Luce dall'Immacolata |
B140-A1
Distinguere i diversi aspetti della vita umana, onde coglierne, arricchendoci, i tesori che vi si nascondono, è opera di cultura e di civiltà.
Quante volte tuttavia lo sforzo di distinguere si è mutato, per cieca unilateralità, in quello di separare.
Ci rintronano ancora gli orecchi per le conclamate traduzioni popolari di certe dottrine: « La religione è la religione, ma la politica è un'altra cosa, e gli affari sono affari: a ciascuno la propria strada ».
Il che in parte è vero, e in parte è falso.
Vero, in quanto l'oggetto diretto e immediato della religione non è quello diretto ed immediato della politica o dell'economia o della scienza cosiddetta profana.
Falso, poiché se molteplici sono le attività umane, unica è la persona da cui sgorgano, incrementandola, e unico è il fine ultimo a cui conducono.
L'impronta unitaria, e non semplicemente sintetica, non si può mai tradire, pena lo smembramento e la distruzione della persona umana.
Doveroso è distinguere la fisionomia e il campo specifico di ciascuna delle fondamentali attività umane ( religiosa, artistica, economica, tecnica, ecc. ) onde non ingenerare dannose confusioni e reciproci intralci, come sarebbe, ad esempio, quello di chi, per il fatto di essere religioso, pretendesse sentenziare nel campo specifico della tecnica o del commercio o della politica, senza averne preparazione di sorta.
Ma non è meno doveroso il rapportare fra di loro le umane attività, e anche gerarchizzarle in ordine al fine ultimo a cui siamo chiamati.
Perciò per quanto la religione e la morale non pretendano di sostituirsi agli altri campi d'azione, tuttavia non possono essere mai ignorate e, peggio ancora, smentite e rifiutate, altrimenti ad un fittizio successo seguirebbe una sostanziale rovina dell'uomo.
Insomma, separare non è che isolare, ed isolare ciò che per sua natura è necessariamente rapportabile, significa contrapporre, e in definitiva conculcare e mutilare.
Così, come si volesse trainare un carro aggiogandovi i buoi nelle opposte direzioni, solo perché un bue è diverso dall'altro e perciò ha da compiere un diverso cammino.
Ma l'apologo di Menemio Agrippa insegni, poiché se lo stomaco non è le braccia o il cervello, ne verrebbe una curiosa confusione se ogni membro e ogni organo volesse agire per conto proprio, senza la guida del cervello.
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Tra gli aspetti ed i valori della vita contro cui, in fondo, in questi ultimi secoli si è sfogato molto malumore, quelli religiosi sono in prima linea.
Col pretesto di distinguerli, p. e. dalla filosofia e dalla scienza, finiscono di essere considerati come separati, non solo, ma se ne tenta o il rigetto dichiarandoli infondati, o l'ingoiamento affermandoli momenti preparatori o subordinati o spuri di questa o di quella attività umana.
Al massimo, in via di compromesso, alla religione viene concesso un angolino in fondo alla coscienza, come affare strettamente privato.
Se la veda il credente, senza venir meno però al gioco che con tutt'altre regole la società impone.
Così alle verità dogmatiche non si concede che di abitare a mala pena i pulpiti delle chiese o la penombra delle sacrestie; ma guai a far capolino fuori a ispirare qualche aspetto della vita del gran mondo.
La realtà è che oggi, forse più di ieri, troppi uomini hanno smarrito il senso ed il gusto della dimensione verticale dello spirito; è rimasta solo quella orizzontale.
Troppi si sono gettati proni a stringere freneticamente la terra.
Non s'accorgono costoro che un simile abbraccio non guidato dalla luce che viene dall'alto, si è trasformato in stretta mortale, tanto per chi la opera quanto per ciò che la subisce.
È la vendetta delle cose terrestri fatte per essere casa degli uomini e tempio di Dio, fatte per significare ed indirizzare a Dio da cui hanno tutta la loro suggestiva bellezza e tutta la consistenza del loro valore, fatte per aspirare a Dio e così essere in tutta la loro possibile perfezione.
Purtroppo l'uomo, la storia, il progresso, la tecnica, i beni economici o politici malamente compresi, sono diventati, a seconda dei casi, tanti idoli.
Ma, ripeto, i molti e gravi mali che affliggono i nostri giorni di cupa crisi, dimostrano quale terribile vendetta non sia quella delle creature idolatrate, e perciò orribilmente caricaturate.
