Maestro di vita Cristiana

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Il rendere testimonianza al Servo di Dio Fratel Teodoreto è cosa semplice e facile.

Basta guardare alla sua vita lineare, senza tentennamenti ne smarrimenti.

Sempre fissa in Dio.

Basta stare ai fatti ed essere precisi nel ricordo.

E più ancora che ai fatti, si dovrebbe dire al fatto.

Poiché la vita del Fondatore dell'Unione Catechisti è tutta un solo tatto da proporsi ad esempio di vita totalmente cristiana, incominciando da quella regolarità ineccepibile nella condotta della vita quotidiana ordinaria: tanto ineccepibile da apparire talvolta quasi indisponente ( per uno che da quei vertici sia lontano come me ), non avvertendosi mai l'esercizio disciplinato costante, come se ogni grado o controllo - specialmente nell'inezia o sfumatura - fosse facilmente raggiungibile ed alla portata di chiunque, naturalmente.

Per quel suo prodigioso equilibrio di ogni passo e - vorrei dire - in ogni attimo, l'unica immagine che mi soccorre, è quella del funambulo, che tuttavia non flette né a destra né a sinistra, ma procede sicuramente, come se, non su una fune, ma camminasse verticale su una larga base. Quella base è l'assidua presenza di Dio, è la fissità ferma dell'occhio di Lui, il battito del cuore all'unisono con Lui, invocazione continua dell'anima a Lui.

Solo così, non si incespica né si tentenna.

Negli uomini e nelle cose, nel minuto e nel metro, nel prospero e nell'avverso, vedere, sentire, amare, volere solo Gesù.

Vivendo solo di, in e per Gesù, Fratel Teodoreto traeva lume dalla preghiera, dalla meditazione, dalle circostanze, dalle ispirazioni, dai colloqui soprannaturali, dai consigli.

In altre parole, sapeva aspettare per muoversi.

Quando si trattò del Regolamento per gli Associati, mi chiese se mi sembrasse troppo arduo da praticarsi e si rallegrò nel sentire che l'avrei voluto più esigente, tale da proporre anche agli Associati la disciplina dei Congregati, compatibilmente, s'intende, con i doveri diversi di stato.

Quando udì che ero vivamente propenso all'emissione di voti anche per i padri di famiglia nel rispetto beninteso dei propri vincoli, mi esortò a studiare e sopra tutto a continuare a vivere quel modo ( chiedendo consiglio ai luminari del diritto canonico ), non senza invitarmi a riflettere se non fossero sufficienti gli insegnamenti della Chiesa dalle pagine di Tobia all'Enciclica « De connubio » di Leone XIII.

Quando gli domandai perché avesse atteso tanto tempo ( dal 15 settembre 1906 al 23 aprile 1913 ) per risolversi a mettere in atto l'idea di fondare l'Unione, ebbi per risposta che voleva essere certo di corrispondere ai voleri di Dio, creando un'opera di perseveranza che non fosse una fiammata presto spenta.

Aggiunse di essere stato indotto a temporeggiare alla vista di un'opera fondata da un Fratello insigne per molti meriti, gagliardamente sviluppatasi e miseramente spenta dopo non lunga ardenza.

Ma, quando si fosse convinto essere venuta l'ora di agire ( continuo a riferirmi a fatti di cui ho ricordo personale ), allora non frapponeva più indugi di sorta, ma traduceva il proposito in atto con decisione ferma e rapida: « alla bersagliera » ( secondo una mia espressione che lo faceva ridere di cuore ):

senza concedersi attenuanti d'età o limiti di sofferenza e di lavoro.

Qualità di cui diede prova in quel Ritiro mensile del 29 agosto 1951 ( aveva dunque già ottant'anni e non godeva più buona salute ), quando tra la sorpresa e la commozione generale disse di essere disposto col permesso dei Superiori ad accompagnare a Barranquilla, in Colombia, quei Catechisti che avessero l'animo di trapiantare in quella lontana città l'Unione.

Ancora. Negli ultimi anni di vita, nei quali - nonostante gli impedimenti dell'infermità - poneva mano al rifacimento del suo volume su Fra Leopoldo ofm., per aggiornarlo di notizie, sì, ma principalmente per dare pubblica, precisa, inoppugnabile documentazione degli esiti dell'inchiesta mirante a mettere in chiaro la condotta di Luigi Musso al Collegio dal Pozzo di Vercelli, Frate! Teodoreto non esitò ad affrontare pazientemente quella fatica, pago soltanto di fare risplendere, prima di morire, a luce meridiana, agli occhi di tutti, il grado eroico della virtù del calunniato.

