Tobia |
Il libro di Tobia presenta una storia ingenua e deliziosa, nella quale si condensa la pietà giudaica maturata lungo tutta la storia d'Israele.
Ne sono protagoniste due famiglie imparentate, che vivono rispettivamente a Ninive e nei pressi di Ecbàtana.
Il pio Tobi, divenuto cieco, non perde la fiducia in Dio.
Egli manda il figlio Tobia in Media, nella cittadina di Rage, presso un parente, Gabaèl, a riscuotere il denaro che aveva depositato presso di lui.
Tobia nel viaggio viene accompagnato dall'angelo Raffaele, che gli si presenta in incognito.
Lungo il viaggio, giunto a Ecbàtana, da Raguele, ne prende in moglie la figlia, Sara, già sposata sette volte ma i cui mariti erano morti la prima notte di nozze.
Egli si salva, pregando e bruciando nella camera nuziale il cuore e il fegato di un pesce preso lungo il viaggio.
Recuperato il denaro depositato presso Gabaèl, al ritorno degli sposi a Ninive, il fiele del pesce sana gli occhi del padre Tobi.
Raffaele svela infine la sua identità.
La narrazione è accompagnata da ampi testi di riflessione religiosa e da preghiere.
Il dramma di due famiglie ( 1,1-3,17 )
L'avventura del viaggio ( 4,1-6,19 )
Una doppia guarigione ( 7,1-14,15 ).
Il quadro storico presentato nel racconto è incoerente, mette insieme riferimenti disparati, vaghi e anche inesatti.
In realtà, queste reminiscenze storiche sono tratte dal passato per creare lo sfondo di un racconto romanzato, nel quale si dà vita a personaggi creati per mostrare le virtù esemplari di un pio israelita.
L'insegnamento messo maggiormente in luce riguarda il dovere di seppellire i morti e di sposare una donna della propria parentela.
L'autore mostra pure come non manchino le prove e le contrarietà, anche quando si è pii e attenti ai bisogni del prossimo.
Queste, tuttavia, sono superate con l'aiuto che Dio non fa mancare e che si rivela al momento opportuno.
Il libro di Tobia presenta un clima tranquillo e sereno, a differenza di quelli di Ester e di Giuditta, caratterizzati da una forte nota bellicosa, che ci riporta all'epoca maccabaica.
Questo libro sembra perciò riflettere un'epoca di poco antecedente ( III-II sec. a.C. ).
Esso dovrebbe essere stato composto in una regione della diaspora giudaica dove si parlava aramaico.
Qui, pur vivendo lontano dalla terra d'Israele, si sentiva forte il richiamo di Gerusalemme.
A questo ambiente e a quest'epoca appartennero anche i primi lettori del libro di Tobia.
L'autore è per noi sconosciuto; egli scrisse il racconto in ebraico o, più probabilmente, in aramaico.
Frammenti di testo in aramaico e in ebraico sono stati trovati a Qumran.
Il libro è però a noi pervenuto nella versione greca detta dei LXX.
Quanto al testo stesso si distinguono due diverse recensioni: una più corta, riportata dai codici Vaticano ( B ) e Alessandrino ( A ), l'altra più lunga, propria del codice Sinaitico ( S ).
È questa, di carattere più vivace, che sta alla base della presente traduzione.
Il libro di Tobia è stato sempre riconosciuto come ispirato dalla Chiesa cattolica e da quelle ortodosse.
Le comunità ecclesiali protestanti e anglicane, invece, lo escludono dal canone biblico.
Una lettura attenta del soave libretto e di qualcuno dei lavori che gli sono stati dedicati desta continuamente motivi di rimpianto.
Peccato che non si abbia un testo, che si possa prendere come quello primitivo, quello originale uscito dalla penna dell'A.
Tale testo non avrebbe certamente quei punti che sono divenuti oscuri nelle vicende che il libro attraversò.
Si suoi dire che il testo rispondente a questi requisiti era in una lingua semitica, ebraico o aramaico.