Circa un secolo fa, proprio mentre ci si affannava a separare e a contrapporre le cose della terra a quelle del cielo, mentre ci si affaticava in nome del « positivo », dell'« esperienza », della « scienza » a negare la trascendenza di Dio e la spiritualità dell'anima, rigettando la religione come superstizione o tentandone una spiegazione « dai tetti in giù », papa Pio IX « anacronisticamente » proclamava il dogma dell'Immacolata Concezione.
Verità, questa, tutta celeste, invitante alla più pura interiorità.
Oggi, al Papa dell'ottocento liberale, massonico e positivista fa eco Pio XII, il papa del novecento esistenzialista, pragmatista e comunista, papa che a celebrare il centenario della suddetta dogmatica definizione ha indetto, per tutta la cristianità, l'anno giubilare mariano.
Che dire? Non hanno forse gli uomini dimostrato quali e quante siano le esigenze della vita di ogni giorno, per continuare ad insistere su argomenti che a nulla servono, non consentendo la benché minima risposta ai grossi problemi che incombono sulla società?
Che vale conoscere simili dottrine, se poi rimane immutata la difficile situazione dei popoli?
Cosa non è stato detto esplicitamente od implicitamente seguendo questa linea di ragionamenti!
Ma la realtà è ben diversa e non incappa nelle tele di ragno che certi uomini, discostandosi da essa, le vanno tendendo con i loro ragionamenti.
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Diremo, dunque, che il credere che la Vergine fu senza ombra di peccato fin dal primo istante del Suo concepimento, è affermazione che non « serve » a nulla?
Ebbene, proprio così: una simile verità innanzitutto non serve, ma regna, ma deve regnare nella nostra mente e nel nostro cuore e così derivatamente servire.
Contemplare amando la verità ( e che fulgida verità è mai questa dell'Immacolata ) è attività che innanzitutto vale di per sé.
Solo contemplando e amando veniamo predisposti a migliorare tutte le altre manifestazioni della vita, conducendole meglio al loro fine, che di nuovo, è compito d'amore e di contemplazione.
Gemiamo per la « disumanizzazione » della tecnica, del lavoro, di tutto il nostro vivere d'oggi, ma non comprendiamo né l'essenza, né le cause di un simile male.
Intanto ci è duro vivere, la vita ci pesa.
Ma la reale nostra condanna è nell'avere deificato l'« utile » il « ciò che serve ».
La tecnica, la produzione e il traffico dei beni economici, la salute fisica, il benessere materiale sono diventati idoli dinnanzi ai quali prostriamo il pensiero, la libertà, la coscienza, la nostra dignità di persona.
Abbiamo invertite le attività da svolgere, cosi come abbiamo invertiti i beni da attingere.
Tra le attività preferiamo le transeunti, quelle cioè che partono da noi per terminare a qualcosa che è fuori di noi.
Realizzare è diventato sinonimo di solo produrre, cumulare e negoziare beni materiali e strumentali.
Concreti e fortunati sono per noi quegli uomini che eccellono in queste cose, non importa con quale mezzo e a quale prezzo.
Perciò ci siamo esteriorizzati, « coseizzati », vuotati di umanità e ci siamo anche gravata la coscienza.
Non abbiamo tenuto in alcun conto le nostre e le altrui vere e principali necessità, poiché tutto consideriamo solo in quanto può servire a meglio produrre e commerciare.
Tutte le altre attività che non sono l'immediata realizzazione di beni strumentali le abbiamo derise e stroncate, concedendo loro solo ciò che occorre affinché servano alla tecnica, al commercio, al nostro comodo.
Ma è mostruoso considerare noi stessi, e il prossimo solo in quanto ci può tornare materialmente utile.
Analogo sovvertimento è avvenuto circa i beni da attingere.
Abbiamo confuso l'utile, cioè quello che principalmente serve ed è strumento, col bene, cioè con quello che principalmente vale di per sé.
Così è avvenuto perché non sappiamo più riconoscere, né acconsentire con rispetto alla realtà, ma solo ci interessa di tutto utilizzare, asservire.
Mentre l'utile va, in quanto tale, utilizzato per raggiungere il bene.
Più il bene verso cui aspiriamo vale di per sé ( e non perché principalmente serve a noi ), cioè comprende ogni valore, più noi dobbiamo sforzarci di attingerlo nella conoscenza e nell'amore, poiché esso solo lo merita e soltanto così può pienamente appagarci.
Non illudiamoci: non siamo noi la misura di tutte le cose, non tocca a noi decretare ad esse il valore, per il solo fatto che stabiliamo ciò che ci serve o meno.
