18 Giugno 1969
Diletti Figli e Figlie!
Pare a noi di leggere nei vostri animi una domanda: ci dica qualche cosa del suo viaggio a Ginevra, del suo incontro con quella grande istituzione internazionale, che da cinquant'anni si occupa al più alto livello dei problemi del lavoro.
È stato un viaggio, quello del Papa all'Organizzazione Internazionale del Lavoro, un atto molto singolare: com'è stato accolto?
Quale significato gli si può riconoscere?
Quali risultati può avere?
Quali impegni ne derivano alla Chiesa e al mondo cattolico? eccetera.
Carissimi Figli!
Comprendiamo la vostra curiosità e Ci compiacciamo del vostro interesse circa questo recente Nostro viaggio, e apprezziamo soprattutto l'importanza che voi date a quell'ente che si qualifica dalla promozione al mondo del lavoro e al contatto che la Chiesa sente il dovere d'avere con esso.
Ma non risponderemo alle vostre domande.
Non siamo soliti a dare interviste.
E poi si è già fatta sufficiente pubblicità su questo avvenimento; e Noi non amiamo farne di più.
Lasciamo parlare le cose ed i fatti, che meritano d'essere ricordati e ripensati.
Vi diremo soltanto due cose.
La prima: che siamo stati accolti con estrema cortesia; e come a Noi piace: con semplicità e con rispetto, non solo alla Nostra modesta persona, ma ancor più alla Nostra parola e alla Nostra missione, per tanti aspetti vicina e convergente con l'alta e provvida funzione dell'Organizzazione medesima.
Sentiamo l'obbligo di rinnovare pubblicamente la Nostra riconoscenza per l'accoglienza fatta a Noi e alle personalità che Ci accompagnavano, come vogliamo ripetere le lodi e i voti espressi in quella circostanza per l'opera di quella medesima benemerita istituzione.
La seconda cosa: la Nostra impressione generale, che da quell'osservatorio, certo il più alto fra i tanti, Noi abbiamo avuto del mondo del lavoro.
Voi tutti sapete quanto questo stesso mondo sia complesso, quanto caratterizzato dalle trasformazioni sociali?
economiche, spirituali che ne derivano, e quanto ieri e oggi agitato da contrastanti ideologie, da divergenti interessi, da opposte concezioni sociali e politiche.
Visto così dall'alto, nel suo panorama complessivo, quale è stata la Nostra impressione?
È stata ottimista.
Non che siano risolte tutte le questioni, che fanno ancora del mondo del lavoro un campo pieno di tumultuanti fenomeni e di enormi bisogni: è palese il fermento che il lavoro moderno produce nella nostra società, che ormai assume il titolo di tecnocratica; sono ancora scoperte situazioni stridenti di angosciose necessità umane; è sempre fonte di apprensione "inquieto risveglio della coscienza delle classi lavoratrici; cresce il timore d'un fallace orientamento della mentalità moderna verso la sufficienza del progresso economico a soddisfare tutti i bisogni, anche spirituali, dell'uomo; e così via.
Ma nello stesso tempo dobbiamo prendere nota con soddisfazione che un ordinamento migliore si delinea nella storia dell'umanità, proprio in funzione del lavoro: sarebbe lungo e difficile darne adeguata notizia, specialmente in un breve e familiare colloquio come questo.
Ci basti osservare uno dei più evidenti aspetti di questo promettente orientamento.
È quello, che potremmo dire di certi superamenti ideologici, che sembravano impossibili, e che ora si manifestano non solo possibili, ma vantaggiosi, e già in via d'attuazione.
È superata, almeno teoricamente ( ed è già molto ), la concezione che il mondo del lavoro sia quello di fatali e irriducibili egoismi.
Che l'egoismo sia la tentazione perenne ed anche il peccato caratteristico del campo economico, derivante dal lavoro produttivo, dove sono beni temporali, ricchezze cioè da spartire, è comprensibile; il bisogno è naturale, la cupidigia è innata nell'uomo ( cfr. 1 Tm 6,10; Lc 12,15; ecc. ), il senso della giustizia distributiva è parimente radicato e ora reso potente e prepotente nel cuore del popolo; e perciò il contrasto di interessi è sempre presente ed esplosivo; gli egoismi di strutture economiche e gli egoismi di classe sono immanenti nella convivenza sociale, ma non insuperabili, ecco la novità, non indomabili da un senso più vivo del bene comune e della giustizia sociale, cioè da una razionalità superiore, che sta prendendo il sopravvento e va generando una civiltà più ordinata e pacifica.
Questo primo superamento ne comporta un altro, quello che pone l'uomo, in quanto tale, al primo posto nella gerarchia dei valori del mondo del lavoro: l'operatore vale più dell'opera, anche se questa costituisce il fine specifico del lavoro.
Nuovo superamento: il lavoro produce non solo ricchezze esterne all'uomo, ma anche interiori: prima fra queste la solidarietà, l'amicizia, la fratellanza; e così un duplice senso di personalità, quello d'essere qualcuno nella colleganza dell'attività comune, e quello di riconoscenza per chi ci ha procurato con la sua fatica gli agi della vita.
Anche questa è idea che si fa strada nella tecnopoli di per sé priva di valori sentimentali e psicologici.
Così si verifica il superamento del concetto pragmatico di progresso, come beneficio supremo e immediato di chi lo genera o ne gode, mentre il progresso viene configurandosi come servizio al bene comune, e sempre indirizzato all'incremento della dignità umana.
E finalmente il superamento della visione materialista del lavoro: volere o no, esso diventa rivelatore delle leggi del cosmo, cioè delle intenzioni misteriose e rigorose che il Pensiero creatore di Dio vi ha infuso, e subito rivelatore altresì della inesauribile capacità pensante e operante dell'uomo, che sa leggere nelle cose, da lui non prodotte, ma da lui dominate.
La mente di Dio s'incontra con la mente dell'uomo impegnato nel lavoro moderno, intelligente e potente.
Una luce nuova; un bacio nuovo.
L'incontro può essere meraviglioso, dapprima come un dialogo normale, poi come una nascente interrogazione, infine come un inno estatico.
Il superamento dell'irreligiosità, propria del materialismo moderno, apre un nuovo orizzonte allo spirito anchilosato del Lavoratore e dell'operatore.
Non è più vero che la religione sia morta a causa del trionfo della scienza e della tecnica; essa sale ad un piano superiore: di bisogno interiore incoercibile, di linguaggio, sempre balbettante e insufficiente, ma vivo, ma libero, ma ristoratore, quello d'un'interiore libertà ritrovata, è quello d'un amore supremo possibile.
L'operaio moderno specialmente ne ha tanto bisogno e tanto diritto.
E se Cristo, il collega per eccellenza dell'umanità faticante e ricercante, lo prende per mano, il suo spirito si apre, la sua lingua si muove, la sua preghiera si scioglie: questo è l'Uomo nascente nel secolo nuovo.
Il discorso si fa lungo; e qui lo fermiamo.
Non senza esortare noi tutti ad amare questo mondo del lavoro, a capire quali ricchezze umane, spirituali, cristiane esso ancora nasconda e possa rivelare ( cfr. Civ. Catt.: Alfaro, Tecnopolis e cristianesimo, giugno 1969 ).
Noi ne eravamo già persuasi; ma la nostra visita all'Organizzazione Internazionale del Lavoro ce ne ha dato nuova e felice impressione.
A voi la comunichiamo, con la Nostra benedizione apostolica.