2 Agosto 1972
Pensiamo che sia nel desiderio di tutti l'affermazione del senso morale.
Ognuno sa se ve n'è bisogno.
È una parola questa del « senso morale » collegata con un nodo di concetti e di questioni, che proprio perché fondamentali sono molto difficili, e sono di solito conosciute più per via d'innata intuizione, che per via di logica definizione.
Che cosa è il senso morale?
È un giudizio immediato, potremmo quasi dire istintivo tanto è primitivo nel nostro processo razionale, circa la bontà, o la malizia d'un'azione.
E quando un'azione è buona o cattiva?
È buona quando è conforme ad un ordine, ad un bene oggettivo ( ontologico ), ad un ordine che nasce dall'essere, dalla natura delle cose; se difforme è cattiva.
E come sappiamo noi se esiste, o no, questa conformità?
Lo sappiamo innanzi tutto da quell'atto spontaneo, ma riflesso, che la nostra mente compie su se stessa, e che si chiama coscienza.
Parola questa estremamente importante ed assai ricca di significati e di contenuti.
La coscienza, innanzi tutto, è l'uomo che pensa se stesso;
è il pensiero del pensiero;
è lo specchio interiore dell'esperienza, della vita;
ed è ordinariamente psicologica: l'uomo si sente, si ricorda, si giudica, discorre di sé con se stesso, si conosce.
Ed in questo quadro interiore un risalto speciale acquista l'avvertenza circa l'uso della propria libertà, sia che esso preceda o segua l'atto, in un certo senso, creativo della volontà personale, cioè circa la esplicazione responsabile dell'uomo pensante e libero; e questa avvertenza si chiama la coscienza morale.
Ed è quella che ora ci interessa.
Né più diremo sopra tema che meriterebbe un trattato senza fine.
Soltanto due note segnaleremo utili allo scopo che ora a noi preme, cioè quello d'invitare chi ci ascolta a risvegliare il senso morale che nella coscienza morale trova la sua espressione; e le note sono queste: la sua necessità e la sua insufficienza.
Dire necessaria la coscienza morale equivale dire essere necessario che l'uomo sia uomo.
Essa risponde alla sua definizione: un uomo senza coscienza morale è come nave che manchi di timone.
Cioè di guida.
Manca della scienza dei veri valori della vita e della scienza dei suoi fini.
I moralisti ce lo dicono dove insegnano che la bontà dell'azione umana dipende dall'oggetto in cui è impegnata e, oltre che dalle circostanze in cui è compiuta, dall'intenzione che la muove ( Cfr. S. TH. I-IIæ, 18, 1-4 ); ora questa complessa specificazione dell'azione, se vuol essere umana, implica un giudizio soggettivo, immediato di coscienza, che poi si sviluppa nella virtù regolatrice dell'azione stessa, la prudenza.
La coscienza cioè mette in gioco dell'uomo attivo la sua mente e la sua volontà, lo rende padrone dei suoi atti, lo libera dalla passività interiore, anche quando la costrizione esteriore non gli consente liberi movimenti esteriori.
Questo ritorno ad una propria coscienza morale è oggi tanto più auspicabile quanto più l'educazione moderna abilita l'uomo all'esercizio del pensiero e alla scelta autonoma delle proprie decisioni;
ed anche quanto più la nostra psicologia è pervasa, spesso quasi senza che se ne avveda, da stimoli e da impressioni esteriori: l'ambiente, l'opinione pubblica, la moda, gli incentivi passionali, gli interessi economici, le innumerevoli distrazioni impediscono, in pratica, il ricorso alla propria coscienza;
l'azione originale, personale è soverchiata da influssi d'ogni genere, per cui l'uomo vive alla cieca, quasi condizionato e guidato dal fenomenismo delle cose che lo circondano e dal meccanismo obbligante e convenzionale che lo travolge.
Com'è, in fondo, difficile, all'uomo moderno dire: io; io a se stesso, nel foro intimo della propria personalità; e quanto è facile per lui concedersi ai fattori che lo fanno un insignificante numero nella massa anonima, priva spesso d'una vera coscienza morale comunitaria.
È nell'espressione della coscienza morale che l'uomo si affranca dalle tentazioni prodotte nel suo proprio essere vulnerato dalla disfunzione ereditata dal suo complesso organismo a causa d'un guasto atavico, il peccato originale; egli riacquista, se non altro, il concetto e il desiderio della propria perfezione.