Non siamo noi a fare la verità delle cose, mentre tocca a noi il ricercarla, riconoscerla ed accettarla e solo così servircene o contemplarla.
Che ridicolo gioco di ragazzi adulti è mai quello di attribuire alla realtà valori e pregi a capriccio e poi pretendere che essa ci serva o ci appaghi.
A noi dunque tocca un compito di ricerca, di riconoscimento della realtà, per poi servirci di ciò che è inferiore per aderire, dipendendo, a ciò che ci è superiore, e massimamente a Dio.
Qui sta l'appagamento del nostro essere e la nostra pace, poiché l'ubbidire e il conformarsi sono schiavitù solo quando si rivolgono a ciò che deve servire e non a chi deve regnare.
Per questo servire Dio, colla mente e col cuore, è per noi regnare con Lui.
Più, dunque, ciò che si contempla e si ama vale di per sé, e quindi non « serve » a raggiungere altro superiore di valore, più lo spirito umano si espande, si placa, si rasserena in un'attività che si avvicina all'immutabilità divina.
Insomma, ciò che più vale, più regna e meno serve, più conquista l'animo nostro che da un tale valore dipendendo riceve pienezza di vita e profonda pace.
Gli uomini tanto raggiungono la loro destinazione, quanto acconsentono all'attrazione verticale che i valori ultimi e veramente universali, e massimamente Dio, esercitano nell'intimo del loro spirito.
Solo così lo strisciare che è del serpente cede al camminare eretto dell'uomo, e il fango della terra si trasforma in opere di civiltà, solo così la terra diventa l'anticamera del cielo e la vita umana ritrova il suo senso vero di cammino verso l'Infinito.
L'Immacolata, visione di candore e di grazia, di verità e di bellezza, vale di per sé: innanzitutto regna e non semplicemente serve a realizzare, p. e. sulla terra una nuova ripartizione di beni materiali.
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Il nostro spirito è chiamato dall'Immacolata a fermarvisi estatico, a cogliervi la misura di ciò che a Dio, Verità e Bellezza e somma Santità, piace o dispiace.
Tutto quanto si può attribuire a una creatura sia sul piano naturale, che su quello soprannaturale.
Ella lo possiede.
L'Immacolata è il riflesso di Dio più grandioso e significativo che si possa trovare nella creazione.
Riflesso di un Dio che non è geloso delle sue creature e non le divora per meglio risplendere nell'abissale fulgore del Suo essere, ma che anzi le divinizza partecipandosi ad esse ed ospitandole nel suo abbraccio infinito.
Conoscendo l'Immacolata conosciamo Dio, e conoscendo Dio riconosciamo l'Immacolata.
Dio ha rivelato che la Vergine sua Madre è Immacolata: gli uomini accettando il dato rivelato e amorevolmente considerandolo, conformano la loro mente a Dio.
La teologia, o scienza intorno a Dio e scienza di Dio partecipata, confluisce e collima con la mariologia. o scienza intorno a Maria e scienza di Maria.
Senza la Trinità non si da l'Incarnazione redentrice, e senza la Redenzione non si spiega, né ha senso quel capolavoro, di misericordia che è la preservazione di Maria dalla colpa di origine.
Bontà feconda, magnificenza infinita, santa misericordia di Dio: ecco di che cosa è consustanziata l'Immacolata.
E Dio è Colui che regge il mondo e lo governa, quel mondo in cui viviamo e dispieghiamo le nostre attività.
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Conoscendo l'Immacolata conosciamo meglio noi stessi, così come conoscendo meglio noi stessi, meglio riconosciamo l'Immacolata come il nostro ideale, come la nostra madre.
Tanto più poiché la prerogativa dell'immacolato concepimento è quella che meglio riguarda la personalità di Maria, direttamente considerata.
Certamente l'immacolatezza è prerogativa esclusiva di Maria, ma è immacolatezza di creatura umana singolarmente unita alla natura divina.
Occorrono quindi prerogative creaturali che ciò rendono possibile.
Gli uomini volenti o nolenti cercano il senso del loro essere; bene o male, implicitamente od esplicitamente tutti danno a tale interrogativo una risposta.
Nelle soluzioni escogitate vi è sempre qualcosa di vero, ma anche, spesso, vi è molto di falso.
Ne conseguono perciò visioni di vita mutile e deformi, che più sono erronee, più infittiscono le tenebre in noi e attorno a noi, rendendoci disperata l'esistenza.
Esagerazioni, questa? Passiamo nel campo di coloro che, non cristiani, si disinteressano dell'Immacolata.
