25 Agosto 1971
Ancora alla ricerca delle parole ideali, che caratterizzano l'insegnamento del Concilio, Noi ne troviamo una, posta in vista con particolare insistenza, e degna quindi del Nostro studio; ed è la parola: servire.
Sembrerebbe affermazione contraria al termine di « libertà », che abbiamo non meno veduto difesa e proclamata dal Concilio.
Ma i due termini: servizio e libertà non si oppongono fra di loro nel pensiero conciliare, perché l'uno e l'altro si riferiscono a contesti dottrinali diversi, anzi possono trovarsi nel medesimo contesto con significati complementari d'un medesimo atteggiamento religioso e morale, come, ad esempio: dobbiamo servire liberamente Iddio, Cristo, la Chiesa, il prossimo.
Dunque, bisogna vedere a che cosa si riferisce, e che cosa significa il servizio, che il Concilio predica come uno dei concetti preferiti della sua dottrina.
Il Concilio parte dal disegno divino della salvezza del mondo, la quale ha avuto Cristo per artefice subordinato alla volontà del Padre.
Il concetto di dipendenza da Dio Padre, concetto ch'è proprio del servire, scolpisce la figura di Cristo, già prefigurato nella celebre profezia del Servo di Jahve, Israele cioè personificato nel Messia redentore ( Cfr. Is 49ss; Is 53 ), Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, venuto nella storia del mondo, com'Egli stesso ci annuncia, « per servire e per dare la sua vita in riscatto per molti » ( Mc 10,45 ).
È l'idea fondamentale del piano della salvezza che rivela due intenzioni relative al servizio di Cristo: l'inserzione dapprima della volontà di Cristo medesimo nella volontà sovrana, misteriosa e misericordiosa del Padre, Gesù è soggetto, è obbediente « fino alla morte » ( Fil 2,8 ) al volere supremo del Padre; e quantunque Egli stesso fosse di natura divina ( « in forma Dei esset ») ( Fil 2,6 ), ha voluto assumere la natura del servo, quella umana, fino all'annientamento di sé ( Fil 2,7 ).
Si potrebbero moltiplicare le testimonianze di Gesù medesimo a proprio riguardo circa la sua assoluta dipendenza dalla volontà del Padre celeste.
Riassumiamole in queste due; prima questa: « Io faccio sempre quello che piace a Lui ( il Padre ) » ( Gv 8,29; Gv 11,31; ecc. ); e l'altra, sublime e tragica, nel Gethsemani: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice ( della passione ); per altro non come voglio Io, ma come vuoi Tu » ( Mt 26,39 ).
Non si può comprendere e ricostruire qualche cosa della figura di Cristo, senza avvertire l'essenziale rilievo che in Lui assume il compimento della volontà del Padre ( Cfr. Adam, Cristo nostro Fratello ), cioè d'una obbedienza, che lo curva al servizio prima, lo innalza poi alla gloria dello stesso suo Padre celeste ( Fil 2,9-11 ).
Questa la condizione stabilita da Dio e scelta da Cristo!
Sarebbe qui da leggere e da meditare la pericope della lettera agli Ebrei ( Eb 10,5-10 ), la quale ci richiama all'attenzione che guida questa scelta di servizio, di umiltà, di sacrificio; è l'intenzione dell'opera redentrice.
Perché Gesù è così disceso da dire di se stesso: « Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire »? ( Mt 20,28; Rm 5,6; Rm 8,34; 1 Tm 2,6 )
Perché? Risponde il « Credo » della Messa: « per causa di noi uomini e della nostra salute ».
La nostra salvezza è la ragione, è l'amore che ha indotto Cristo a farsi servo, a farsi vittima per noi ( Cfr. Lumen gentium, 5 ).
La parola « servire » non indica più una degradazione insopportabile alla dignità e alla libertà della persona umana, ma, vista nella funzione e nella finalità, per cui Cristo la fece propria, acquista il più alto valore morale, quello del dono di sé, dell'eroismo, del sacrificio, dello sconfinato amore.
Ma nei testi conciliari la citazione di questa dura e grande parola ha un riferimento speciale, sul quale non possiamo sorvolare ( anche se altre volte vi abbiamo fatto cenno ); ed è il riferimento a coloro che nella Chiesa sono rivestiti d'autorità cioè a coloro che compiono sugli altri e per gli altri una qualche funzione dottrinale, santificatrice, normativa.
Per Gesù, per il Concilio, per la Chiesa, l'autorità è servizio.
