17 Luglio 1991
1. Nella presente catechesi, sempre in fase introduttiva all’ecclesiologia, vogliamo fare una breve analisi del nome della Chiesa, quale ci proviene dal Vangelo, e anzi dalla parola stessa di Cristo.
Seguiamo così un metodo classico di studio delle cose, nel quale il primo passo è l’esplorazione del significato dei termini impiegati per designarle.
Per una istituzione grande ed antica come la Chiesa, che qui ci interessa, è importante sapere come la chiamò il fondatore: perché già quel nome dice il suo pensiero, il suo progetto, la sua concezione creativa.
Ora ci risulta dal Vangelo di Matteo che quando Gesù, in risposta alla confessione di fede di Pietro, annunciò l’istituzione della “sua Chiesa” ( “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa”: Mt 16,18 ), si servì di un termine, del quale l’uso comune del tempo e la stessa presenza in vari passi dell’Antico Testamento ci permettono di scoprire il valore semantico.
Bisogna dire che il testo greco del Vangelo di Matteo adopera qui l’espressione “mou ten ekklesían”.
Questo vocabolo - ekklesía - è stato usato dai Settanta, ossia nella versione greca della Bibbia nel II secolo prima di Cristo, per tradurre il qahàl ebraico e il suo corrispondente aramaico qahalà, verosimilmente usato da Gesù nella sua risposta a Simon Pietro.
E già questo fatto è il punto di partenza per la nostra analisi lessicale dell’annuncio di Gesù.
2. Sia il termine ebraico qahal sia quello greco ekklesía significano “raduno, assemblea”.
Ekklesía ha un rapporto etimologico col verbo greco kalein, che significa “chiamare”.
Nel linguaggio semitico la parola aveva praticamente il significato di “assemblea” ( convocata ), e nell’Antico Testamento veniva usata per designare la “comunità” del popolo eletto, specialmente nel deserto ( cf. Dt 4,10; At 7,38 ).
Ai tempi di Gesù la parola rimaneva in uso.
Si può notare in particolare che in uno scritto della setta di Qumran, che riguarda la guerra dei figli delle tenebre, l’espressione qehál ‘El, “assemblea di Dio”, viene adoperata, tra altre simili, sulle insegne militari ( 1 Qumran 5,10 ).
Anche Gesù usa quel termine per parlare della “sua” comunità messianica, quella nuova assemblea convocata per l’alleanza nel suo sangue, alleanza annunciata nel Cenacolo ( cf. Mt 26,28 ).
3. Sia nel linguaggio semitico sia in quello greco, l’assemblea si caratterizzava in base alla volontà di colui che la convocava, e allo scopo per cui la convocava.
Infatti sia in Israele, sia nelle antiche città-stato dei Greci ( pòleis ), si riunivano adunanze di vario tipo, anche di carattere profano ( politiche, militari o professionali ), accanto a quelle religiose e liturgiche.
Anche l’Antico Testamento fa menzione di adunanze di diverso tipo.
Ma quando parla della comunità del popolo eletto sottolinea il significato religioso, e anzi teocratico, del popolo eletto e convocato proclamando esplicitamente la sua appartenenza all’unico Dio.
Perciò considera e chiama tutto il popolo d’Israele come qahal di Jahvè, proprio perché esso è una particolare “proprietà di Jahvè tra tutti i popoli” ( Es 19,5 ).
È un’appartenenza e una relazione tutta particolare con Dio, fondata sull’Alleanza stretta con lui e sull’accettazione dei comandamenti consegnati mediante gli intermediari tra Dio e il popolo, al momento della sua chiamata che la Sacra Scrittura chiama appunto “il giorno dell’assemblea” ( “jòm haqqahàl”: Dt 9,10; Dt 10,4 ).
Il sentimento di questa appartenenza attraversa tutta la storia d’Israele e perdura nonostante i ripetuti tradimenti e le ricorrenti crisi e sconfitte.
Si tratta di una verità teologica contenuta nella storia, alla quale possono fare appello i profeti nei momenti di desolazione, come Isaia ( deutero ), che dice a Israele, a nome di Dio, verso la fine dell’esilio: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni” ( Is 43,1 ).
Come ad annunciare che in forza dell’Antica Alleanza interverrà presto per liberare il suo popolo.
4. Questa Alleanza con Dio, dovuta ad una sua elezione, dà un carattere religioso a tutto il popolo di Israele e una finalità trascendente a tutta la sua storia, che pure si svolge tra vicende terrene ora felici, ora funeste, sicché si spiega il linguaggio della Bibbia quando chiama Israele “comunità di Dio” ( “qehal Elohìm”: cf. Ne 13,1; e più spesso “qehal Jahwèh”: cf. Dt 23,2-4.9 ).
È la coscienza permanente di una appartenenza fondata sull’elezione di Israele fatta da Dio in prima persona: “Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli …
Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” ( Es 19,5-6 ).
Qui è appena necessario ricordare, sempre in sede di analisi del linguaggio, che nel popolo dell’Antico Testamento, a motivo del grande rispetto per il nome proprio di Dio, “qehal Jahvè” veniva letto come “qehal Adonai”, ossia l’“assemblea del Signore”.
