24 Giugno 1970
Il nostro studio su lo spirito del Concilio, quello spirito che deve formare in noi una nuova ed autentica mentalità cristiana e deve esprimersi in un nuovo stile di vita ecclesiale, ci porta facilmente al tema della povertà.
Se ne è parlato molto.
Aprì il discorso il Nostro venerato Predecessore Papa Giovanni XXIII con il radiomessaggio ai cattolici di tutto il mondo, un mese prima del Concilio, accennando, fino d'allora, ai problemi che la Chiesa trova davanti a sé, dentro e fuori dell'ambito suo, e affermando che « la Chiesa si presenta qual è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei Poveri ».
Questa parola ebbe un'eco immensa.
Era essa stessa eco d'una parola biblica, venuta da lontano, dal Profeta Isaia ( Cfr. Is 58,6; Is 61,1ss ) e fatta propria da Gesù, nella sinagoga di Nazareth: « Io sono mandato per annunciare ai Poveri la buona novella » ( Cfr. Lc 4,18 ).
Tutti sappiamo quale importanza abbia in tutto il Vangelo il tema della povertà: a cominciare dal sermone delle beatitudini, nel quale i « Poveri di spirito » hanno il primo posto, non solo nel sermone, ma nel Regno dei cieli, per continuare nelle pagine dove gli umili, i piccoli, i sofferenti, i bisognosi sono magnificati come i cittadini preferiti del medesimo regno dei cieli ( Mt 18,3 ) e come i rappresentanti viventi di Cristo stesso ( Mt 25,40 ).
L'esempio poi, e soprattutto, di Cristo è la grande apologia della povertà evangelica ( Cfr. 2 Cor 8,9; S. Aug., Sermo 14 ).
Sappiamo; e faremo bene a ricordarlo, proprio in omaggio a quella autenticità cristiana, che, auspice il Concilio, conforme al genio spirituale del nostro tempo, noi tutti andiamo cercando.
Il tema è molto vasto; e Noi non pretendiamo affatto darvi qui svolgimento; solo lo ricordiamo, per la sua importanza teologica: la povertà evangelica comporta infatti una rettifica del nostro rapporto religioso, con Dio e con Cristo, a causa dell'esigenza primaria che questo rapporto afferma dei beni dello spirito nella classifica dei valori degni d'essere prefissi alla nostra esistenza, alla nostra ricerca e al nostro amore: « Cercate come prima cosa il regno di Dio » ( Mt 6,33 ); e che svaluta - ecco la povertà! - nella graduatoria di stima verso i beni temporali, la ricchezza, la felicità presente, al confronto con il sommo Bene, che è Dio, e con il suo possesso, che è la nostra eterna felicità.
L'umiltà dello spirito ( S. Aug., Enarr. in Ps. 74 ) e la temperanza, e sovente il distacco, sia nel possesso, che nell'uso dei beni economici, costituiscono i due caratteri della povertà, che il Maestro divino ci ha insegnata con la sua dottrina e ancor più, come dicevamo, col suo esempio: Egli si è rivelato, socialmente, nella povertà.
Come subito si vede, questo principio teologico, su cui si fonda la povertà cristiana, diventa un principio morale, informatore dell'ascetica cristiana: la povertà, vista nell'uomo, è, più che un dato di fatto, il risultato volontario d'una preferenza d'amore, scelta per Cristo e per il suo regno, con rinuncia, ch'è una liberazione, alla cupidigia della ricchezza, la quale comporta una serie di cure temporali e di vincoli terreni, occupando con prepotenza grande spazio nel cuore.
Ricordiamo l'episodio evangelico del giovane ricco, il quale, posto nell'alternativa della sequela di Cristo, e dell'abbandono delle proprie ricchezze, preferisce queste a quella, mentre il Signore « lo guarda e lo ama » ( Mc 10,21 ), e lo vede andarsene tristemente.
Ma il Concilio ci ha richiamato, ancor più che alla virtù personale della povertà, alla ricerca e alla pratica d'un'altra povertà, quella ecclesiale, quella che dev'essere praticata dalla Chiesa in quanto tale, come collettività riunita nel nome di Cristo.
Vi è in una pagina del Concilio una parola grande a questo proposito; la citiamo anche tra le molte altre, che incontriamo su questo tema nei documenti conciliari; essa dice: « Lo spirito di povertà e di amore è infatti la gloria e la testimonianza della Chiesa di Cristo » ( Gaudium et spes, 88 ).
Essa è una parola luminosa e vigorosa, che esce da una coscienza ecclesiale in pieno risveglio, avida di verità e di autenticità, e desiderosa di affrancarsi da costumanze storiche, che ora si dimostrassero difformi dal suo genio evangelico e dalla sua missione apostolica.
