29 Luglio 1970
Il nostro discorso a queste Udienze generali, Noi lo ripetiamo, non è che uno spunto sopra temi che meriterebbero ben altra trattazione; ma a Noi sembra che valga, in una circostanza come questa, più l'importanza dei temi che il loro svolgimento.
È un atto di fiducia, che così noi facciamo ai Nostri visitatori, alla vostra intelligenza e al vostro proposito di studio e di riflessione.
Parliamo di Dio.
Ogni tema su Dio - pensate: su Dio! - esige questa preventiva qualificazione, riconoscendo Noi per primi il carattere assolutamente elementare e incompleto delle Nostre parole.
Noi ci interessiamo adesso delle tentazioni più grosse e più diffuse nei riguardi del nome di Dio.
L'altra volta, scegliendo fra queste tentazioni, consideravamo la prima: cioè è impossibile conoscere Dio.
Ora ne ascoltiamo un'altra, all'apparenza più banale, ma non meno profonda e formidabile, che dice: è inutile occuparsi di Dio.
È la tentazione che diventa facilmente operante; cioè si fa negazione, ed ha subito la sua applicazione: la rinuncia alla ricerca di Dio, l'abbandono della pratica religiosa, e l'acquisto di una certa tranquillità di coscienza, tanto in ordine alla questione speculativa circa il buon fondamento d'un nostro rapporto con Dio, quanto in ordine alle conseguenze morali che ne derivano.
Inutile, si dice, porsi un problema religioso: o non ammette soluzione, o non giova affatto ch'esso ne abbia una.
Si vive lo stesso; non c'è più bisogno di porsi un problema così difficile, e praticamente superfluo.
È per molti un assioma, che sa di scoperta, di liberazione: via libera; non v'è più bisogno di Dio.
La mentalità moderna, tutta imbevuta di razionalismo scientifico, soddisfatta dei risultati del campo di cognizioni, che le dànno la soddisfazione non solo di capire ciò ch'essa studia, ma di convertire il suo sapere nell'operare e nel trarre vantaggi dalle sue cognizioni, nel godere delle conquiste del proprio studio e del proprio lavoro, non chiede altro.
Anzi, proclamata l'inutilità di Dio, essa afferma, si vive meglio; si guadagna tempo, si concentra l'attenzione e l'attività su cose delle quali si misura la realtà, si risolvono problemi che sembrano i soli veri e interessanti, quelli economici innanzi tutto, poi quelli sociali, quelli politici, e così via; si rompono tanti vincoli ormai superflui per l'uomo adulto e progredito, convenzionali, superstiziosi, noiosi.
Sarebbero da citare certe antiche espressioni dei Salmi: non est Deus, non c'è più Dio ( Cfr. Sal 14,1; Sal 53,2 ).
Su questa affermazione, speculativa o empirica che sia, circa l'inutilità di Dio, e perciò della religione, della fede, dell'orazione, e alla fine del confronto della propria coscienza con una eventuale e inesorabile esigenza di legge divina, si potrebbe costruire in cento diverse figure la fisionomia tipica di moltissima gente del nostro tempo, che incontriamo nel mondo in cui viviamo, e troviamo dipinta in tante pagine della letteratura moderna; l'indifferentismo, l'agnosticismo, il pessimismo, l'irrazionalismo, l'anticlericalismo, l'ateismo, ecc., di cui è tessuta la psicologia di molti nostri contemporanei, si alimentano spesso da questa medesima radice della presunta vanità d'un concludente e proficuo problema teologico.
Come vedete, non è questa la posizione nostra, affatto.
Noi battezzati, noi credenti, noi specialmente ministri dei misteri di Dio, non solo non ammettiamo l'opinione, e nemmeno l'ipotesi dell'inutilità del nome di Dio nel contesto della vita umana, ma affermiamo il contrario.
Dio è necessario!
È l'Essere necessario, l'unico necessario in Sé, e necessario per noi.
È bene saldare la nostra convinzione a questo capitale principio.
Ciò che più vale, ciò che più preme per noi è proprio questo realissimo, beatissimo nome di Dio.
Così si apre la legge costituzionale dell'universo: « Io sono il Signore Dio tuo » ( Es 20,2; Es 20,7 ); e così suona la nostra sovrana preghiera: « … sia santificato il Tuo nome, venga il Tuo regno … ».
