiesa cattolica, voi lo sapete, è gelosa, è severa, è esigente, è dogmatica.
Le formole stesse, in cui la dottrina è stata meditatamente e autorevolmente definita, non si possono abbandonare; a questo riguardo il magistero della Chiesa, anche a costo di sopportare le conseguenze negative dell'impopolare involucro della sua dottrina, non transige; non può fare altrimenti.
Gesù stesso, del resto, ha sperimentato la difficoltà del suo insegnamento; molti dei suoi uditori non l'hanno capito ( cfr. Mt 13,13 ); anzi perfino ai suoi prediletti discepoli, ai quali, come a tutti i presenti, pareva duro il suo discorso e ne provavano scandalo ( Gv 6,60-62 ), quando Egli annunciò loro il mistero eucaristico, Gesù non esitò a proferire una domanda molto dolorosa: « Volete andarvene anche voi? » ( Gv 6,68 ).
È un problema sempre angoscioso.
La funzione poi del magistero ecclesiastico è oggi diventata difficile e contestata.
Ma esso non può venir meno alla sua consegna, e deve dare la sua fedele testimonianza, a qualsiasi costo, quando in materia di fede e di legge divina ciò fosse necessario; ma tuttavia esso per primo studia ed incoraggia quanto possa rendere più accetto agli uomini del nostro tempo il suo insegnamento dottrinale e pastorale.
Voi, carissimi Figli, che certamente avvertite la prova, a cui ora è esposta la missione docente della Chiesa, la vorrete condividere e sostenere, con la vostra fedeltà, con l'appoggio ai buoni studi teologici e didattici, con la promozione dell'autentico insegnamento religioso, con la professione, nella preghiera liturgica e nella vita morale, della vostra fede cristiana, e anche con una certa indulgenza di famiglia alla non infrequente imperizia del discorso ecclesiastico e cattolico, scritto o parlato che sia.
Fiduciosi di ciò, ve ne ringraziamo con la Nostra Benedizione Apostolica.