20 Marzo 1974
Noi parliamo ancora della penitenza, via della salvezza, ch'è il tema di stagione, sia perché siamo in quaresima, sia perché questo tema fa riferimento all'Anno Santo con il suo proposito di rinnovamento e di riconciliazione, che non potremmo conseguire senza la penitenza, e sia perché la nuova liturgia relativa a questa disciplina conferisce al tema una particolare attualità.
Per amore di brevità e di semplicità fissiamo la nostra attenzione su due punti fondamentali, nei quali ci sembra convergere la topografia dottrinale del tema stesso; due punti diversamente riassuntivi della complessa e immensa materia, in perfetta e corrispondente opposizione l'uno all'altro, quasi in bilanciata simmetria; due punti, che, ahimé!, la mentalità irreligiosa moderna tenta di espungere dal campo delle sue riflessioni; ma che non possono assolutamente essere trascurati dalla nostra spiritualità, se cristiani siamo e ci sentiamo.
Questi due punti stanno alla base dell'annuncio evangelico, del « cherigma » cristiano, cioè del nostro catechismo, e sembra a noi che racchiudano in sé la sintesi drammatica della nostra salvezza.
Quali sono?
Ancora una volta S. Agostino ci fornisce la formula, che non è solo verbale, ma reale, umana e teologica, e che si restringe nelle due formidabili parole: miseria e misericordia ( Cfr. En. in Ps. 32; e De Civ. Dei; ecc. ).
Dicendo miseria intendiamo parlare del peccato, tragedia umana che si svolge nella storia del male, abisso oscuro che precipita verso una paurosa rovina.
Il peccato: se ne è parlato altre volte; e sempre ritorna la sua conturbante presenza in ogni nostro discorso religioso ed umano; ora è il caso di mettere sotto la lente d'una più chiara visione questa nozione, la quale tiene posto di cardine inferiore e negativo di tutta la concezione cristiana dell'umana esistenza; e ciò è tanto più opportuno in quanto le ideologie teoriche e pratiche del mondo contemporaneo tentano di espungere il nome e la realtà del peccato dal discorso moderno.
Dove non è religione, il peccato non ha più senso d'essere.
Perché esso consiste nella violazione dell'ordinato rapporto, che congiunge l'uomo a Dio.
Anche qui è sempre valida la definizione classica del peccato, data da S. Agostino e dopo di lui dai maestri del pensiero cristiano: esso è un atto, un fatto, una parola e anche solo un cattivo desiderio contrario alla legge eterna di Dio, cioè a quella divina ragione che stabilisce l'ordine essenziale insito nella natura delle cose ( Cfr. S. Aug., Contra Faustum, 22, 27; e S. TH. I-IIæ, 71, 6 ).
Non parliamo qui del peccato originale, che costituisce un fondamentale capitolo della nostra teologia e dell'antropologia cattolica; ma il solo ricordo di questa triste e fatale eredità ci dice come nella nostra concezione della vita non possiamo prescindere da un inestinguibile bisogno di salvezza, e dall'impossibilità di conseguirla con le nostre sole forze: a nulla ci gioverebbe l'essere nati, se non ci fosse data la fortuna di rinascere ( Cfr. l'Exsultet della notte pasquale ).
Parliamo del peccato così detto attuale, quello cioè che mette in gioco la nostra libertà, la nostra responsabilità, e che trova tanto spesso incentivo nelle circostanze ambientali, sfavorevoli alla rettitudine del nostro operare.
Ora sta il fatto che proprio perché noi siamo intelligenti, liberi e responsabili, le nostre azioni hanno una ripercussione trascendente il cerchio della nostra personale esperienza e, volere o no, assumono un'importanza positiva o negativa, a seconda della loro conformità o della loro difformità alle esigenze del volere di Dio, nel quale, come pesci nell'acqua, noi siamo immersi.
L'immanenza della legge morale drammatizza la nostra esistenza, con questa conseguenza che l'infrazione grave alla medesima legge, mentre oggettivamente comporta un'offesa intollerabile a Dio, diventa soggettivamente mortale, per chi la commette, cioè si traduce in un'autolesione, in una « macchia », che indarno le opinioni naturaliste, col tentativo di ridurre il peccato alla dimensione di semplice fatto d'ignoranza o di debolezza, o d'incoercibile istinto, riescono a redimere.
« La conseguenza del peccato è la morte », afferma S. Paolo ( Rm 6,23 ).
Questa è la verità; questa è la sorte dell'uomo, che si è staccato scientemente e volontariamente dalla sorgente unica e somma della vita, che è Dio.
Ma un'altra verità succede; un'altra sorte è riservata all'uomo per il sopraggiungere d'un gratuito, onnipotente e ineffabile disegno di Dio: la misericordia.
Alla miseria dell'uomo viene in soccorso la misericordia divina.
E voi sapete con quale provvidenza: « dove abbondò il delitto, sovrabbondò la grazia » ( Rm 5,20 ).
E, sapete, con imprevedibile amore: Cristo, il Verbo di Dio fatto uomo ha assunto su se stesso la missione redentrice.
« Lui, che non conosceva il peccato, si è fatto peccato per noi, affinché noi diventassimo in lui giustizia di Dio » ( Cfr. 2 Cor 5,21 ).
Cioè si è offerto vittima espiatrice in nostra sostituzione, meritando per noi una restituzione allo stato di grazia, cioè alla partecipazione soprannaturale alla vita di Dio.
Non avremo mai abbastanza esplorato questo piano redentore nel quale si rivela l'infinita bontà di Dio, l'amore incomparabile di Cristo per noi, la fortuna senza confini offerta al nostro eterno destino.
Entrare in questo piano significa per noi fare penitenza, cioè sapere, accettare, rivivere questa economia di salvezza.
Che cosa v'è di più grande, di più necessario, e, in fondo, di più bello e di più facile e di più felice?
Con la nostra Apostolica Benedizione.