10 Giugno 1970
Noi ci sentiamo in dovere di esprimere a voi che ci ascoltate, affinché la nostra voce giunga anche a tutti quelli che hanno spiritualmente partecipato alla commemorazione del cinquantesimo anniversario della nostra ordinazione sacerdotale, un vivo ringraziamento.
Come forse sapete, Noi avremmo personalmente preferito che questa ricorrenza passasse inavvertita, e solo da Noi celebrata, in silenzio, in preghiera, come un fatto ignorato dagli altri, e circondato gelosamente soltanto dai nostri ricordi e dal nostro interiore esame per il carattere sacerdotale, che ha qualificato la nostra umile persona, e fatto di noi un « dispensatore dei misteri di Dio » ( Cfr. 1 Cor 4,1; 2 Cor 6,4; 1 Pt 4,10 ), un ministro della Chiesa.
Ma ci siamo resi conto che non poteva essere così; per due motivi.
Primo, perché un sacerdote non appartiene più a se stesso; e la sua stessa vita spirituale è condizionata dalla comunione dei fratelli, ai quali si rivolge il suo ministero; egli è a loro disposizione, al loro servizio; e ciò che giova alla loro edificazione è scelta obbligata per il sacerdote; e ciò tanto più per noi, che, investiti dell'ufficio pastorale di questa Sede apostolica, spectaculum facti sumus: siamo posti alla vista di tutti ( 1 Cor 4,9 ), col titolo programmatico di « servo dei servi di Dio ».
Dovevamo quindi concederci all'interesse celebrativo, che tanti figli della Chiesa, e tanti anche oltre i suoi confini canonici, ci hanno voluto dimostrare.
Mentre dunque diciamo a tutti quelli che hanno voluto esserci spiritualmente vicini in questa singolare circostanza la nostra viva riconoscenza, al Signore rivolgiamo il tributo di felicitazioni e di voti a noi presentato come un'offerta che non a noi, ma a Lui piuttosto deve essere rivolta, « rendendo sempre grazie per tutto a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo ( Ef 5,20 ).
Noi stessi, quasi sopraffatti da tante testimonianze augurali, dobbiamo poi essere, non solo grati, ma lieti che esse rendano onore al sacerdozio, non tanto perché da noi per cinquant'anni, a qualche modo, esercitato, ma perché da Cristo istituito in salvezza della sua Chiesa e della umanità.
E la letizia è tanto più grande quanto più spesso oggi vediamo, con immenso nostro dolore, e con pianto della Chiesa fedele, contestato, discusso, vilipeso, tradito, negato questo misterioso e ammirabile sacerdozio ministeriale, istituzione divina, scaturita dal cuore di Cristo proprio nell'ora in cui Cristo si tramutò in alimento sacrificale per essere comunicato a ciascuno dei suoi seguaci e per far di Sé Redentore principio di carità e di unità di tutto il Corpo Mistico, la Chiesa, vincendo i confini tanto ristretti del tempo e dello spazio.
L'Eucaristia è infatti, nelle intenzioni di Cristo, un superamento della solitudine, in cui si trova ogni uomo che abbia vita personale, bambino o vecchio che sia; ed è un superamento della lontananza che la storia e la geografia interpongono fra le generazioni e fra le dislocazioni dell'umanità sulla terra.
All'esecuzione di così inaudito e stupendo disegno occorreva uno strumento umano, un potere delegato rinnovatore del miracolo sacramentale, un servizio annunciatore e distributore ( come fu all'episodio evangelico, profetico e simbolico della moltiplicazione dei pani ), della Parola fatta pane di vita, carne e sangue dell'Agnello pasquale salvatore e liberatore, occorreva un ministero qualificato, occorreva il Sacerdozio di Cristo stesso, trasfuso in uomini, sublimati da discepoli in apostoli e in sacerdoti.
Quando la teologia, la liturgia, la spiritualità, e vogliamo aggiungere la sociologia, metteranno in evidenza, nuovamente ai giorni nostri, queste segrete e luminose verità, come si conviene alle realtà divine ch'esse contengono e alle capacità conoscitive dell'uomo moderno, sarà grande fortuna e grande esultanza nella Chiesa e nel mondo; e il divino Sacerdozio di Cristo, comunicato nel Sacerdozio ministeriale, sarà rivendicato nella sua dignità e nella sua missione.
