27 Ottobre 1971
Fratelli e Figli carissimi!
Noi abbiamo ancora l'animo commosso per la cerimonia che domenica scorsa è stata celebrata in questa basilica, in occasione della Giornata Missionaria.
Se qualcuno di voi era presente comprenderà certamente e condividerà i nostri sentimenti.
Ognuno, del resto, anche se non ebbe la fortuna di assistervi, può facilmente farne l'esperienza pensando al significato della cerimonia stessa.
Perché, ancor più che il rito ( e fu tanto bello, tanto eloquente ), il suo significato ci sembra degno di ricordo e di riflessione, specialmente per chi, come voi che insieme a noi guardate con amore alla Chiesa, la quale solo per via di amore si può intimamente capire, cioè con « intelletto d'amore » ( Cfr. Purg 21, 51 ).
Il significato di quella Messa non poteva essere che missionario.
Ricordate alcune note esteriori che le hanno dato a buon titolo questa qualifica.
Vi era, più evidente per i suoi sfarzosi costumi, il gruppo dei pellegrini Samoani, provenienti dall'Oceania per restituirci la visita che noi loro facemmo lo scorso anno; ve ne erano altri di altri Paesi lontani; vi erano i Vescovi del Sinodo rappresentanti tutta la Famiglia della Chiesa cattolica sparsa sulla terra; vi erano fedeli d'ogni razza e colore, un campionario assortito dell'umanità vivente sul nostro globo: la universalità della Chiesa, la sua cattolicità era evidente.
Noi pensavamo al canto dell'Apocalisse: « Tu, Signore, ci hai redenti a Dio da ogni tribù, lingua, popolo e nazione » ( Ap 5,9 ), e al racconto della Pentecoste, quando tutti annunziavano, ebbri di Spiriti Santo, nelle proprie lingue « la grandezza di Dio » ( At 2,11 ); pensavamo con lo stupore d'allora e di sempre nel vedere che anche nelle Nazioni, al di là delle frontiere dell'Antico Testamento, si effonde la grazia dello Spirito Santo ( Cfr. At 10,45 ).
Dunque ci chiedevamo, è compiuta la profezia: « Per tutta la terra si è sparsa la loro voce ( la voce degli Apostoli e dei Missionari ), e fino agli ultimi confini della terra abitata sono giunte le loro parole »? ( Sal 19,5; Rm 10,18 )
L'aspetto umano, etnico, sociale, sconfinato della Chiesa era là documentato, straordinariamente vario, bello, pacifico …
Sì, pacifico; perché un altro aspetto, più profondo, ed ancora più bello ed eloquente, lì risplendeva: l'unità.
Gente così diversa, e così unita; gente, che nemmeno si conosce fra sé, e si sente fraterna; gente, così fiera e gelosa della propria diversificata cultura, che abbandona ad una comunione senza ambiguità, senza riserve, ciò che ha di proprio, di più personale, il proprio pensiero, il proprio cuore, nella unica fede, nella unica carità, nella convinzione d'essere un solo corpo con un solo Spirito animatore, nel gaudio d'una solidarietà a tutti aperta, ma ben distinta da chi non la condivide, e nell'esperienza di esprimere nella più ibrida varietà di linguaggi la medesima voce, la medesima preghiera, il medesimo canto all'unico Dio Padre di tutti ( Cfr. Ef 4,3-6 ).
L'unità cattolica: fenomeno senza paragone; l'unità è aspirazione somma della umanità, ma è ancora a stento e imperfettamente realizzata nel piano temporale; qui invece unità già vera e reale nel piano spirituale, e piano visibile ed organico; un Popolo solo, il Popolo di Dio; un Corpo solo, il Corpo mistico di Cristo; la Chiesa, la Chiesa una e cattolica.
Oh! questa è la Chiesa? Ma come mai?
Come si realizza questo prodigio?
