4 Aprile 1976
Fare la Pasqua, che cosa significa?
Significa innanzitutto entrare nella contemplazione delle realtà supreme, che riguardano la nostra salvezza.
Queste realtà, noi dicevamo, possono essere riassunte ed espresse in due quadri estremamente drammatici:
il primo prospetta la condizione esistenziale dell'uomo, una condizione infelicissima, qual è quella d'una creatura mancata, vivente cioè in una natura decaduta e viziata, operante in un suo anormale funzionamento, ereditata dalla nascita stessa e aggravata di solito da falli personali e responsabili;
la condizione cioè del peccato originale peggiorata dalle colpe volontarie, incapace di per sé di ridare al proprio essere uno stato d'innocenza e quindi di rapporti positivi e felici con Dio, a cui noi saremmo destinati come a nostra vera vita e a nostra perfetta beatitudine.
La diagnosi teologica, secondo la fede convalidata dalla diagnosi etico-spirituale, e possiamo pur dire storico-biologica, risultante dall'esperienza, ci porta a questa conclusione desolata su la vita umana considerata solo in se stessa: la conclusione d'una necessità di salvezza.
È a questa dolorosa coscienza che ci deve condurre l'umanesimo profano e pagano, alle soglie cioè della follia e del pessimismo.
L'uomo non può salvarsi da sé.
Il secondo quadro, quello stupendo e originale della nostra religione, ci presenta il mistero dell'intervento divino per la nostra salvezza.
Sì, Dio è venuto in soccorso dell'umanità, franata nella rovina dopo la rottura del primo anello che la agganciava alla Vita stessa di Dio, e resa inferma per giunta dalle colpe proprie degli uomini peccatori.
Una prodigiosa rivelazione, di per sé non dovuta a noi creature trascinate nella disgrazia di Adamo e oppresse dalle nostre proprie mancanze, ci annuncia questa sorpresa: « Dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia » ( Rm 5,20 ); e ciò: « per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore » ( Rm 5,21 ).
Stampiamo profondamente nei nostri animi questo duplice quadro delle supreme verità che descrivono la nostra sorte e la bontà ineffabile e potente di Dio nella celebrazione della nostra salvezza, della nostra Pasqua.
S. Agostino, ancora una volta, ci rivela il suo genio di sintesi, sigillando in due parole questa storia dell'umana Redenzione; e le parole sono: « miseria », la quale condensa la condizione dell'uomo, la nostra fatale antropologia; e: « misericordia », il poema dell'amore salvifico di Dio, la sua folgorante teologia ( Cfr. S. Augustini Enarr. in Ps. 33, 4 ).
Miseria e misericordia: uno sforzo per entrare con la mente, col cuore, nell'abissale significato di queste due parole, l'una al fondo dell'analisi umana, l'altra in vetta alla divina rivelazione, ci può aiutare a comprendere qualche cosa del dramma pasquale, e ci può servire a raccogliere sopra queste schede decisive della nostra religione tante altre parole della Sacra Scrittura, non meno densa di rivelatrici ricchezze.
Ricordiamone alcune.
Scrive San Paolo agli Efesini: « Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati ci ha fatti rivivere con Cristo » ( Ef 2,4-5 ).
E Giovanni, nel suo Vangelo: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna » ( Gv 3,16 ); e ancora: « Da questo noi abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi » ( 1 Gv 3,16; cfr. C. Spicq, Agapè, 11, 179 ss. ).
La Pasqua diventa allora la scoperta meravigliosa dell'amore che Dio, mediante Cristo, nell'effusione dello Spirito Santo, ha per noi; e se questa scoperta accresce il pentimento della nostra coscienza per l'indegnità della nostra condotta, ci inonda poi di fiducia e di gaudio, sapendo ristabilito il nostro rapporto filiale e felice col Dio vivente.
In questa prospettiva, vi auguriamo, Figli tutti carissimi, la « buona Pasqua », e confermiamo l'augurio con la nostra Apostolica Benedizione.