5 Dicembre 1973
Il nostro grande problema qual è?
È quello del nostro rapporto con Dio.
Tutto è qui, in questo nodo di questioni mentali, morali, spirituali, vitali.
La nostra concezione della vita non può prescindere dal considerare questo rapporto, per negarlo, per discuterlo, per affermarlo; sono queste le categorie somme e sommarie, nelle quali questo problematico rapporto può collocarsi.
E tutti sanno oggi come nessuno sfugge alla necessità di una scelta a tale proposito.
La religione, volere o no, in un senso o nell'altro, è al vertice della definizione della nostra vita personale e collettiva.
Limitiamoci ora alla vita personale: la nota distintiva qualificante più importante si desume dall'atteggiamento religioso che l'uomo professa in ordine alla concezione della propria vita.
È da ricordare che noi, credenti in Dio e professanti l'adesione all'economia cristiana, cioè al disegno stabilito da Dio stesso circa il nostro destino e instaurato da Cristo ( Cfr. Ef 1,1ss ), siamo i primi a riconoscere d'avere bisogno d'un aiuto trascendente, divino, preveniente e gratuito, la grazia, per entrare effettivamente nel piano salvifico della nostra religione ( Cfr. Denz.-Schön. 1525-797 ); cioè noi non bastiamo a noi stessi per risolvere positivamente il grande problema, di cui dicevamo, quello del rapporto con Dio; e siamo perciò assimilati, sotto questo aspetto del bisogno d'essere salvati, per via della misericordia e dell'amore di Dio verso l'uomo, ad ogni altro essere umano, ateo o indifferente che sia.
Ma per usufruire di questa somma fortuna dell'intervento salvifico del Signore all'uomo adulto sono domandate alcune condizioni.
Anche davanti al piano della grazia l'uomo rimane uomo, rimane libero; un'adesione volontaria gli è domandata; e perciò senza una disposizione morale e una successiva fedeltà, « voluntariam susceptionem gratiae » ( Denz.-Schön. 1528-799 ), la salvezza religiosa non sarebbe per noi operante.
Si apre pertanto un complesso e voluminoso capitolo psicologico-soggettivo circa le disposizioni spirituali e morali, che l'uomo deve esibire all'azione giustificante e santificante di Dio: se vogliamo che il sole illumini la stanza della nostra anima dobbiamo aprirgli la finestra.
Come si chiama evangelicamente e teologicamente questa finestra?
Si chiama conversione, la famosa metànoia ( Mt 3,2; Mt 4,17; At 2,38 ) del Vangelo; cioè quel cambiamento interiore e poi esteriore, che rende l'uomo suscettibile dell'intervento divino.
Anch'essa, la conversione, non è senza un'azione segreta di grazia; ma ora noi la consideriamo al livello della nostra esperienza e della nostra responsabilità, dove il gioco della libertà, della volontà, degli stimoli esterni, pone la conversione al fatale « ago di scambio » della nostra sorte religiosa, e forse anche eterna.
Nella pratica della nostra vita spirituale qui si porrebbe la dottrina della preghiera, quale condizione fondamentale della nostra religiosità salvatrice.
Ci riferiamo a quella preghiera che apre l'anima all'azione benefica della misericordia di Dio, e che è, più o meno, a tutti nota, sia nella sua definizione essenziale di atto razionale dello spirito che si rivolge volontariamente a Dio, sia come atto di tensione amorosa verso di Lui ( Bossuet, Serm. 1, 374, « il n'y a que la sede charité qui prie » ), sia come assorbimento contemplativo e mistico nella presenza del divino interlocutore.
Ma la preghiera, così concepita, suppone la conoscenza e la fede in Dio, e spesso anzi essa proviene dalla voce interiore d'una parola, che da noi non sapremmo formulare e che lo Spirito pronuncia in noi con accenti ineffabili ( Rm 8,26 ).
E suppone una regolarità di vita spirituale, che purtroppo oggi molti, moltissimi non hanno: sono muti, sono incapaci di emettere con sentimento di pietà il semplice nome, paterno, dolcissimo, santissimo, di Dio.
Da quale punto può per questa gente, che è legione, essere presentata la « conversione »?
Ecco: noi dobbiamo tener conto dello « stato d'anima » di questa gente, diciamo meglio, di questo popolo, di questi fratelli, i quali, o per incuria spirituale, o per abuso critico, non sono sul momento in condizione di balbettare quella minima preghiera, che stabilirebbe subito un rapporto con Dio.
Come dobbiamo regolarci?
Non certo in questa sede noi possiamo risolvere problema spirituale di questa ampiezza, ma suggeriremo soltanto due parole, le quali possono fare al caso nostro.
E cioè: ancor prima di parlare di « conversione », nel senso pieno e salutare di questo termine, proviamo a parlare di « orientamento »; domandiamo a coloro che sono ancora alle saghe del mondo religioso di dare al problema, che ci interessa e che deve interessare tutti, un semplice sguardo, un semplice orientamento, della loro attenzione.
È questo un atto umano superlativamente onesto, quello di rivolgere al problema di Dio una riflessione, nasca essa dall'interiore bisogno di logica e di verità, ovvero nasca da qualche esteriore osservazione, che suggerisce e che postula un appello ad un Principio supremo.
Orientarsi verso l'inestinguibile faro del Dio nascosto, del Dio vivente.
Il problema religioso ne vale sempre la pena.
L'altra parola, che suggeriamo per simile condizione spirituale, sembra una contraddizione, ma è un semplice e ragionevole paradosso; ed è la parola silenzio.
Per cogliere qualche cosa del problema religioso abbiamo bisogno di silenzio; di silenzio interiore, il quale reclama forse anche un po' di silenzio esteriore.
Silenzio: vogliamo dire pausa di tutti i rumori, di tutte le impressioni sensibili, di tutte le voci, che l'ambiente impone alla nostra ascoltazione, e che ci rende estroflessi, ci fa sordi, mentre ci riempie di echi, d'immagini, di stimoli, che, volere o no, paralizzano la nostra libertà interiore, di pensare, di pregare.
Silenzio qui non vuol dire sonno: vuol dire, nel caso nostro, un colloquio con noi stessi, una riflessione tranquilla, un atto di coscienza, un momento di solitudine personale, un tentativo di ricupero di se stessi.
Diremo di più: daremo al silenzio la capacità di ascoltazione.
Ascoltazione di che cosa? di chi?
Non possiamo dire; ma sappiamo che l'ascoltazione spirituale lascia percepire, se Dio ce ne fa grazia, la sua voce, quella sua voce, che subito si distingue per dolcezza e per vigore, per parola sua, di Dio; il Dio, che allora, quasi per istintivo impulso, noi incominciamo dentro a chiamare, con avidità di conoscere e di capire, con angoscia e con fiducia, con insolita commozione e con invadente bontà: il Dio-Verbo, fatto maestro interiore.
Siamo condotti su questa traccia dalla stagione liturgica dell'Avvento: tacere per ascoltare; e dal pressante motivo dell'Anno Santo, che impone silenzio e preghiera e che prepara alle tante nostre moderne inquietudini la risposta di Dio, quella del suo Amore e della nostra salvezza.
Con la nostra Apostolica Benedizione.