13 Giugno 1973
Quest'annuncio circa l'anticipato inizio delle celebrazioni giubilari che avranno il loro momento culminante nel 1975, annuncio di cui tutti certamente avete ascoltato la voce, risuonata in tutte le Diocesi, cioè nelle Chiese locali, scuote in qualche modo la nostra coscienza, nella sua sensibilità religiosa e morale, e la interroga con una domanda sempre ricorrente sulle labbra della Chiesa: come va la tua vita spirituale?
entra insomma questo annuncio nella cella interiore della nostra personalità obbligandola a fare un atto di riflessione, un esame di coscienza sopra alcune sue espressioni, che, volere o no, noi tutti giudichiamo fondamentali, proprio nella definizione della nostra stessa personalità;
e cioè ci sentiamo obbligati a rispondere a noi stessi a domande come queste:
io, sono io uno che crede veramente alla religione?
la professo, la pratico, e come?
avverto io il rapporto fra l'adesione al mio « credo » religioso e l'indirizzo ideale e pratico della mia vita?
avverto cioè il collegamento fra vita religiosa e vita morale?
Se questa istanza critica è da noi compresa, è già raggiunto uno degli scopi dell'Anno Santo: esso ci appare innanzi tutto come uno di quei mezzi pedagogici con cui la Chiesa educa e guida se stessa; una scossa ( uno « choc », oggi si dice ), mediante la quale essa tende ad uno scopo reputato importante e bisognoso di particolare interesse.
Così è.
Fermiamoci per ora al primo scopo, che indubbiamente è nella intenzione della Chiesa promotrice dell'Anno Santo: lo scopo religioso.
Noi potremmo sollevare una facile obiezione; e cioè:
è necessario impegnare il mondo cattolico, e, indirettamente almeno, anche il mondo profano al tema religioso?
non è già in atto lo sforzo continuo e normale della Chiesa in favore della religione?
non è bastato il Concilio a riaffermare il diritto di presenza della religione nel tempo nostro?
e non ci esorta ogni giorno, ogni domenica, ogni festa la Chiesa a celebrare qualche mistero religioso?
che cosa si vuole di più?
Non è difficile la risposta.
La religione è tal cosa che, per sé, non può mai dire basta alla sua comprensione, alla sua professione, alla sua scoperta; essa mette l'uomo a contatto con tali ricchezze di verità e di vita da saziare, sì, ogni nostra sete, ma non da estinguerla: fons vincit sitientem; anzi da stimolarla per altre conquiste.
Inoltre accade, e questo ora più ci interessa, che la nostra attitudine verso i beni dello spirito non è costante; noi siamo mutevoli, noi siamo fragili.
Ed è questo fenomeno della decadenza, sempre possibile da parte umana, della vita religiosa che reclama, storicamente, a volta a volta, interventi nuovi, più appropriati, più efficaci, affinché l'umana fedeltà non si esaurisca.
La storia della vita religiosa è piena di queste infauste vicende, com'è pur piena di vigorose rinascite e di generose riprese.
Ora tutti, più o meno, conosciamo l'assalto formidabile e sistematico che la religione, la nostra per prima in quanto strutturata socialmente e organicamente precisa nella sua dottrina e nei suoi riti, subisce in questo nostro tempo, in cui si tende a far coincidere la secolarizzazione della società col suo progresso e a generare un umanesimo radicalmente ateo.
In un certo senso, e purtroppo non ristretto a trascurabili o marginali manifestazioni, la mentalità delle nuove generazioni laiche va ripresa alle prime soglie della vita religiosa.
Il ministero della fede deve ricominciare dall'iniziazione elementare alle prime espressioni religiose.
Quasi a titolo di esempio, vorremmo proporre una prima questione: sappiamo pregare?
Non mettiamo in dubbio, con questa aggressiva domanda la validità, l'efficacia, il successo della riforma liturgica ( di cui si potrà parlare in altra occasione ); intendiamo piuttosto chiedere se l'uomo di oggi, discepolo della nostra civiltà « consumistica », come si dice, tutta impegnata nella ricerca e nel godimento dei beni temporali, e tutta invasa dall'orgogliosa convinzione di saper risolvere da sé, senza alcun ricorso a Dio, o a qualsiasi concezione trascendente del mondo sensibile e razionalista, sappia ancora cavare dal suo cuore qualche sincero, sia pure informe, ma vivo e personale, colloquio con Dio.
Sarebbe assai interessante che, sotto la luce dell'Anno Santo, nascesse sulle labbra degli uomini contemporanei la schietta domanda, rivolta un giorno dai discepoli di Cristo al Maestro: « Insegnaci a pregare! » ( Lc 11,1 ).
Cioè sarebbe auspicabile far rinascere nella gente il senso, il concetto, il bisogno della religione; ed insieme la speranza, la certezza, diciamo di più, l'esperienza, di parlare al Dio dell'universo; ed insieme ancora la sorpresa di godere della capacità di potergli rivolgere il nome, il titolo più autentico della sua bontà e della nostra dignità; il titolo di Padre.
Un risultato simile sarebbe una specie di revisione di tutte le nostre deviazioni e aberrazioni;
sarebbe la rinascita dell'amore e della speranza nel mondo;
sarebbe il ritrovare la ragione di chiamare « madre » la Chiesa ( Cfr. S. Cipriani De Unitate Ecclesiae, VI: PL 4, 519 );
sarebbe l'inserzione nuova della salvezza nella coscienza e nella storia del mondo.
Padre nostro! Così sia.
Con la nostra Benedizione Apostolica.