Vi è chi afferma essere l'uomo un mondo a sé, una specie di Dio, capace addirittura di autocrearsi e non avente altra legge se non quella che egli stesso si dà.
Iddio è ritenuto, al massimo, un puro ideale direttivo che ciascun uomo si pone per, tenendovi, conseguire la propria perfezione.
Ma la dipendenza, la miseria, il limite, l'oscurità che in noi sono così palesi, spingono altri a preferire, polemizzando, opposte strade.
Così alcuni sostengono che l'uomo non sia che un groviglio privato e senza nome di istinti, fra cui quello sessuale è direttivo e dominante.
Altri, troppi, riducono l'uomo ad un intreccio anonimo di convergenza e di partenza di sole forze economiche, poiché tutte le altre manifestazioni umane sono ridotte a queste.
In quanto l'uomo produce beni economici, come cellula della collettività, egli vale.
Mai però vale come uomo, cioè di per se, bensì come operaio o contadino, ecc., cioè l'uomo vale per l'aggettivo che ne specifica la funzione impostagli dalla collettività.
Tutto collettivizzare e tutto produrre collettivizzando, compresa la verità, che viene così a cambiare come col cambiarsi delle macchine e dei cervelli si cambiano i prodotti.
Purtroppo non cambia una simile dottrina, come non ne cambiano le terribili conseguenze.
Un terzo gruppo definisce l'uomo partendo dalle sue insufficienze e con esse identificandolo.
Siccome l'uomo ha limite, la sua esistenza ha aspetti precari, e si snoda attraverso problemi, attraverso scelte angosciose: dunque l'uomo è o angoscia, o problema, o nulla.
Esiste ma non è, cioè è senza essenza, senza volto costitutivo, non ha altra meta che la morte.
Insomma, l'uomo è ridotto a presenza di nulla, senza scopo; presenza smarrita di chi non è e che contradditoriamente cerca di essere.
Dunque, dalle stelle … alla stalla, o al giogo o alla morte del nulla.
Peggio di così, è difficile immaginare …
Purtroppo quanti oggi non seguono, consapevolmente o meno, l'una o l'altra di queste larve di verità?
Ma innanzi a noi è l'Immacolata, misteriosa e pure ragionevolmente luminosa: viene dal cielo la sua notizia, ma ne è rischiarata la terra: l'uomo che non sa più da solo trovare se medesimo, vi scopre la propria essenza.
Immacolata.
Fin dal primo istante è senza ombra di peccato, senza il segno della colpa di origine.
Ma il peccato è negatività tutta spirituale, così com'è positivamente spirituale il candore di cui Maria ci parla …
Chi nega all'uomo lo spirito, deve negargli la libertà e con essa la responsabilità e il merito, e perciò gli nega la grandezza.
Chi non ha spirito se è vero che non può peccare, nemmeno può liberamente meritare: compie per istinto e necessità ineluttabile quello che fa.
Chi è senza spirito è muto di parole, perché muto di pensieri, i quali altro non sono che interpretazioni circa il significato del mondo e la natura del primo Principio, dell'Essere primo.
Mentre per il corpo l'uomo è cosa fra cose e agisce e reagisce agli altri corpi, secondo le leggi biologiche e fisiche dell'universo, per lo spirito egli può dominare il mondo, usandolo come strumento, secondo l'universalità delle sue idee.
In quanto spirito l'uomo trasforma il mondo assimilandoselo, facendolo come un prolungamento di sé, e lo fa casa, chiesa, macchina, monumento, scuola, opera d'arte, ecc.
Fisicamente l'uomo è più debole e meno protetto di molti animali, ma ha mani, che perché dotate di grandissime possibilità di movimenti, sono lo strumento più adatto a realizzare gli infiniti disegni concepiti dalla mente.
Per il corpo l'uomo rimane confinato entro le immutabili angustie dell'istintivo mangiare, dormire, sensibilmente sentire e materialmente procreare; per lo spirito invece può spingersi al di là, al di sopra della materia, può penetrare le leggi che la regolano, può scoprire, inventare e indefinitamente progredire.
Solo l'uomo può domandarsi perché esiste il mondo, poiché per lo spirito è al di là dal mondo, di fronte ad esso che gli appare come non avente in sé la propria giustificazione.
Solo l'uomo indaga la morte e al di là da essa, poiché per Io spirito è al di là del tempo e proteso verso l'eternità.