In favore dell'aramaico può valere la considerazione che i lettori, a cui presumibilmente dovette soprattutto interessare questa lettura, erano Ebrei dell'età posteriore all'esilio, che appunto parlavano aramaico.
In favore dell'ebraico si sono pronunciati alcuni studiosi in base a certe particolarità dei testi che ci sono rimasti in greco.
In realtà nessuno dei semitismi del nostro libro ci obbliga a questo, arai non ci obbligano nemmeno a risalire a un originale semitico, poiché essi possono essere non effetto di traduzione servile, ma di semitismi vivi nel parlare degli Ebrei di lingua greca, tra cui era l'A. e per i quali il libro fu scritto.
Ben diverso in ciò è il caso per es. di Sir., il cui greco certamente è traduzione.
I testi più antichi che ci rimangono sono in greco e rappresentano forme o redazioni abbastanza differenziate tra loro, per aggiunte, riduzioni e modifiche varie.
Queste redazioni sono principalmente due:
1) quella contenuta nel testo dato dal codice Vaticano, dal codice Alessandrino e dalla maggior parte dei codici detti minuscoli;
2) quella del codice greco Sinaitico, a cui è simile la traduzione latina più antica.
Altre numerose forme, tra cui alcune greche, quella della versione latina, quelle di altre versioni antiche e medioevali ( anche in ebraico e aramaico ) non ci interessano qui.
Delle due ricordate, la prima, in uso tra i cristiani di lingua greca, è quella qui tradotta, secondo l'edizione del Rahifs, che abbiamo seguito anche dove introduce qualche congettura, per es. in Tb 2,10.
La ragione di preferenza per la redazione prescelta non dipende dal giudizio di una sua anteriorità cronologica, non essendo noto tale rapporto tra le varie redazioni.
Per il fatto che il testo di Tobia è solo in greco, questo libro non è incluso nel canone ebraico, ossia è deuterocanonico, non riconosciuto per sacro dagli Ebrei ne dai protestanti.
Ma si può dimostrare che già nel sec. il la Chiesa cristiana stimava Tobia vera scrittura sacra ( Policarpo, m. 156; Clemente Alessandrino, m. 211 ca.; Origene, m. 254 ).
Peccato che tante questioni erudite abbiano spesso richiesto a questo libro ciò che esso non voleva dare e non ciò che invece è il suo scopo vero e in sostanza unico, l'edificazione spirituale.
Le questioni erudite riguardano la storia generale in cui si inserisce la piccola storia che esso narra.
Questa piccola storia è quella di una famiglia.
Un vecchio Ebreo, delle tribù settentrionali, ma vivente fuori della Palestina, in Oriente, dove è stato deportato nelle tristi vicende del suo popolo, manda il figlio presso un parente, anch'esso ebreo, esule in un'altra città orientale, a riscuotere danaro: sul punto di partire il figlio, ignaro della strada, si rivolge a un altro giovane, il quale gli dichiara di essere pratico dei luoghi e di dover appunto recarsi nella stessa città anche lui.
I due partono e incontrano numerose avventure: il primo di essi si sposa, in circostanze straordinarie, e il suo compagno va a riscuotere per lui la somma; tornano quindi insieme: alla fine però si scopre che l'amico accompagnatore è un angelo.
Le complicazioni derivanti dall'inserzione di questo piccolo fatto nella storia generale d'Israele e dell'Oriente sono quelle di tutte le storie a carattere popolare, quando alludono a fatti e personaggi antichi e luoghi lontani: nomi deformati, accostamenti a orecchio, riduzioni, ingrandimenti.
Vedremo qualche cenno a proposito dei sovrani, ma i turbamenti in tal senso sono abbastanza numerosi.
Peccato che non si sia sempre ben tenuto conto del carattere popolare dell'opera, che definendo il suo genere letterario avrebbe insegnato con quale disposizione di spirito si debbano leggere sia le allusioni ai fatti della grande storia sia il piccolo racconto che ne forma l'oggetto.
Non c'è dubbio che l'A. racconta tutte le cose come fatti veri, ma la verità che egli intende è ugualmente lontana dalla verità documentata degli storici e dalle invenzioni dei romanzieri; ed egli sarebbe ugualmente meravigliato di chi lo tacciasse di romanziere e di chi lo rimproverasse perché al controllo documentario le sue informazioni non sono esatte.
