14 Gennaio 1976
Noi abbiamo celebrato l'Anno Santo.
Noi vogliamo supporre che la celebrazione di questo avvenimento abbia davvero interessato gli animi di ciascuno di noi e che esso debba continuare ad esercitare sopra di noi il suo influsso benefico.
L'Anno Santo ci ha parlato di rinnovamento e di riconciliazione.
Dio voglia che queste due parole rimangano scolpite nel nostro ricordo, ed abbiano ad imprimere una direzione costante, una spinta sempre operante nella nostra vita spirituale.
E se così è, se così sarà, noi vedremo germinare da esse altre parole, altre formule feconde, che ci piacerà coltivare e far presiedere allo stile e al programma del nostro rinnovamento cristiano.
La ricerca e la scelta di qualche formula semplice e sintetica è nel genio del nostro tempo.
Una formula è stata da noi già fugacemente lanciata, quando ci proponemmo di cercare nella « civiltà dell'amore » il frutto religioso, morale e civile dell'Anno Santo.
Se piace, questa formula può rimanere; noi la crediamo valida per sinceri sviluppi, tanto individuali, quanto, e specialmente, sociali, a ricordo vivo ed operante dell'anno di grazia testé concluso, ma non ormai sorpassato e vano per la storia spirituale del nostro tempo.
Dovremo tuttavia ricordare il pericolo circa l'ambiguità dell'amore, come c'insegna S. Agostino, potendo l'amore coincidere con l'egoismo, cioè l'amore di sé, e farsi fondamento d'una « città » terrena, contraria all'amore di Dio, il quale solo può essere fondamento della « città » celeste ( Cfr. S. Augustini De Civitate Dei, XIX, 28 ), quella che sola può, nel nostro pensiero, realizzare la civiltà dell'amore.
Ma ci sono altre formule, ottime e feconde, nelle quali noi possiamo condensare, come in semi destinati a meravigliosi sviluppi, la forza genetica d'un cristianesimo sempre nuovo e vivo.
San Paolo ci potrà suggerire una quantità di queste formule originali e comprensive ( Cfr. Rm 1,17; Ef 4,15; Col 3,11; etc. ).
Del resto ogni Famiglia religiosa ha il suo motto, che ne dice il carattere interiore ed il suo proprio dinamismo.
Noi possiamo, in questo momento importante della nostra maturazione spirituale, risalire alla formula originaria stessa dell'annuncio evangelico, formula, che abbiamo poi sempre sulle labbra e nel cuore ogni volta che recitiamo la grande, la consueta preghiera del « Padre nostro », e facciamo nostro il tema della prima predicazione di Gesù Cristo stesso: « venga il Tuo regno ».
Questa espressione meriterebbe una lunga riflessione: che cosa in realtà chiediamo a Dio Padre quando lo supplichiamo che venga il suo regno?
È tema biblico e tema spirituale sempre degno di studio.
Noi ci limitiamo a ricordare che questa espressione, caratteristica nei primi discorsi del Signore, risuona come inaugurale dell'avvenimento messianico.
Gli esegeti osservano che di questo regno di Dio ( o regno dei cieli ) è menzione per oltre cinquanta volte nel Vangelo di Matteo ( Cfr. Lagrange, St Matthieu, CLVI ss. ); lo proclama per primo il Precursore, Giovanni Battista ( Mt 3,2 ); e poi esso diventa il tema della prima evangelizzazione di Gesù, che « cominciò a predicare e a dire: convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino » ( Mt 4,17 ).
Che cosa voleva dire il Signore con questa formula, non ignota al Popolo di Dio?
Voleva dire molte cose, non sempre facili a bene decifrarsi.
Ma per ora a noi basti indicare la novità messianica apportata da Cristo, il nuovo destino religioso dell'umanità, un nuovo piano di rapporti fra Dio e la storia umana ( L. De Grandmaison, Jésus Christ, I, 376 ss. ); un disegno d'amore, di misericordia, di salvezza, che per iniziativa divina si insinua nel mondo naturale e decaduto per risollevarlo e per conferirgli una vita nuova, un'adozione soprannaturale, proveniente da una comunione con Cristo, solo che noi la accogliamo e la viviamo ( Cfr. Ef 1 ).
Così si inaugura nel corso dei secoli questo nuovo regno di Dio.
Cristo lo apre, e, Lui vivente, è già in mezzo a noi ( Lc 11,20; Lc 17,21 ).
Ma un regno che qui comincia, ma non è completo, non è in uno stato definitivo; è piuttosto « in fieri »;
bisogna pregare che « venga » ( Mt 6,10 );
è ora nel campo della fede ( Cfr. 1 Cor 13,8ss )
e della speranza ( Rm 8,24 ),
ma già, in certo modo, sperimentabile nell'amore ( Cfr. tutta la dottrina dell'Eucaristia; Gv 6,54ss, della carità e della Chiesa ).
Bisogna che questa dottrina del Regno di Dio sia da noi acquisita con pienezza di adesione, pronti a goderne la gioia che gli è propria ( Cfr. Pauli PP. VI Gaudete in Domino ), a soffrirne la croce che parimente la fedeltà al Regno di Dio ci riserva, a derivarne la sapienza pratica, morale e sociale di cui essa è sorgente, a farne argomento del nostro dialogo col mondo profano circostante ( Cfr. Gaudium et Spes ).
Sì. « Venga il Tuo Regno », o Cristo; « il Tuo Regno », o Dio; dovremo sempre dire pensando, operando, e pregando.
Con la nostra Apostolica Benedizione.