Questa equazione: autorità eguale servizio è severa e perentoria.
Non ve n'è un'altra ( Cfr. Lc 22,25; Mc 10,42-45; cfr. Manzoni, sul Card. Federigo; « non ci essere giusta superiorità d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio », c. XXII ).
Questa è la lezione, che possiamo dire costituzionale, e che il Concilio ha esposto in molte sue pagine.
Non per nulla l'esercizio dell'autorità nella Chiesa si chiama ministero; e non per nulla l'autorità della Chiesa ha carattere pastorale: « L'ufficio che il Signore affidò ai Pastori del suo popolo, insegna il Concilio, è un vero servizio, che nella Sacra Scrittura è chiamato intenzionalmente diaconia, cioè ministero » ( Lumen gentium, 24 ).
L'esperienza storica ( come quella che in passato ha abbinato il potere temporale a quello spirituale, e non solo a Roma, ma in tante altre Chiese locali europee ), e l'istintiva tendenza umana di fare dell'esercizio dell'autorità un'affermazione di dominio personale, o una fonte di profitto economico hanno reclamato la restaurazione del concetto genuino dell'autorità nella Chiesa ( e anche nel campo civile ) ( Cfr. Gaudium et Spes, 74 ):
non despotismo, non orgoglio, non egoismo, non trionfalismo, ma ricerca del bene comune e servizio non lieve, non facile a vantaggio dei più bisognosi essa dev'essere, con stile evangelico, cioè pastorale, con forme appropriate e legittime, affinché essa appaia la manifestazione delle virtù, che Cristo irradiò pur chiamandosi « Signore e Maestro » ( Gv 13,13 ):
l'umiltà ( Gv 13,14 ), la mitezza ( Mt 11,29 ), l'amore, cioè la esplicazione più caratteristica e più piena della sua missione: venire a contatto con gli uomini, per istruirli, per santificarli, per guidarli, creando così una società, la Chiesa, una nella fede e nella carità.
Questa revisione dell'autorità della Chiesa e nella Chiesa, sotto la lente del verbo « servire » può dare occasione, oggi specialmente come si sa, ad altre deviazioni: chi vorrebbe che l'autorità ecclesiastica, com'è oggi in molte società civili, scaturisse dalla base;
così che la gerarchia non traesse la sua ragion d'essere e la sua potestà dall'ordinamento stabilito da Cristo, ma dal mandato della comunità, quasi che avendo la gerarchia per fine il servizio del popolo cristiano fosse anche per origine al suo servizio, e traesse dal popolo stesso la sua autorità, come avviene nelle moderne democrazie;
e chi vorrebbe perfino contestare la necessità e la legittimità d'una gerarchia, d'un ministero umano investito di potestà divine, come se il rapporto con Cristo non avesse bisogno d'una pastorale mediazione canonica ( Cfr. 1 Cor 4,1ss; Ef 3,7 ).
L'autorità, sempre difficile di per sé, è oggi diventata per non pochi « bersaglio di contraddizione » ( Lc 2,34 ).
Non saremo ora, né tanto meno Noi personalmente, a farvi l'apologia dell'autorità, della gerarchia e dell'organica strutturazione comunitaria; voi certo ne conoscete i titoli d'origine divina e il coerente sviluppo tradizionale.
Chi volesse confortare di buona cultura storica, tuttora valida, il proprio pensiero può trovare ottimo alimento nella rinomata opera di Pierre Batiffol, tradotta anche in italiano, e ora ristampata e aggiornata da una bella prefazione del Card. Daniélou, intitolata: « La Chiesa nascente e il cattolicesimo » ( Vallecchi, Firenze 1971 ).
E poi voi sapete come anche su questo capitolo l'attività Post-conciliare riformatrice e innovatrice tende a interpretare i bisogni dei tempi nella fedeltà alle basi costitutive della Chiesa, con nuove istituzioni ( Conferenze Episcopali, Sinodo Episcopale, Consigli Presbiterali e Pastorali … ), in modo che il binomio servizio ed autorità risulti nella Chiesa più evidente e più operante, ed animato da un unico principio, la carità ( Cfr. Journet, L'eglise … I,27 ).
Sia dunque così, con la vostra amorosa collaborazione (come è detto nell'Epistola agli Ebrei ) ( Eb 13,17 ): affinché chi ha il formidabile ufficio di guidare la Chiesa « lo possa fare con gaudio e non gemendo ».
Ed ecco allora a voi la Nostra Apostolica Benedizione.