Egli ne inventa ne, prima di raccontare, ha cercato documenti.
Inventare avrebbe significato per lui ingannare; d'altra parte per evitare di ingannare egli non ha sentito il bisogno di garantirsi sui documenti.
E siccome in questa materia, come nel giudizio sulla moralità delle azioni umane, bisogna guardare l'intenzione e le convinzioni del soggetto agente, così il giudizio sulla verità di questo racconto con i suoi particolari non può essere negativo.
È una storia vera come lo può essere una storia popolare.
Ci si può allora domandare quanto di veramente accaduto vi sia, almeno nel racconto dei fatti riguardanti il vecchio Israelita, suo figlio e le persone che incontra nel viaggio.
Ma posta cosi, la domanda non si presta che a una risposta evasiva.
Non è mai successo che una umile famiglia del popolo pensasse di scrivere la propria storia o altri pensasse di farlo con gli intendimenti storiografici, con cui, per es. il Grisar ha scritto la storia di Luterò.
Uno scritto del genere di Tobia non è pensabile che per fini diversi da quelli della storiografia come possono essere il divertimento e, diciamo in generale, una propaganda ideologica e, più precisamente, l'edificazione religiosa.
Puro scopo di letteratura amena Tobia non ha: al massimo si può dire che questo fine c'è in quanto si accompagna agli altri più direttamente militari.
Gli esempi di letteratura amena nell'antico Oriente sono rarissimi e non mancano mai completamente del fine didattico, specialmente religioso; come d'altra parte è evidente che i libri di storia a fondo religioso soddisfacevano anche ai bisogni della lettura ricreativa.
L'ispirazione religiosa diffusa mette Tobia tra questi ultimi.
Il fine religioso è in sostanza l'unico che cerca l'A.
Allora la domanda sulla verità storica si precisa: in che misura è necessario che i fatti narrati corrispondano ad avvenimenti veri del passato perché per una parte abbia un fondamento la coscienza dell'A. di narrare una storia vera e per l'altra fosse ottenuto il suo fine?
Il giudizio deve riguardare i singoli particolari, però anche un giudizio generico si può dare e pare sia questo: perché siano soddisfatte le esigenze ricordate è certo necessario che qualche cosa di veramente accaduto tra i fatti narrati ci sia, ma che cosa precisamente non si può che indicare per ipotesi.
Tra questi fatti si dovrà mettere anzitutto l'apparizione dell'angelo e la sua funzione di compagno del giovane; così pure la liberazione dall'infestazione diabolica di cui al c. 3.
Abbiamo menzionato al primo posto questi due particolari, perché sono quelli in cui nella storia si inserisce un elemento sovrumano e che pare bene costituiscano tratti d'importanza nel fine didattico, essendo anche tanto singolari nel complesso biblico.
E poi vi sono i fatti riguardanti gli attori umani del racconto, la storia della famiglia.
A ben guardare, non una ma cento famiglie possono avere avuto di queste vicende: gente in esilio, che vive zelante della propria legge religiosa e un giorno, avendo denaro fuori di casa, si adopera per ricuperarlo, a ciò provvede un giovanotto, che in giro per affari trova anche modo di sposarsi secondo precisi ideali morali e religiosi, non suscettibili di essere ugualmente soddisfatti nella sua residenza abituale.
Niente di straordinario; niente, quindi, che dovesse essere registrato da un Erodoto qualsiasi.
Quando si è detto che il fatto è possibile, si è detto tutto.
Se qualche particolare è necessario perché sia giustificato l'elemento soprannaturale, anch'esso riceve una conferma per via, diciamo così, teologica: effettivamente sembra che si trovi in questi termini il fatto « viaggio », condizione perché si avverasse l'apparizione e tutta la parte dell'angelo accompagnatore.
