24 Marzo 1971
Siamo nel periodo quaresimale, cioè in quella stagione dell'anno liturgico che ci prepara alla celebrazione della Pasqua, la festa della Redenzione, la quale festa commemora la morte e la risurrezione di Cristo, e celebra questo avvenimento storico e mistico, tanto nella sua origine evangelica quanto nella sua attuale applicazione all'umanità, alla Chiesa, alle nostre anime, nel suo fatto evangelico cioè, e nel suo divenire ecclesiale.
Questo secondo aspetto, il suo divenire nell'umanità, la sua irradiazione, la sua attualità relativa a noi credenti, a noi uomini viventi nella storia presente, è ora oggetto del nostro interesse.
Cioè pensiamo a noi stessi in ordine al mistero pasquale, che deve essere fatto nostro, che deve da Cristo riverberare in ciascuno di noi la sua luce, la sua salvezza.
Cerchiamo ora di metterci in condizione di riprodurre in noi il mistero pasquale, il quale è tutto opera di Cristo, opera della sua grazia; ma esige tuttavia che noi siamo disposti ad accogliere questa sua virtù redentrice, che ci mettiamo nella traiettoria della sua azione salvatrice; in altri termini, che ci « convertiamo » al disegno divino in ordine alla nostra salvezza, che ritorniamo sulla via autentica del nostro vero destino, sulla quale corre la divina misericordia, la vita nuova, che ci è promessa, e che sola è la nostra fortuna.
Bisogna allora che riformiamo noi stessi per essere idonei a ricevere la salute di Cristo.
In questo ordine di idee si colloca tutto il sistema della vita morale cristiana, la quale ha due fasi, una condizionale, che precede l'incontro vivificante con Cristo, l'infusione del suo Spirito, della sua grazia; l'altra risultante, che segue tale incontro; la prima è caratterizzata dalla penitenza, la seconda dalla coerenza; entrambe dalla fede.
Se noi ora, ossequienti alla pedagogia liturgica, ci poniamo nella prima fase, quella preparatoria e specificamente ascetica, quali doveri incontriamo?
Anche questa domanda si apre su risposta sconfinata: i doveri relativi alla nostra riforma morale sono infatti senza numero.
Ma possiamo ridurli ad alcune categorie generali, che ci sono suggerite dal Vangelo della prima domenica di quaresima, il Vangelo delle tentazioni di Cristo, nelle quali possiamo vedere, in certo modo, raffigurate e riassunte le nostre tentazioni.
E prima d'ogni altro discorso sarebbe da fare proprio quello sulla tentazione, cioè sulla fallace apparenza del bene.
Decipimur a specie recti: ci lasciamo ingannare da aspetti errati, cioè apparenti, parziali, errati del bene; sia del bene in sé, sia del bene a riguardo di noi stessi, «vimagini di ben seguendo false » ( Dante, Purg. 30, 131 ): psicologia e morale qui si confondono, e danno inesauribile motivo all'analisi e alla narrativa del dramma umano.
Qual è la prima, l'eterna, la universale, la moderna tentazione?
Cioè qual è il primo ostacolo generale al conseguimento della salvezza pasquale, della redenzione di Cristo?
Ricordate la prima tentazione del diavolo a Gesù nel deserto?
Non è tanto quella della fame, ch'è bisogno naturale di vita attinta da cibo fuori dell'uomo, quanto quella - e subito la storia si fa complessa e insidiosa - di definire tale bisogno, che nelle sue imperiose esigenze fisiche sembra primario ed unico, di stabilire poi l'alimento proporzionato alla fame dell'uomo, alimento che sembra essere solo il pane materiale, e di impiegare finalmente tutte le energie dell'uomo, quelle superiori specialmente, quelle spirituali, per trasformare le pietre in pane, cioè il mondo esteriore, inerte e materiale in cibo adeguato e sufficiente ai desideri e alla vita dell'uomo stesso.
Diciamo, per quanto riguarda il nostro tempo: la tentazione materialista.
Chi può, in accenni così brevi e così elementari come questi, darne una definizione adeguata, una descrizione approssimativa almeno, che non sia artificiosa e non di comodo oratorio?