Per questo, fratelli e figli carissimi, abbiamo gradito le onoranze, semplici ma sincere, rese al nostro Giubileo sacerdotale; non a noi, fragile creta, ma al Sacerdozio di Cristo, al tesoro divino, a noi, come ad ogni altro Sacerdote, affidato ( Cfr. 2 Cor 4,7 ).
Ma vi è una spiegazione, che dobbiamo ricordare, e che rende ragione della commemorazione del medesimo nostro Giubileo sacerdotale; ed è la bontà di chi l'ha promossa e di chi ha voluto prendervi parte.
Oh! non è che Noi la ignoriamo codesta bontà, la vostra bontà, fratelli e figli della santa Chiesa; noi la conosciamo, noi la sperimentiamo ogni giorno.
Essa è l'oggetto della nostra ammirazione, della nostra riconoscenza, della nostra fiducia, della nostra preghiera.
La bontà dei Vescovi, dei Sacerdoti, dei Religiosi e delle Religiose, del Laicato cattolico, di tanta nostra Gioventù, di tanta infanzia innocente, di tanti pazienti nel dolore, di tanti missionari, di tanti collaboratori, di tanti amici, di tanti fedeli-fedeli … credete voi che possa essere trascurata dalla nostra valutazione della Chiesa odierna?
Dubitate forse che il Papa non abbia occhi, non abbia cuore?
No certo; voi sapete che codesta fedeltà, codesta bontà sono sempre a Noi presentissime.
Ma in questa occasione è capitato questo: che Noi abbiamo avuto esperienza di tanta bontà.
Ne abbiamo avuto una prova, possiamo dire, nuova e sensibile.
Noi abbiamo sentito sorgere da voi, dalla Chiesa tutta e da tante altre persone che le sono, per qualche motivo, vicine, un coro, un grande coro, che non poteva non riempirci di commozione e di consolazione.
Quante voci, quante voci in armonia, per congratularsi con noi del Sacerdozio di Cristo a noi conferito e da noi per cinquant'anni esercitato.
Noi abbiamo ascoltato piangendo e benedicendo Iddio questa onda saliente di voci autorevoli e gravi alcune, di voci affettuose e pie altre, di voci umane vicine e lontane innumerevoli.
Lasciate che diamo questo riconoscimento di bontà, di cortesia, di pietà, di augurio a tutte, ma che vi diciamo quanto conforto ci abbiano portato specialmente alcune: quelle delle persone consacrate al Signore, quelle dei nostri Seminari e Noviziati, quelle di Lavoratori cristiani, quelle di tante Scuole ed Ospedali: voci squillanti ed innocenti, voci fioche e doloranti.
Quanto è buona la Chiesa, ci siamo detti; quanto buona la società stessa profana che ci circonda!
Quale attestato delle virtù cristiane ed umane è venuto al povero Successore di Pietro, che nelle presenti vicissitudini non può spesso celare la sua pena per tante cause, a tutti ben note, di apprensione per la fede, per la carità, per la pace nella Chiesa e nel mondo.
Vogliamo, a titolo di esempio, citarvene due di queste voci, due testimonianze orali, senza escluderne nessun'altra!
Ecco: quella d'un ragazzo proveniente da un Paese oltre cortina, durante un'Udienza generale; un ragazzo del popolo, timido e ardito, trasparente di semplicità e di innocenza, il quale s'era imparato a memoria alcune parole in latino e alcune nella sua propria lingua per dire a noi la sua fedeltà e quella del suo Paese.
Egli ci costrinse a fermarci un istante, perché lo ascoltassimo.
Come non farlo, anche in momento così poco propizio, affascinati da tanto candore e da tanto evangelica bontà?
E quella d'un vecchio venerando, un po' tremante, ma sicuro del messaggio che, dopo una cerimonia in San Pietro, si era prefisso di comunicarci; ed era questo: « Coraggio, Santo Padre, coraggio! ».
Era Saverio Roncalli, il fratello di Papa Giovanni, quasi interprete del Nostro venerabile Predecessore.
Così! Grazie, grazie a tutti; e a tutti la Nostra Apostolica Benedizione.