Ma i particolari possono essere rilasciati alla libertà di scelta, ai gusti, anche alla fantasia dello scrittore, che doveva pure riempire il racconto dove la tradizione non gli diceva che la sostanza delle notizie; doveva pure ricostruire gli incontri e quindi istituire dialoghi; come doveva inoltre descrivere la parte soprannaturale servendosi dei mezzi normali di ogni figurazione narrativa, e quindi dare forme all'angelo, al diavolo, a cose che a loro piacciono o dispiacciono, metterli insomma in opposizione con questo mondo e la sua vita, in cui si erano inseriti.
E se il suo racconto diverte, egli ne sarà ben lieto, perché in questo risultato egli vede una condizione favorevole per il fine a cui soprattutto mira: insegnare. E che cosa insegna?
Questa domanda ci suggerisce un ultimo rimpianto: peccato che non si sia sempre guardato nello studiare questo libro ai suoi insegnamenti religiosi.
Alcuni sono dogmatici: esistenza degli angeli, la loro funzione di custodi degli uomini e, per contro, i demoni, il valore della preghiera.
Ma soprattutto Tobia è ricco di insegnamenti morali che fanno del libro un codice delle piccole virtù della vita delle persone umili.
I protagonisti sono modelli di bontà, che è già il programma del loro nome personale ( in ebraico Tobia significa buono ): osservanti puntuali dei doveri religiosi e dediti a opere di beneficenza anche con rischio e sacrificio, affezionati tra di loro e pronti ad aiutarsi; sensibili e riservati nelle loro intimità.
Soprattutto rifulge il senso della fiducia nella provvidenza, non solo nella condotta dei personaggi, ma anche nella convinzione dell'A., che conduce la narrazione in modo da mostrare che nulla avviene a caso.
Dio veglia sui fedeli, prepara le loro vie, li mette alla prova, ma porta tutti a buon fine.
Alle domande solite nell'introduzione a un libro biblico si può solo rispondere in parte.
Non si sa chi abbia scritto il libro che servì di punto di partenza per le varie traduzioni e rifacimenti ( l'originale ), ne si conoscono gli autori di questi rifacimenti, tra cui quello qui tradotto.
Non si sa a che epoca risalga la prima stesura scritta; ma forse servirebbe ben poco saperlo, perché la materia certamente passò oralmente attraverso una lunga e forse lunghissima tradizione, che si collegherà lontano ad altre opere narrative di antichissima origine, che in questo racconto furono parzialmente imitate.
Vogliamo riferirci al bei racconto che possediamo, anch'esso differenziato in più forme, sulle vicende e la sapienza di Akhichar.
Costui, divenuto ministro di un gran sovrano orientale ( i testi ora hanno il nome di Sennacherib e Assarhaddon, ma la figura può risalire più indietro di questi sovrani ), non avendo figli, adotta un giovane parente, a cui da molti saggi consigli, questi, però, calunnia il benefattore presso il re, quando Akhichar già sta per essere condannato a morte, si scopre la verità: l'ingrato viene condannato al posto di Akhichar, dopo aver ascoltato da lui un'altra serie di sentenze.
Il libro ebbe una grande fortuna per le due collezioni di massime, anche tra gli Ebrei, fin dal sec. V a. C., come si sa da prove dirette per gli Ebrei d'Egitto.
Certamente si osservò la approssimativa contemporaneità dei due personaggi, di Akhichar e Tobia, quindi ci spieghiamo che il primo sia stato menzionato nella storia del secondo e perfino come suo parente.
Ma da testo a testo le cose cambiano; quasi sempre si nota il carattere avventizio di questo passo su Akhichar in Tobia.
Nella nostra redazione Akhichar si chiama Achiacaro ( Tb 1,21ss; Tb 2,10 ) e il parente ingrato Nasba ( Tb 11,19 ) e Aman ( Tb 14,10 ).
La relazione Tobia-Akhichar fu certamente accolta con piacere nella tradizione di Tobia a causa della grande popolarità e autorità del secondo.
Don Federico Tartaglia
Luca Mazzinghi
Giulio Michelini
Arciconfraternita San Raffaele a Nola
Apostoli della Pace
Padre Pablo Martin
Rosanna Virgili
Indice |