Anche di questo prodigio lì abbiamo osservato una qualche rivelazione, nei suoi elementi umani, resi segno, resi sacramento dell'elemento divino, la grazia cristificante, la quale chiama e trasfigura uomini e donne di questo mondo, del quale conosciamo la grandezza e la bassezza, le doti e le debolezze, gli eroismi e le viltà, del nostro mondo colto, raffinato e corrotto; uomini e donne, questa volta oltre quattrocento nella nostra cerimonia, che ad un certo momento escono dalla folla dei fedeli, e vengono a noi, servo dei Servi di Dio; salgono a noi, all'altare, dicendo con questo atto silenzioso, ma più espressivo d'ogni parola, in risposta alla duplice vocazione: quella della Chiesa, esteriore, invitante, implorante; quella di Cristo, interiore, parlante dolcemente e drammaticamente nei cuori fedelissimi, dicendo la parola profetica: « Ecco, io sono qui, manda me! » ( Is 6,8 ); voglio essere « segregato per il Vangelo di Dio » ( Cfr. Rm 1,1; Gal 1,15; At 13,2 ).
Vengono per essere riconosciuti Missionari.
Che cosa daremo loro, ci siamo chiesti, se non il Crocifisso, che tutto significa, e che in quella mano tremante e coraggiosa che lo riceve sembra subito presagire una storia di imitazione, di dedizione, di amore: di vittoria, qualunque sia per essere la storia del Missionario, che così è pronto a partire?
Il sacrificio di Cristo continua, il sacrificio che salva il mondo.
Ma esiste ancora il carisma del sacrificio ai nostri giorni?
Oh, sì! e in quale abbondanza, in quale grandezza!
Il tempo nostro, che ha sofferto l'esperienza delle guerre, ben lo sa.
Ma quanto poi lo rifiuta, facendo dell'egoismo e del godimento il programma ideale della vita.
Ben lo sa, e lo onora; ma più negli altri che per sé; ognuno anzi da sé lo respinge.
Non ognuno, per la verità.
Qualcuno lo accetta, anche nella sua più autentica espressione, quella volontaria.
L'onore allora diventa gloria; e per fortuna di questa gloria si alimentano ancora le migliori virtù della nostra convivenza civile.
Che cosa non ha detto, con l'esempio suo, uno Schweitzer alla nostra generazione!
Ci uniamo volentieri al tributo di ammirazione e di encomio, che un tale Uomo ben merita; ma senza invidiosa emulazione ci si consenta rendere analoga, se pur umile e tacita, testimonianza all'innumerevole legione di Missionari e di Missionarie, che hanno dato e che danno la vita intera, con sacrificio senza misura e senza pubblicità, senza encomio e senza alcuna mercede, alle sofferenze fisiche ed ai bisogni morali di miseri fratelli ( perché fratelli, in Cristo, sono considerati ) nelle terre di missioni, ancora alle soglie della moderna cultura.
Quale tesoro di sacrificio possiede, oggi più che mai, questa Chiesa di Dio, Chiesa comunitaria e gerarchica, Chiesa istituzionale ed operante, che la Provvidenza ci ha concesso di chiamare nostra!
La nostra apologia della Chiesa vuol essere ancora pedagogica per quanti di noi dubitano della sua autenticità, si sottraggono alla sua comunione vissuta, si sentono imbarazzati e vergognosi di militare nelle sue file.
La Chiesa missionaria ci giudica con la sua fede apostolica, con il suo amore positivo, con la sua dedizione totale al nome di Cristo, al servizio e alla liberazione dei fratelli.
Né sterili critiche, né amare contestazioni, né retoriche velleità, né spiritualismi effimeri essa c'insegna; essa è una Scuola di realismo evangelico; essa c'invita alla serietà e al gaudio della positiva sequela di Cristo.
Ma troppe cose ancora sarebbero da dire.
Vogliamo bene alla Chiesa missionaria, e non ci saranno nascoste.
Con la Nostra Apostolica Benedizione.