26 Luglio 1972
Il pensiero che guida il nostro piccolo discorso delle Udienze Generali in questo periodo è la ricerca di principii morali per la nostra vita cristiana.
La vediamo esposta questa nostra vita cristiana a mille pericoli.
Prescindiamo ora da quelli che assalgono la dottrina; limitiamoci a quelli che insidiano e sovvertono la norma morale, la vita vissuta; e contentiamoci di alcuni principii fondamentali e orientatori.
Abbiamo un problema immenso da considerare: il rapporto tra la vita naturale, profana, secolare e la vita cristiana.
Oggi noi assistiamo ad uno sforzo gigantesco per togliere dalla maniera comune di vivere ogni segno, ogni criterio, ogni impegno di derivazione religiosa.
Si cerca, spesso anche nell'ambito del mondo cristiano, di rivendicare alla laicità della condotta, specialmente nelle sue forme pubbliche ed esteriori, un dominio esclusivo ed assoluto.
Vi sono correnti di pensiero e di azione che cercano di staccare la morale dalla teologia; la morale dovrebbe occuparsi soltanto dei rapporti fra gli uomini e della coscienza personale dell'uomo: nel campo morale non vi sarebbe bisogno d'alcun dogma religioso.
Per il fatto legittimo che molte espressioni del pensiero e dell'attività umana devono essere governate da criteri propri ( le scienze, ad esempio ), e che l'ordinamento stesso dello Stato può essere concepito secondo una sua propria sana e ragionevole laicità ( come già disse il nostro venerato Predecessore Papa Pio XII - Cfr. AAS 50, 1958, p. 220 - ), si vorrebbe che la religione non solo non apparisse più in pubblico, ma non avesse più alcun influsso ispiratore e direttivo nella legislazione civile e nella normativa pratica.
Anche quando poi è riconosciuta ufficialmente la libertà religiosa, questa è spesso praticamente soppressa ed oppressa, e talora con metodi intimidatori e vessatori che riescono a soffocare, perfino nell'interno delle coscienze, la libera e schietta professione del sentimento religioso.
Noi che cosa diciamo?
Ricordiamo innanzi tutto la distinzione, sì, che deve essere affermata ed osservata fra l'ordine temporale e l'ordine spirituale, in ossequio alla parola decisiva del divino Maestro: « Date a Cesare quello ch'è di Cesare, e date a Dio quello ch'è di Dio » ( Mt 22,21 ).
Ma aggiungiamo: come esiste un problema di rapporti, cioè di distinzione e di relazioni, fra fede e ragione, così esiste un problema di rapporti fra fede e morale.
Problema, di cui noi tutti intuiamo la soluzione, che sostiene essere molto stretti ed operanti tali rapporti ( e, sotto certi aspetti, molto più che non tra fede e ragione, perché qui, tra fede e morale, cioè tra fede e vita, la distanza dei due termini in gioco è minore ), ma problema sempre assai delicato e complesso.
Vediamo di porre qualche principio chiarificatore.
Esiste una morale cristiana?
Una maniera cioè originale di vivere, che si qualifica cristiana?
Che cosa è la morale cristiana?
Potremmo empiricamente definirla precisamente affermando che essa è una maniera di vivere secondo la fede, cioè alla luce delle verità e degli esempi di Cristo, quali abbiamo appreso dal Vangelo e dalla sua prima irradiazione apostolica, il Nuovo Testamento, sempre in vista d'una successiva venuta di Cristo e d'una nuova forma di nostra esistenza, la così detta parusia, e sempre mediante un duplice ausilio, uno interiore e ineffabile, lo Spirito Santo; l'altro esteriore, storico e sociale, ma qualificato ed autorizzato, il magistero ecclesiastico.
Vale quindi per noi, nel suo significato esegetico e nella sua applicazione pratica ed estensiva a tutto lo stile della vita cristiana, la formula incisiva e sintetica di S. Paolo: « il giusto vive di fede » ( Rm 1,17; Gal 3,11; Fil 3,9; Eb 10,38 ).
« La caratteristica essenziale ( dell'etica cristiana ) è d'essere legata alla fede e al battesimo » ( Cfr. A. Feuillet, Les fondements de la morale chrétìenne d'après l'épître aux Romains, in Revue Thomiste, juillet-sept. 1970, pp. 357-386 ).
