8 Marzo 1972
Se noi vogliamo entrare nell'intelligenza della concezione generale dell'ordinamento religioso cristiano, e se vogliamo applicare questo ordinamento alla nostra salvezza, non possiamo esimerci dal fare menzione d'un capitolo essenziale di questa storia del rapporto oggettivo ed esistenziale fra l'uomo e Dio; e questo capitolo, vastissimo e tremendo, s'intitola il peccato.
Non si può prescindere da questo fatto tragico, che parte dalla rovina iniziale del genere umano, il peccato originale, e che si ripercuote in tutta l'immensa e successiva rete delle sventure umane e delle nostre fatali responsabilità, che sono i nostri peccati personali, se si vuole capire qualche cosa della missione di Cristo e della economia di salvezza da Lui istituita, e se vogliamo esserne noi stessi partecipi.
Non possiamo entrare nel santuario orante e sacramentale della liturgia, specialmente quando essa celebra non solo la memoria del racconto evangelico della passione, della morte e della risurrezione di nostro Signore, ma il compimento del mistero della redenzione, alla quale tutta l'umanità è interessata, se non abbiamo presente l'antitesi di questo dramma, ch'è appunto il peccato.
Il peccato è il nodo negativo di questa dottrina e di questo perdurante intervento salvifico, che ci fa acclamare Cristo liberatore e che ci dà coscienza della nostra sorte, infelicissima prima, beatissima poi rispetto al mistero pasquale quando noi vi siamo associati.
Il peccato: oggi è una parola taciuta; la mentalità del nostro tempo rifugge non soltanto dal considerare il peccato per quello che è, ma perfino dal parlarne.
Pare questa parola fuori uso, quasi un termine sconveniente, di cattivo gusto.
E si capisce perché.
La nozione di peccato coinvolge due altre realtà, di cui l'uomo moderno non intende occuparsi: una Realtà trascendente assoluta, vivente, onnipresente, misteriosa, ma innegabile, ch'è Dio; Dio creatore, che ci definisce sue creature.
Volere o no, « in Dio noi viviamo, ci moviamo ed esistiamo », dice S. Paolo nel suo discorso all'Areopago d'Atene ( At 17,28 ); a Dio tutto dobbiamo; l'essere, la vita, la libertà, la coscienza, e perciò la nostra obbedienza, condizione dell'ordine, della nostra dignità e del nostro vero benessere: Dio amore, vegliante sopra di noi, immanente, invitante al colloquio paterno-filiale della sua comunione, del suo regno soprannaturale.
E una seconda realtà soggettiva e relativa alla nostra persona, una realtà metafisico-morale; e cioè la relazione insopprimibile delle nostre azioni al Dio presente, onnisciente, interrogante la nostra libera scelta.
Ogni nostra azione libera e cosciente ha questo valore di scelta alla conformità o alla difformità alla legge, cioè all'amore di Dio, ed in Lui, per così dire, si trascrive, ed in Lui registra il nostro sì, ovvero il nostro no.
Questo no è il peccato.
È un suicidio.
Perché il peccato non è soltanto un nostro difetto personale, ma un'offesa interpersonale, che dalla nostra persona arriva a Dio; non è soltanto una mancanza ad una legalità dell'ordinamento umano, una colpa verso la società, o verso la nostra logica morale interiore; è una rottura mortale del vincolo vitale, obiettivo, che ci unisce alla sorgente unica e somma della vita, che è Dio.
Con questa prima fatale conseguenza: che noi, i quali siamo capaci, in virtù del dono della libertà, che l'uomo « a Dio fa simigliante » ( Cfr. Dante, Par. 1, 105 ), di perpetrare quell'offesa, quella frattura, e con tanta facilità, non siamo poi mai più capaci, da noi stessi, di ripararla ( Cfr. Gv 15,5 ).
Siamo capaci di perderci, non di salvarci.
Questo ci fa riflettere dove arriva la nostra responsabilità.
L'atto diventa stato; uno stato di morte.
È terribile.
Il peccato porta con sé una maledizione, la quale sarebbe condanna irreparabile, se da Dio stesso non partisse in nostro soccorso un'iniziativa, rivelatrice della sua onnipotenza nella bontà e nella misericordia.
E questo è meraviglioso.
Questa è la redenzione, la suprema liberazione.
Dice una stupenda orazione liturgico-teologica: « O Dio, che massimamente manifesti la tua onnipotenza con il perdono e con la misericordia … » ( Colletta della decima domenica dopo Pentecoste, nell'antico messale ).
L'idolatria dell'umanesimo contemporaneo, che nega, o trascura questo nostro rapporto con Dio, nega o trascura l'esistenza del peccato.
Ne deriva un'etica folle.
Folle d'ottimismo, che tende a rendere tutto lecito, quanto piace o quanto giova, e folle di pessimismo, che toglie alla vita il suo senso profondo, derivante dalla distinzione trascendente del bene e del male, e la avvilisce in una visione finale di angosciosa e disperata fatuità.
Il cristianesimo invece, che tanto acuisce la sensibilità del peccato, ascoltando la lezione insuperabile del Divino Maestro ( Cfr. Il discorso della montagna ), ne profitta per iniziare l'uomo al senso della perfezione, e lo consola col dono della energia spirituale, la grazia, che lo rende capace di tendervi e di conseguirla.
Ma soprattutto mette in atto il suo inesauribile prodigio del perdono di Dio, cioè della remissione dei peccati la quale comporta la risurrezione dell'anima nella partecipazione alla vita e all'amore del regno di Dio.
Restauriamo in noi la retta coscienza del peccato, non paurosa, non debilitante, ma virile e cristiana.
Crescerà quella del bene in opposizione a quella del male.
Crescerà il senso della responsabilità, saliente dal nostro interiore giudizio morale, per allargarsi al senso dei nostri doveri, personali, sociali, religiosi.
Crescerà il nostro bisogno di Cristo, il medico delle nostre miserie, il Redentore e la vittima dei nostri mali, il Vincitore del peccato e della morte, Colui che ha fatto dei suoi dolori e della sua croce il prezzo del nostro riscatto e della nostra salvezza.
Con la nostra Apostolica Benedizione.