Senza lo spirito, insomma, rimane senza spiegazione ciò che propriamente è umano, non si spiega né religione, né scienza, né arte, né culto dei morti, né rispetto dei vivi, né giustizia, né leggi.
Eppure niente di più dimentico dello spirito, di questa che è la più presente e concreta realtà di questo mondo.
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Dunque, l'uomo è principalmente anima spirituale, e in quanto tale può riconoscere e liberamente volere se stesso e l'universo intero, e al di là da esso può acconsentire a Dio.
Tuttavia è spirito limitato, posto nell'alternativa di bene o male operare.
Può fare il male ( cioè, disordinatamente volere ) ma non lo deve, pena il rinnegamento della dignità di essere libero, poiché solo nell'aderire ordinatamente a ciò che è, realizzando ciò che deve essere, l'uomo consolida la sua libertà.
Volere colui che è e tutte le creature in lui e per lui è la legge che ci fa liberi.
Solo il peccato è il nostro disonore radicale, la profanazione di noi medesimi, di tutte le creature e di Dio.
Poiché è volere disordinatamente la creatura al posto del Creatore, ciò che è derivatamente e in modo partecipato, al posto di Colui che è necessariamente e in modo assoluto.
Il peccato è dissidio che sconcerta le fondamenta del creato e che vorrebbe la morte di Dio.
Per questo il peccato è la nostra vergogna, la causa prima di tutti i nostri mali e Dio lo odia.
Di qui la convenienza che Maria, destinata ad essere madre di Dio, fosse concepita senza peccato.
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Contemplando l'Immacolata risaliamo alle origini nostre, origini che illuminano tutta la nostra grandezza e tutta la nostra miseria.
Non eravamo né un ululato, né ruggito, né alcun altro verso feroce.
La contraddittorietà delle voci che si dibattono in noi, non è il segno di un processo evolutivo in cui l'uomo cerca di dominare la bestia da cui è nato, ma è piuttosto il segno di una perduta unitarietà e armonicità di vita.
L'uomo non è puro spirito: Maria, onore della nostra stirpe umana, fu concepita.
Non è sconveniente l'avere un corpo.
La sconvenienza è nel disordine delle tendenze corporali e spirituali non più governate dalla ragione.
Tale conflitto noi lo sentiamo non come fase di sviluppo, ma come decadimento, e ne proviamo vergogna.
La doppia legge, quella della giustizia e quella della concupiscenza, testimoniano in noi un passato equilibrio da riconquistare faticosamente e dolorosamente, e non indica affatto l'insorgere di nuove energie più nobili tendenti a dominare quelle meno nobili.
Quella a cui siamo chiamati è una vittoria che è una riconquista, e non semplicemente una conquista.
La nostra faticosa ascesa è una ricostruzione ed una rielevazione; la nostra ascesa è, insomma, redenzione.
Redenzione che da soli non possiamo operare nemmeno in ciò che riguarda la nostra pura natura di uomini, e per questo siamo stretti dall'angoscia.
L'Immacolata è il segno più efficace, il capolavoro di questa redenzione, redenzione che fu e che si continua sino alla fine dei secoli, per grazia di Dio e per i meriti di N. S. Gesù Cristo.
Nell'Immacolata rifulgono modo e ampiezza secondo cui tale redenzione fu operata, poiché ella fu preventivamente rigenerata ed ebbe, fin dal primo istante di vita, pienezza di natura e di grazia umana integra.
Senza colpa d'origine, senza ignoranza, né concupiscenza, umanamente perfetta, piena di grazia: Maria è, dopo Gesù, l'ideale di suprema bellezza a cui tutti aneliamo
E non sembri indebito questo nostro anelito alla divinizzazione, questa nostra ansia a partecipare di Dio, a vivere della stessa vita di lui.
La grazia donata ai nostri progenitori e perduta per il loro peccato, non ci è assente senza lasciar traccia in noi, benché per le tenebre che ci circondano, non riusciamo a ritrovare il senso autentico di questa mancanza.
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Continuiamo ad accuratamente distinguere, secondo la loro tipica fisionomia, attività da svolgere e beni da utilizzare o da attingere, ma badiamo a non introdurre fra loro indebite separazioni, frantumando così la nostra vita o accendendo in noi nefasti conflitti.
Soprattutto poniamo a guida del nostro terreno cammino la Rivelazione, che è sapienza di Dio: ne saremo illuminati, guariti e pacificati.
Questo, con infinitamente altro, l'Immacolata ci insegni e interceda per noi, maternamente, specialmente lungo questo anno giubilare a Lei consacrato.
Un Catechista