23 Giugno 1976
Noi inviteremo la vostra disponibilità spirituale, che pensiamo aperta ed avida d'una nostra parola in questo momento, a riflettere ancora una volta sulla preghiera, azione questa nella quale sembra a noi praticamente consistere quella sintesi di vita spirituale, alla quale le recenti festività liturgiche ci hanno predisposti.
Il rinnovamento della nostra vita morale, cioè quella conversione, quella rettitudine direttiva d'ogni nostro operare, quella « metanoia » di cui parla il Vangelo ed a cui si fa sovente riferimento, e poi il rapporto fiducioso e amoroso ristabilito con Dio mediante l'accesso ai sacramenti pasquali, e per di più una avveduta e pericolosa esperienza del momento storico-sociale nel quale ci troviamo, mettono nel cuore e sulle labbra una filiale e spontanea preghiera.
Forse noi siamo nella condizione propizia per aprirle il volo verso il mistero di Dio, mistero non più cieco, non più pauroso, ma avallato dalla fede, e documentato da qualche interiore, gioiosa esperienza.
E allora, quale preghiera sarà la nostra?
Chiediamolo al Maestro divino stesso, al Signore Gesù: « insegnaci a pregare » ( Lc 11,1 ).
Ed ecco la formula prima e somma, per antonomasia, del nostro colloquio con Dio, quale Cristo, ci ha insegnata: il « Padre nostro ».
Essa è l'espressione più semplice, più felice, più profonda della nostra religione.
Tutti lo sappiamo.
Ma faremo bene a dedicarvi una speciale riflessione, appunto per renderci conto, non foss'altro, della nostra fortuna di poter pregare così.
Noi ora non oseremo dirvi di più.
Ci basti invitarvi a riflettere almeno a quale rapporto religioso questa preghiera stabilisca fra noi, piccoli atomi nell'oceano dell'universo e il Creatore di tutto, l'Essere infinito, eterno, ineffabile, onnipresente e misterioso, il Dio del cielo e della terra: il rapporto di figli con il proprio Padre.
Basta questa prima avvertenza per arrestare il nostro pensiero: siamo noi diventati così grandi da poterci arrogare il titolo di figli di Dio?
o è Dio, che si è degnato curvarsi verso di noi fino ad autorizzarci a considerarlo, a saperlo nostro Padre?
Questo è il cuore del Vangelo; questo è il punto prospettico familiare e superlativo, nel quale ci colloca la rivelazione cristiana.
Pensiamoci, pensiamoci; perché subito quasi rapiti nell'orizzonte incommensurabile dell'universo: Padre nostro ( nostro, ricordiamo! ), che stai nei cieli: l'atmosfera del mistero restituisce al Padre la sua faccia, superiore ad ogni nostro tentativo di contemplazione, ma non toglie a noi la certezza e la beatitudine d'esserci impadroniti del suo vero, dolcissimo nome: Padre nostro, principio vivente e amoroso del piccolo, sì, ma meraviglioso essere nostro, che illuminato dalla Luce presente ed invisibile del sole divino si scopre alla nostra coscienza come a Lui somigliante; parola dell'origine: « facciamo l'uomo a nostra somiglianza » ( Gen 1,26 ); e allora in lumine Tuo videbimus lumen ( Sal 36,10 ): al tuo fulgore di luce vedremo la nostra luce.
Basterebbe questo primo annuncio del dialogo, reso possibile tra l'uomo e Dio, per dire grazie a Cristo, e per dirgli l'improvvisa ed estatica gioia del nostro spirito: « Maestro, è bello per noi stare qui! » ( Mc 9,5 ).
Ma questo non è che l'atrio della nostra conversazione diventata, fin dalla soglia del suo ingresso nel regno dei cieli, conversazione celeste ( Cfr. Ef 3,20 ).
Voi conoscete come essa procede, con duplice disegno simmetrico e trinitario.
Con tre elevazioni ascendenti, al nome, al regno, alla volontà di Dio, celebrative le prime; imploranti le tre successive, del pane, del perdono, della difesa di cui ha bisogno la nostra fragile esistenza; tese le une e le altre allo sforzo possibile per l'umile, ma indispensabile casualità umana, così che la preghiera non sia l'imbelle rassegnazione fatalista alle soverchianti difficoltà del mondo ostile, oscuro a noi circostante, e sia invece rivolta alla soverchiante, ma pietosa causalità divina, che la filiale orazione implora provvida e risolutiva delle nostre insolubili necessità.
Qui è il nodo di collegamento e d'incontro della sovrana efficienza divina a cui si apre e s'innesta umile, ma volonterosa e disponibile, l'efficienza umana.
Quanti aspetti della sapienza religiosa sono qui riassunti a nostro ammaestramento e a nostro conforto!
Quanto ci fa umili e quanto ci fa grandi la preghiera del « Padre nostro », insegnataci dallo stesso supremo ed unico Maestro, che è il Cristo! ( Cfr. Mt 23,8 ) quali profondità soggettive e personali essa scava dentro di noi, e quali armonie comunitarie essa esige e promuove!
Non diciamo di più; ma vorremmo che questa regina delle preghiere diventasse per noi la preferita.
E fosse tema, una volta almeno, di speciale e attenta meditazione.
Esiste tutta una letteratura su questa « oratio dominica », su questa preghiera che il Signore stesso ci ha insegnato ( Tra i commenti classici a noi più accessibili: Tertulliani De Oratione: PL 1149.1196; S. Cypriani De Oratione dominica: PL 4, 519-543, ora tradotte da C. Failla, Città Nuova Ed.; S. Thomae Summa Theologiae, II-IIæ, 83, 3, 4, etc.; Cat. Rom. Tridezt., « De Oratione dominica »; etc. Tra i commentatori recentissimi: Carnelutti, etc. ).
Espressione della nostra insufficienza, della nostra debolezza, della nostra colpevolezza, la preghiera del Signore può diventare la nostra forza, la nostra fiducia, la nostra speranza: « Chiedete, e vi sarà dato », dice il Signore.
« Chi tra di voi al Figlio che chiede un pane darà una pietra?
Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano? » ( Mt 7,9-11 ).
Pregare dunque, pregare sempre: con la nostra Benedizione Apostolica.