1 Marzo 1975
Noi continuiamo il nostro presente cammino sugli umili, ma salutari sentieri del nostro catechismo, della nostra dottrina comunitaria cattolica.
Docili alla spiritualità propria della quaresima e al clamoroso invito dell'Anno Santo, noi dobbiamo e dovremo ancora soffermare la nostra attenzione sull'atto e sul momento preciso della nostra conversione, cioè sul sacramento della penitenza, che comunemente chiamiamo confessione.
Tutti conosciamo di che cosa si tratta; e noi non ripeteremo qui la lezione su tale tema.
Ma esso è così importante e così controverso, che pensiamo non superfluo richiamare alcuni aspetti di tale tema.
Innanzi tutto: noi abbiamo già detto una parola su la parte divina, trascendente, soprannaturale di tale sacramento, veramente prodigioso, come quello che ridà la grazia, cioè risuscita la vita divina, ch'è quella che più conta, nelle anime; bisogna ora ricordare che questo intervento salvifico della misericordia trionfante di Dio esige alcune condizioni da parte di chi la riceve; e tutti conosciamo quali.
Non è automatica, non è magica la causalità sacramentale della penitenza: essa è un incontro che suppone una disponibilità, una recettività, una predisposizione, una certa condizionante collaborazione umana.
E questa è l'oggetto delle difficoltà, che il dono di grazia, offertoci dal sacramento della penitenza, incontra da parte dell'uomo.
Qui si potrebbe svolgere un trattato di psicologia morale e religiosa.
Noi ora semplifichiamo l'immensa analisi, a cui il tema si presta, per accennare ai due punti nodali di questo capitolo della disciplina cattolica penitenziale.
Il primo ha un suo nome difficile e doloroso, che si chiama contrizione.
Stiamo col Concilio di Trento, il quale ha tanto studiato questa parte della nostra dottrina; ne troviamo la formula essenziale ripetuta nei nostri catechismi.
« La contrizione, dice il Tridentino, la quale tiene il primo posto negli atti del penitente, è un dolore dell'animo, e una riprovazione del peccato commesso, col proposito di non peccare più » ( Denz-Schön. 1676 ).
Dolore dell'animo: non è cosa facile, non è cosa piacevole.
Deriva da una coscienza, alla quale, di solito, l'uomo cerca di sottrarsi, la coscienza del peccato, la quale suppone la fede nel rapporto che intercede fra la nostra vita e l'inviolabile e vigilante legge di Dio.
Oggi è invalso un costume secolarizzante, talvolta più che pagano, il quale cauterizza la coscienza morale, dopo aver spenta la coscienza religiosa; il peccato, questa immensa misteriosa ripercussione in Dio dell'azione umana disordinata, non ha più consistenza, non ha più peso.
L'attività umana, nelle sue ragioni più alte, non ha più per riferimento né la legge, né la bontà di Dio; ma piuttosto altri termini di confronto: l'utilità, l'interesse, il piacere, il successo, l'autonomia assoluta della volontà, o della passione, o del capriccio soggettivo.
La contrizione, cioè il dispiacere per l'offesa rivolta a Dio, non ha più possibilità di esprimersi nella cella centrale e profonda, ch'è il « cuore » dell'uomo, ermeticamente chiusa dai gelosi sigilli della laicità radicale.
Il pericolo, il danno, il castigo di questa anchilosi morale non staremo noi a descriverli.
Chi ha l'occhio semplice, o l'occhio clinico sui fenomeni deteriori della vita moderna, li scorge da sé.
Noi diremo piuttosto della efficacia rianimatrice della contrizione per se stessa, quando sia motivata dalla offesa alla bontà di Dio, da un lato, e dalla deformità della malizia del peccato, dall'altro, quando cioè, come dicono i maestri, il dolore del fallo commesso sia « perfetto »: la contrizione così concepita è già di per se stessa causa del perdono di Dio, quando sia accompagnata dal proposito di ricorrere alla virtù del sacramento della penitenza, se appena possibile ( Cfr. S. Thomae, Suppl., 5, 1 ).
In una lettera d'un Religioso ci è stato suggerito di richiamare l'attenzione del nostro uditorio su questa provvidenziale maniera di ottenere la misericordia del Signore per chi si trovasse in punto di morte, senza avere presente il soccorso del ministero sacramentale ( Cfr. Denz-Schön. 1677 ).
È importante saperlo.
L'altro punto nodale di questa materia è la confessione, cioè l'accusa che l'uomo, desideroso del perdono di Dio, fa di se stesso, delle proprie colpe, e per disteso nelle loro qualificazioni morali, ad un ministro autorizzato ad ascoltare il penitente e ad assolverlo.
Tremenda cosa, tremenda penitenza; così pare.
E così è per chi non ha fatto l'esperienza dell'umiltà, che ritrova la verità e la giustizia parlanti dentro di lui, e l'esperienza liberatrice, consolatrice dell'assoluzione sacramentale.
Forse i momenti d'una confessione sincera sono fra i più dolci, i più confortanti, i più decisivi della vita.
Comunque sia, noi siamo qui ad un punto obbligato dello svolgimento della nostra salvezza: possiamo attribuirvi la celebre frase di S. Agostino: Qui fecit te sine te, non salvabit te sine te ( S. Augustini Serm. 169, XI ).
Anche questo momento della nostra vita cristiana dev'essere considerato con umiltà infantile e con virile coraggio.