Ma essa, questa tentazione materialista, è così diffusa e connaturata col mondo contemporaneo, che forse non occorre consumare parole, per richiamarne quel generico concetto morale, di cui in questo momento noi ci interessiamo.
Basta un principio-chiave per indicare il sistema a cui alludiamo: contèntati di questo mondo: qui è la realtà, qui è la vita, qui è la pienezza dell'uomo, qui è la ricchezza che basta, o almeno che deve avere il primo posto nelle aspirazioni umane; qui è il tuo regno; il resto illusione, alienazione, oppio, mito.
Essa è la tentazione caratteristica del nostro tempo, tanto più seducente quanto più vasto, fecondo, godibile è apparso allo studioso e all'operatore il mondo accessibile all'esperienza.
La coscienza individuale e ancora più quella sociale s'è imbevuta di questa certezza, anzi di questa fede: tutto si riduce alla natura, e la natura alla materia.
Da questa radice monista sono scaturite le idee che hanno costituito le forze del pensiero, della politica, della sociologia, dell'economia, della vita vissuta nell'ultimo nostro periodo storico, e di tanta parte della cultura moderna.
Questa concezione materialista si è fatta forte d'indiscutibili studi, di formidabili energie, di alti ideali: la scienza, la ricchezza, la giustizia, la speranza: tutte cose vere, sotto certi aspetti; ma di verità limitate, incomplete, insufficienti, più atte a suscitare aspirazioni insaziabili, che a soddisfare quelle profonde e risolutive dei destini umani.
Egoismo e lotta, legalismo e utopia, interesse e idealismo s'intrecciano nella vicenda storica, sociale e politica del nostro tempo, tutto preso dalla persuasione che la soluzione dei massimi problemi umani è raggiungibile dalle forze proprie dell'uomo, mediante la conquista del dominio esteriore delle cose di questo mondo, e che altro avvenire non esiste al di là del tempo concesso alla nostra esistenza biologica.
La vita presente è tutto.
Questa è la nostra tentazione.
Non basterà a superarla l'osservare come questo conato di umanesimo materialista abbassa in realtà la statura dell'uomo ad un livello temporale e animale, nega all'individuo la sua originale personalità, scatena egoismi prepotenti, singolari o collettivi che siano, allarga enormemente la sfera della potenzialità umana, ma la priva delle ragioni trascendenti della giustizia e dell'amore, e fra tanta luce di artificiose teorie tenta di spegnere quelle del sole del Dio vivente, personale, salvatore?
La vita presente è tutto?
Noi ascoltiamo le parole del Maestro nostro Signore: « Non di solo pane vive l'uomo … » ( Mt 3,4 ).
E poi: « Beati i poveri di spirito … » i non sazi di questa terra, ma « quelli che hanno fame e sete di giustizia … » ( Mt 5,3-6 ).
E ancora: « Il mio regno non è di questo mondo … » ( Gv 18,36 ).
E così tutto il Vangelo, che introduce nella breve logica umana una concezione più ampia, più aperta, più sicura dei destini dell'uomo e della realtà metafisica dell'universo e della storia.
Introduce una sapienza nuova, introduce una rivelazione superiore, una speranza inesauribile, una salvezza soprannaturale.
Non è che il Vangelo disconosca l'esistenza presente, la necessità molteplice che le è propria, il dovere d'una sempre migliore giustizia, d'uno sviluppo, la funzione cioè del tempo presente, dell'ordine terreno, dei beni economici, della vera pace nel mondo, ma esso contempla l'uomo integrale, e allarga i confini della vita temporale, contesta il valore assoluto della felicità presente, finalizza ogni cosa, anche se riconosciuta legittima e autonoma nel suo campo specifico, per un regno superiore, il « regno dei cieli », per la vita soprannaturale ed eterna, per la vera salvezza.
Quella pasquale, da guadagnare nel tempo, da godere nell'eternità.
L'orologio degli anni segna anche quello presente come un'ora di risveglio alla luce, alla redenzione, alla vita.
Ci pensiamo?
Con la Nostra Benedizione Apostolica.