Donde dobbiamo trarre due conclusioni molto importanti per la nostra mentalità moderna.
Prima conclusione: la nostra concezione pratica della vita deve conservare a Dio, alla religione, alla fede, alla salute spirituale il primo posto; e non solo un primo posto d'onore, puramente formale, o rituale, ma altresì logico e funzionale.
Se sono cristiano, ciascuno deve dire, io, debitamente onorando in me questo titolo, possiedo la chiave interpretativa della vita vera, la somma fortuna, il bene superiore, il primo grado della vera esistenza, la mia intangibile dignità, la mia inviolabile libertà.
La mia collocazione in ordine a Dio è la cosa più preziosa e più importante.
La gerarchia dei miei doveri conserva a Dio il primo livello: « Io sono il Signore Dio tuo » ( Es 20,2 ).
Cristo lo ripeterà: « cercate in primo luogo il regno di Dio » ( Mt 6,33 ).
Il primo orientamento della vita, l'asse centrale e direttivo del mio umanesimo, rimane quello teologico.
Il precetto, che soverchia e sintetizza tutti gli altri, è sempre quello dell'amore a Dio ( Cfr. Mt 22,37; Dt 9,5 ); precetto sublime, e tutt'altro che facile, ma che nello stesso sforzo del suo adempimento genera il motivo e la energia per adempiere gli altri inferiori precetti, primo fra gli altri e, a sua volta, somma degli altri, l'amore al prossimo, tanto che esso si pone quale prova dello stesso amore a Dio ( Cfr. 1 Gv 2,9; 1 Gv 4,20 ).
Così che la soppressione dell'amore a Dio, nella convinzione che basti l'amore al prossimo ( … quanti oggi si illudono d'aver semplificato il problema morale, trascurando il suo fondamentale principio religioso e riducendolo ad una filantropia umanistica! ), compromette anche il rapporto d'autentico amore all'uomo, rapporto che facilmente decade, non più universale, non più disinteressato, non più costante.
Può diventare parziale, e perciò principio di lotta e di odio.
E poi un'altra conclusione: riconoscere il primato del fattore religioso nell'ordinamento operativo umano non comporta un'evasione dall'urgenza dei doveri inerenti alla giustizia e al progresso della società umana, quasi che l'osservanza puramente religiosa bastasse ad esonerare la coscienza dagli obblighi di solidarietà e di generosità verso il prossimo; e tanto meno il riconoscimento del primato religioso nella morale genera un freno egoista e irrazionale nella positiva ricerca dei rimedi ai mali sociali; piuttosto il contrario.
Ricordiamo la severa parola del Signore: « Non chiunque dice a me: Signore! Signore! entrerà nel regno dei cieli; ma chi fa la volontà del Padre Mio » ( Mt 7,21; cfr. Mt 25,31-46 ); e ricordiamo quella incitatrice dell'Apostolo: la fede rende operante la carità ( Cfr. Gal 5,6 ).
Per fortuna, ai nostri giorni questo imperativo della giustizia sociale, di rendere cioè largamente operante la nostra professione cristiana, di dare alla fede la sua coerente espressione nella carità, è molto diffuso e sentito, specialmente fra i giovani; e faremo bene anche noi ad avvertirne lo stimolo nei nostri cuori, e ad assecondare l'invito oggi pungente della Chiesa ( espresso anche nel Concilio e nell'ultimo Sinodo ) di promuovere l'avvento d'una maggiore giustizia nel mondo.
Dovremo fare attenzione, come dicevamo, di non privare la nostra attività benefica della sua immanente ispirazione religiosa, ed inoltre dovremo badare a non fare della religione un pretesto politico, o uno strumento al servizio di altri scopi, che non siano quelli giusti ed onesti del vero bene del prossimo.
Ma baderemo piuttosto ad educare noi stessi alla scuola d'un cristianesimo autentico, orante ed operante, e a testimoniare con la nostra coerenza fra la fede e la carità, in mezzo al nostro mondo moderno, quanto vero, quanto umano, quanto trascendente sia il Vangelo di Cristo.
Il nostro voto sia convalidato dalla nostra Benedizione Apostolica.