5 Febbraio 1975
Noi pensiamo ancora a quel rinnovamento promosso dall'Anno Santo della concezione umana della vita che deve caratterizzare l'autenticità e l'efficienza del cristiano, sia nella sua coscienza personale, e sia nella convivenza sociale.
E seguendo, col Vangelo alla mano, la traccia di questa ricerca ci incontriamo con una parola programmatica, che ci sembra difficile concordare con l'elevazione dell'uomo, operata dal piano divino della grazia, sul quale piano la dignità e la grandezza dell'uomo, come tante altre volte ci è capitato d'affermare, assurgono ad una statura splendida e maestosa, propria d'un figlio adottivo del Padre, d'un fratello del Cristo Salvatore regale dell'umanità, e d'un essere che ospita in sé la presenza luminosa e santificante dello Spirito Santo.
L'uomo, nella concezione e nella realtà del cattolicesimo, è grande; e tale deve sentirsi nella sua coscienza, nel valore del suo operare, nella speranza del suo finale destino.
Se non che una ingiunzione, la quale investe tutta la personalità dell'uomo, i suoi pensieri, il suo stile di vita, il suo rapporto con i suoi simili, gli impone nello stesso tempo di essere umile.
Che l'umiltà sia un'esigenza, potremmo dire costituzionale, della psicologia e della moralità del cristiano nessuno potrà negare.
Un cristiano superbo è una contraddizione nei suoi termini stessi.
Se vogliamo rinnovare la vita cristiana non possiamo tacere la lezione e la pratica dell'umiltà.
Come risolvere, innanzi tutto, il contrasto fra la vocazione alla grandezza e il precetto dell'umiltà?
Senza ricorrere alle celebri espressioni di Pascal, circa la grandezza e la miseria dell'uomo ( Cfr. Pascal, Pensées, 400, 416, 417, etc. ) noi abbiamo ogni giorno sulle labbra e nel cuore il Magnificat, l'inno sublime della Madonna, la quale proclama davanti a Dio e a quanti ne ascoltano la dolcissima voce, la sua umiltà di serva ( « Humilitatem ancillae suae »: Lc 1,48 ), e nello stesso tempo celebra le grandezze operate da Dio in lei, e profetizza l'esaltazione che di lei faranno tutte le umane generazioni ( Lc 1,48.49 ).
Come mai?
Come accordare l'umiltà più sincera e più operante col riconoscimento della più alta dignità?
L'apparente contraddizione fra umiltà e dignità del cristiano non poteva avere più alta e autorevole soluzione.
E la prima soluzione è data dalla considerazione dell'uomo davanti a Dio.
L'uomo religioso non può non essere umile.
L'umiltà è verità.
La coscienza cosmica genera l'umiltà: « che è mai l'uomo, perché Tu ( o Dio ) l'abbia a magnificare? » ( Gb 7,17 ).
S. Agostino, che ha dell'umiltà un concetto sempre presente nelle sue opere, c'insegna che l'umiltà è da collocarsi nel quadro della verità ( S. Augustini De nat. et gr., 34 ).
Siamo piccoli; e noi, per di più, siamo peccatori ( Cfr. S. Thomae Summa Theologiae, II-IIæ, 161 ).
A questo riguardo l'umiltà appare logica, e così facile, che se non fosse temperata da altre considerazioni provenienti dalla misericordia di Dio, ci condurrebbe allo scetticismo, alla disperazione.
« Umiliatevi, scrive San Pietro, sotto la mano potente di Dio, affinché Egli vi esalti nel tempo della ( sua ) visita; ogni vostra ansietà deponetela in lui, perché Egli ha cura di voi » ( 1 Pt 5,6-7 ).
E l'esempio di Cristo, soprattutto, ci sarà scuola e modello di umiltà ( Cfr. S. Bernardi De gradibus humilitatis et superbiae; PL 182, 941 ss. ).
Sotto l'aspetto religioso l'apologia dell'umiltà è facile me vittoriosa ( Cfr. 1 Cor 4,7 ) ragione di più per riconoscere alla religione un altro suo merito, non certo secondario.
Ma possiamo chiederci, non esiste un'umiltà senza un riferimento religioso?
Sì, esiste.
L'umiltà, per sé, è sapienza ( Cfr. S. Thomae Ibid. 1 ).
Socrate, ad esempio, ce ne è stato maestro.
Ma la sua consistenza morale non è sempre univoca e sicura, perché facilmente si deprime in avvilimento, o si gonfia di presunzione e di vanità.
E con grande facilità essa, l'umiltà personale, cioè il giudizio retto ed equanime che uno può avere su se stesso, non resiste in tale sua rettitudine al confronto col giudizio che dobbiamo avere su gli altri.
Il confronto personale con quello dei nostri simili non resiste, di solito, alla giusta misura in cui dovrebbe essere contenuto.
Possiamo quasi dire che l'umiltà, cioè la conoscenza dei nostri limiti, non è virtù sociale.
Il confronto con gli altri ci fa spesso pietosi verso noi stessi, e orgogliosi verso il prossimo; ricordate la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio, quando il primo dice di sé: « io non sono come gli altri … » ( Lc 18,11 ).
Sono messi così allo scoperto due malanni capitali della psicologia umana, colpevoli delle rovine più estese e più gravi dell'umanità: l'egoismo e l'orgoglio.
L'uomo allora fa centro su se stesso nella estimazione dei valori della vita; egli si fa primo; egli si fa unico.
La sua arte di vivere consiste nel pensare a se stesso e nel sottomettere gli altri.
Tutti i grandi disordini sociali e politici hanno nell'egoismo e nell'orgoglio il loro bacino di cultura, dove tanti istinti umani e tante capacità d'azione trovano il loro profondo alimento, ma dove l'amore non c'è più.
Ed anche dove questo sovrano sentimento ancora sopravvive, ma intriso com'è d'egoismo e d'orgoglio, si deforma e si deprava; diventa egoismo collettivo, diventa orgoglio di prestigio comunitario.
L'amore vi ha perduto la sua migliore e cristiana caratteristica, l'universalità, e perciò la sua vera autenticità, il suo sincero disinteresse, la sua meravigliosa capacità di scoprire, conoscere, servire le sofferenze degli altri, con cuore magnanimo, come Cristo con la parola e con l'esempio c'insegnò.
Questa parentela fra l'umiltà e l'amore, fra l'umiltà e la fortezza d'animo, fra l'umiltà e l'esercizio dell'autorità indispensabile alla giustizia e al bene comune, e infine fra l'umiltà e la preghiera, potrebbe e dovrebbe essere oggetto di ulteriore riflessione; basti ora a noi aver rivendicato il posto che le spetta nella rinnovazione cristiana, che andiamo cercando, un posto indispensabile e capitale, quello di una virtù, come dice S. Tommaso, dietro la scorta di Cristo ( Mt 11,29; Mt 18,2 ) è, dopo quelle teologali e la giustizia, « excellentissima et potissima », l'ottima e la preferibile ( S. Thomae Summa Theologiae, II-IIæ, 161, 5; cfr. S. Augustini De verb. Dom., serm. 69, 1 ).
Con la nostra Apostolica Benedizione.