Un esame critico, storico e morale, s'impone per dare alla Chiesa il suo volto genuino e moderno, in cui la presente generazione desidera riconoscere quello di Cristo.
Chi ha parlato a questo proposito si è particolarmente soffermato sopra questa funzione della povertà ecclesiale, quella cioè di documentare la giusta visibilità della Chiesa ( Cfr. Congar, Pour une Eglise servante et pauvre, p. 107 ).
Così parlò specialmente il Card. Lercaro, alla fine della prima sessione del Concilio ( 6 dicembre 1962 ), insistendo su l'« aspetto », che la Chiesa oggi deve mostrare, agli uomini del nostro tempo in modo particolare, l'aspetto col quale si è rivelato il mistero di Cristo: l'aspetto morale della povertà, e l'aspetto sociologico della sua estrazione preferenziale fra i Poveri.
Tutti vediamo quale forza riformatrice abbia l'esaltazione di questo principio: la Chiesa dev'essere povera; non solo; la Chiesa deve apparire povera.
Forse non tutti vedono quali giustificazioni possono darsi di aspetti diversi assunti storicamente dalla Chiesa nel corso della sua vita secolare e al contatto con particolari condizioni della civiltà;
quando, ad esempio, l'aspetto della Chiesa apparve come quello d'una grande proprietaria terriera, essendo lei impegnata a rieducare le popolazioni al lavoro dei campi;
ovvero come quello d'un potere civile, quando sfasciatosi questo, occorreva chi lo esercitasse con umana autorità;
ovvero quando per esprimere il suo carattere sacro e il suo genio spirituale ornò di magnifici templi e di ricche vesti il suo culto;
o per esercitare il suo ministero assicurò pane e decoro ai suoi ministri;
o per dare impulso all'istruzione o all'assistenza del popolo fondò scuole e aperse ospedali;
o ancora per immedesimarsi nella cultura di dati momenti storici parlò sovranamente il linguaggio dell'arte ( Cfr. ad es. G. Kurth, Les origines de la civilisation moderne ).
Come si potrebbe, proprio ad onore dell'economia di povertà della Chiesa, facilmente dimostrare che le favolose ricchezze, che di tanto in tanto certa pubblica opinione le attribuisce, siano di ben diversa misura, spesso insufficienti ai bisogni modesti e legittimi della vita ordinaria, sia di tanti ecclesiastici e religiosi, sia di istituzioni benefiche e pastorali.
Ma non vogliamo ora fare questa apologia.
Accettiamo piuttosto l'istanza che gli uomini d'oggi, specialmente quelli che guardano la Chiesa dal di fuori, fanno affinché la Chiesa si manifesti quale dev'essere, non certo una potenza economica, non rivestita di apparenze agiate, non dedita a speculazioni finanziarie, non insensibile ai bisogni delle persone, delle categorie, delle nazioni nell'indigenza.
Né vogliamo ora esplorare questo campo immenso del costume ecclesiale.
Vi accenniamo appena, affinché sappiate che noi lo abbiamo presente e che già vi stiamo lavorando con graduali, ma non timide riforme.
Noi notiamo con vigile attenzione come in un periodo come il nostro, tutto assorbito nella conquista, nel possesso, nel godimento dei beni economici, si avverta nella opinione pubblica, dentro e fuori della Chiesa, il desiderio, quasi il bisogno, di vedere la povertà del Vangelo e la si voglia ravvisare maggiormente là dove il Vangelo è predicato, è rappresentato; diciamo pure: nella Chiesa ufficiale, nella nostra stessa Sede Apostolica.
Siamo consapevoli di questa esigenza, interna ed esterna, del nostro ministero; e, con la grazia del Signore, come già molte cose sono state compiute in ordine alle rinunce temporali e alle riforme dello stile ecclesiale, così proseguiremo, col rispetto dovuto a legittime situazioni di fatto, ma con la fiducia d'essere compresi e aiutati dal popolo fedele, nel nostro sforzo di superare situazioni non conformi allo spirito e al bene della Chiesa autentica.
La necessità dei « mezzi » economici e materiali, con le conseguenze ch'essa comporta: di cercarli, di richiederli, di amministrarli, non soverchi mai il concetto dei « fini », a cui essi devono servire e di cui deve sentire il freno del limite, la generosità dell'impiego, la spiritualità del significato.
E alla scuola del divino Maestro ricorderemo tutti di amare simultaneamente la povertà ed i Poveri; la prima per farne austera norma di vita cristiana, i secondi per farne oggetto di particolare interesse, siano essi persone, classi, nazioni bisognose di amore e di aiuto.
Anche di questo ci ha parlato il Concilio.
Abbiamo cercato e cercheremo di ascoltarne la voce.
Ma il discorso su la Chiesa dei Poveri dovrà continuare; per noi e per voi tutti, con la grazia del Signore.
E con la Nostra Apostolica Benedizione.