Perciò anche nella versione greca dei Settanta si trova tradotta: “ekklesía Kyrìou”; noi diremmo “la Chiesa del Signore”.
5. È pure da notare che gli scrittori del testo greco del Nuovo Testamento seguivano la versione dei Settanta, e questo fatto serve a spiegarci perché essi chiamano “ekklesía” il nuovo Popolo di Dio ( il nuovo Israele ), come pure il loro riferimento della Chiesa a Dio.
San Paolo parla spesso della “Chiesa di Dio” ( cf. 1 Cor 1,2; 1 Cor 10,32; 1 Cor 15,9; 2 Cor 1,1; Gal 1,13 ) oppure delle “Chiese di Dio” ( cf. 1 Cor 11,16; 1 Ts 2,14; 2 Ts 1,4 ).
Sottolineando per ciò stesso la continuità dell’Antico e del Nuovo Testamento, e questo fino al punto di chiamare la Chiesa di Cristo “l’Israele di Dio” ( Gal 6,16 ).
Ben presto, però, avviene in San Paolo il passaggio a una formulazione delle realtà della Chiesa fondata da Cristo: come quando parla della Chiesa “in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo” ( 1 Ts 1,1 ), oppure della “Chiesa di Dio in Gesù Cristo” ( 1 Ts 2,14 ).
Nella Lettera ai Romani l’Apostolo parla addirittura delle “Chiese di Cristo” ( Rm 16,16 ), al plurale, avendo in mente - e sotto gli occhi - le chiese locali cristiane, sorte in Palestina, Asia Minore e Grecia.
6. Questo progressivo sviluppo del linguaggio ci attesta che nelle prime comunità cristiane si chiarisce gradualmente la novità inclusa nelle parole di Cristo: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” ( Mt 16,18 ).
A questa Chiesa si applicano ora in senso nuovo e con maggior profondità le parole della profezia di Isaia: “Non temere, perché ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni” ( Is 43,1 ).
La “convocazione divina” è opera di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato; Egli fonda ed edifica la “sua” Chiesa, come “convocazione di tutti gli uomini nella nuova Alleanza”.
Di questa Chiesa egli sceglie il fondamento visibile e gli affida il mandato di reggerla.
Questa Chiesa appartiene dunque a Lui e rimarrà sempre sua.
Questa è la convinzione delle prime comunità cristiane, questa è la loro fede nella Chiesa di Cristo.
7. Come si vede, già dall’analisi terminologica e concettuale che si può condurre sui testi del Nuovo Testamento derivano alcuni risultati sul significato della Chiesa.
Possiamo sintetizzarli fin d’ora nell’asserzione seguente: la Chiesa è la nuova comunità degli uomini, istituita da Cristo come una “convocazione” di tutti i chiamati a far parte del nuovo Israele per vivere la vita divina, secondo le grazie e le esigenze dell’Alleanza stabilita nel sacrificio della Croce.
La convocazione si traduce per tutti e per ciascuno in una chiamata, che esige una risposta di fede e di cooperazione per il fine della nuova comunità, indicato da colui che chiama: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto …” ( Gv 15,16 ).
Di qui deriva il dinamismo connaturale alla Chiesa, che ha un campo d’azione immenso, perché è una convocazione ad aderire a Colui che vuole “ricapitolare in Cristo tutte le cose” ( Ef 1,10 ).
8. Lo scopo della convocazione è l’essere introdotti nella comunione divina ( cf. 1 Gv 1,3 ).
Per raggiungere questo scopo il primo mezzo consiste nell’ascolto della Parola di Dio, che la Chiesa riceve, legge e vive nella luce che le viene dall’alto, come dono dello Spirito Santo, secondo la promessa di Cristo agli Apostoli: “Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” ( Gv 14,26 ).
La Chiesa è chiamata e mandata per portare a tutti la parola di Cristo e il dono dello Spirito: a tutto il popolo che sarà il “nuovo Israele”, a cominciare dai bambini, dei quali Gesù disse: “Lasciate che vengano a me” ( Mt 19,14 ).
Ma tutti sono chiamati, piccoli e grandi; e tra i grandi, persone di ogni condizione: come dice San Paolo, “non c’è più né Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” ( Gal 3,28 ).
9. Lo scopo della convocazione, infine, è un destino escatologico, perché il nuovo popolo è tutto orientato verso la comunità celeste, come sapevano e sentivano i primi cristiani: “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” ( Eb 13,14 ).
“La nostra patria … è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo” ( Fil 3,20 ).
A questo vertice ultraterreno e sovrannaturale ci ha condotti l’analisi del nome dato da Gesù alla sua Chiesa: il mistero di una nuova comunità del popolo di Dio che comprende, nel vincolo della comunione dei santi, oltre ai fedeli che sulla terra seguono Cristo sulla via del Vangelo, coloro che completano la loro purificazione nel purgatorio, e i santi del cielo.
Su tutti questi punti dovremo riprendere il discorso nelle successive catechesi.