È da questa coscienza morale che sono superati gli interessi corruttori della sua dignità, sono vinti i timori che rendono l'animo vile ed inetto, sono nutriti i sentimenti che generano il galantuomo, l'onesto, anzi il forte.
I grandi tipi del dramma umano, gli innocenti, gli eroi, i santi attingono da questa coscienza la loro energia.
Pensate ad Antigone.
E pensate a tante altre mirabili figure che grandeggiano nella storia e nella cronaca quotidiana, perché alimentate da una coscienza morale impavida, specialmente quando un sentimento religioso le dia il vigore che solo esso può dare; citiamo a caso, un S. Tommaso Moro ( di cui è uscito in questi giorni un nuovo e fine profilo biografico di Giuseppe Petrilli - Cfr. p. 191 - ), un S. Agostino, le due S. Teresa, e in genere i santi autobiografici, una Edith Stein, e per la letteratura, un passo famoso nell'Adelchi del Manzoni ( Cfr. A. Manzoni, Adelchi, Atto V, II ), ecc. ecc.
L'accenno al sentimento religioso ci porterebbe a studiare la coscienza morale nel confronto col Vangelo e con la tradizione che ne deriva.
A cominciare dalla facilità con cui questo rapporto fra il mondo divino e l'anima nostra si stabilisce, quando appunto la coscienza morale cerca le ragioni e il termine della sua espressione nella direzione religiosa.
Un filo, non più soltanto logico, stringe il rapporto, ma un filo vitale.
Una rettitudine nuova cioè rende possibile fra l'anima e Dio un colloquio, una presenza.
Nel linguaggio religioso la coscienza assume il nome di cuore, con tutto quello che di vivo, di personale, di profondo, e anche di sentimentale questo centro dell'anima può significare.
Troppo vi sarebbe da dire, dalla scoperta della legge scritta da Dio nel cuore ( Cfr. Gaudium et Spes, 16 ), dalla psicanalisi delle debolezze umane, che hanno nel cuore la loro mala radice ( Cfr. Mt 12,34; Mt 15,19 ), alla sapiente ricchezza che il cuore nasconde e rivela ( Lc 6,45 ), alle esperienze ineffabili, che la voce del Signore, ripercossa nel cuore, apre ai discepoli ascoltatori ( Cfr. Lc 24,22 ); ecc. ecc.
Non per nulla la liturgia, all'inizio della S. Messa ci fa recitare il « Confiteor » e vi aggiunge una pausa di riflessione.
È l'esame di coscienza.
Pratica spirituale ed ascetica di somma importanza, che faremo bene tutti a tenere in onore: la coscienza è la lampada che illumina il nostro cammino, se vogliamo che questo sia percorso con dirittura e con energia, verso il vero e ultimo fine della nostra vita ch'è Dio.
Ma qui è da aggiungere, per terminare, l'altra nota, che qui a noi preme rilevare in ordine alla coscienza; la sua insufficienza, dicevamo.
Da sola la coscienza non basta.
Anche se essa porta in se stessa i precetti fondamentali della legge naturale ( Cfr. Rm 2,2-16 ).
Occorre appunto la legge: e quella che la coscienza offre da sé alla guida della vita umana non basta; dev'essere educata e spiegata; dev'essere integrata con la legge esterna, sia nell'ordinamento civile - chi non lo sa? - e sia nell'ordinamento cristiano - anche questo: chi non lo sa? -.
La « via » cristiana non ci sarebbe nota, con verità e con autorità, se non ci fosse annunciata dal messaggio della Parola esteriore, del Vangelo e della Chiesa.
Chi pensa di emanciparsi dalla legge e dall'autorità legittime avrebbe un senso morale muto sopra molti precetti incomodi e principali e, per un cristiano, fondamentali come la carità e il sacrificio; e finirebbe per perdere un esatto giudizio morale, e per concedere a se stesso quella moralità elastica e permissiva che oggi purtroppo sembra prevalere.
Se ne dovrà riparlare ( Cfr. Discorso di Pio XII, AAS 44, 1952, pp. 270-278 ).
Per oggi ci basti riconoscere alla coscienza retta e vera il posto che le è dovuto nell'esercizio della vita morale: il primo.
Con la nostra Benedizione Apostolica.