La lezione dominante del Vangelo, al quale è offerta la nostra esistenza, ci ammonisce sempre così: « Cercate prima il regno di Dio … » ( Mt 6,33 ).
Forse qualcuno obietterà: dovere, non utilità.
Ma se si analizza l'intrinseca necessità di questo dovere morale, libero, sì, ma erompente dall'esigenza costituzionale del nostro essere, si vede che la prima e massima utilità coincide per noi col primo e massimo nostro dovere; e se anche per questo dovere noi dovessimo spendere ogni nostro vantaggio e la nostra stessa vita, il nostro calcolo non sarebbe sbagliato; lo dice Gesù, il Maestro, martire poi delle sue parole: « Chi ama la propria vita, la perderà; e chi disprezza la propria vita in questo mondo la custodisce per la vita eterna » ( Gv 12,25 ).
Se Dio è per noi la vera ragione per cui ci è data la vita, dedicare a Lui pensiero, cuore, azione, significa, oltre che rispondere al fine nostro essenziale, realizzare noi stessi.
Così ci ricorda S. Ignazio con la prima meditazione dei suoi esercizi spirituali: homo creatus est … e così ci rispondeva il bambino della nostra scuola di catechismo, scuola della somma sapienza, alla domanda: « perché Dio ti ha creato?
mi ha creato per conoscerlo, per amarlo, per servirlo in questa vita; e per poi goderlo eternamente nell'altra ».
Ma la tentazione insisterà: cui bono? a che serve Dio nella vita nostra?
Tutti i nostri giudizi sottostanno alla misura del profitto immediato e personale.
Siamo antropocentrici; cioè a noi più preme il nostro io, che l'onore e il servizio di Dio; siamo utilitaristi, siamo egoisti.
Più che all'essere e al dover essere noi badiamo al valore, cioè al rapporto di utilità; e ancora sulla bilancia dei valori, delle cose preziose, le nostre cose, i nostri interessi, i nostri piaceri tendono a prevalere sul sommo Bene, ma tanto per noi misterioso, tanto irriducibile alla nostra consueta esperienza, il Quale si chiama Dio.
Ancora una parola di Cristo, grave e drammatica come una sentenza, ci obbliga a rivedere il gioco della nostra bilancia: « Che cosa giova infatti all'uomo, se anche guadagna il mondo intero, e poi perde l'anima sua? » ( Mt 16,26 ).
E come l'uomo può salvare l'anima sua?
Ecco che la tentazione circa la inutilità di Dio svela il suo inganno: la grande, la suprema questione della nostra salvezza come la risolveremo dimenticando ciò che la fede, in Dio, in Cristo, nello Spirito Santo, c'insegna a tale riguardo?
Questo indispensabile vantaggio, questa unica vera utilità solo da Dio ci può venire; da Lui che dice: « Io sono la tua salvezza » ( Sal 35,3 ).
E quanti altri vantaggi derivano a noi, se il nome di Dio splende su la nostra vita.
Il loro elenco sarebbe troppo ampio e troppo lungo, se lo volessimo appena descrivere:
da quelli nel campo del pensiero: Dio è la luce.
Come in quello dell'operare: Dio è il vero Bene, Dio è l'Amore;
come, alla fine, si sostiene un'etica senza Dio?
Ed anche un cristianesimo, tutto rivolto, in linea orizzontale, secondo l'espressione moderna, cioè senza Dio e perfino senza Cristo-Dio, rivolto verso gli altri, verso gli uomini, come si reggerà senza il flusso verticale dell'amore di Dio che discende, e risale a Dio, e non si esaurirà e forse non si pervertirà, non potendo più avere questo intimo cogente nome di Dio, e così dare autenticamente agli altri il nome di fratelli, cioè figli dello stesso Padre-Iddio?
Non releghiamo il nome di Dio fra i concetti vani e superati, inutili ormai all'uomo libero e padrone di sé, ma quanto più noi siamo affrancati dai vani pensieri e dai miti superati, sentiamo la virtù, la pienezza, la bontà di quel nome benedetto, e celebriamone la Realtà ineffabile nella fede e nell'amore.
Vi conforti a tanto la Nostra Benedizione Apostolica.