E non si lasciò mai sfuggire il destro di ricorrere con semplicità ad altri, per farsi correggere ( ad esempio, gli errori di ortografia in lettere scritte in altra lingua ) o per incaricare addirittura di rispondere per lui, col dire con naturalezza umile, fresca, sorridente: « Veda di dare risposta Lei che è più al corrente ».

Accenno, codesto, che mi conduce a comunicare brevemente, sulla sua umiltà, questi particolari.

Provo ancora pena per avergli dato un vivo dispiacere.

Ero stato invitato a parlare dell'Unione ai Fratelli, nella sala di comunità del Collegio San Giuseppe, mi pare, nel maggio del 1948.

A me sembrava che proprio i Fratelli, ai quali mi rivolgevo, non dessero segno di capire bene che cosa significhi l'Unione, e perciò non se ne occupassero molto, pur avendo sott'occhio, continuamente, l'esempio ed il sacrificio silenzioso di Fratel Teòdoreto.

Di modo che nella perorazione mi scappò detto, malaccortamente.

« Fatelo anche per lui ! ». Cioè: interessatevi all'Unione anche per corrispondere ai voti di Fratel Teòdoreto.

Il quale era seduto in prima fila, un po' discosto dagli altri, proprio sotto i miei occhi. Udire quella frase e rimanere come schiacciato allo schienale della sedia, il viso di profilo, volto al muro, come se volesse sparire, fu tutt'uno.

Uscendo, mi disse con dolcezza: « Preferisco che non mi nomini ».

Ebbi un'impressione simile il 9 febbraio 1951, alla Casa di Carità Arti e Mestieri, alla riunione settimanale, che assunse allora carattere di particolare solennità per l'ottantesimo compleanno del venerato Fondatore dell'Unione: con larga rappresentanza pure di Fratelli, di religiosi, di ex alunni dei primi tempi.

Va da sé che non mancarono i discorsi.

Ogni gruppo aveva il proprio portavoce.

Sulle prime, Fratel Teodoreto si adattò con pazienza, per quanto sulle spine, alla regola di circostanza.

Poi, andando la cosa a parer suo per le lunghe, ad ogni sedersi ed alzarsi dei suoi aguzzini elogianti dava segni evidenti di volersi a sua volta alzare per porre fine col ringraziamento conclusivo.

E per l'appunto stavo per dire due parole io, quando fu più lesto lui ad inserirsi nella catena ed a troncare così tutte quelle lodi.

Ma, in. quest'ordine di idee, gli esempi che mi riempiranno sempre di meraviglia, sono questi due.

Il primo è offerto dall'articolo scritto dal Servo di Dio per il numero unico del Bollettino dei Catechisti ( luglio-dicembre 1951 ), in occasione del tricentenario lasalliano.

Il testo prendeva lo spunto da Santa Maria Maddalena Postel e dall'Istituto di religiose da lei fondato.

Di quel testo prezioso conservo il foglio delle prime bozze, nel quale si legge dopo l'asterisco centrale questo brano:

« Anche l'Istituto Secolare dei Catechisti del SS. Crocifisso e di Maria SS. Immacolata si sviluppa con difficoltà.

Ritengo che uno dei fattori per ottenerne lo sviluppo è costituito dagli scritti del fondatore.

Ma io non ho la capacità di lasciare ai Catechisti degli scritti che anche lontanamente abbiano un pò del valore di quelli lasciati da San Giovanni Battista de La Salle, che fu un genio.

Perciò esorto caldamente tutti, Catechisti Congregati ed Associati, a considerare San Giovanni Battista de La Salle come loro Fondatore, continuando ad invocarlo fervidamente, ed a fare un diligente studio dei suoi scritti che anche lontanamente abbiano un pò del valore di quelli lasciati da San Giovanni Battista de La Salle, che fu un genio.

Ed avendo io fatto osservare all'autore che il Fondatore dell'Unione era lui e non il gran Santo di Reims, mi sentii rispondere: « Mi rimetto alle correzioni che farà in proposito il Presidente ».

Il secondo fatto riguarda pure l'attribuzione del titolo di fondatore.

Poco prima che si addivenisse all'emissione del decreto di erezione dell'Unione in Istituto Secolare, interrogato in Curia in argomento, Fratel Teodoreto parlò con tale calore di Fra Leopoldo e delle comunicazioni determinanti da lui trasmesse da ingenerare l'impressione che il fondatore dell'Unione fosse Fra Leopoldo stesso, al quale perciò era stato attribuito quel titolo nella prima Compilazione del decreto, corretto poi in seguito alle esplicite, pronte precisazioni del Presidente.

Ed avendo io chiesto più tardi al Servo di Dio perché mai avesse parlato così di Fra Leopoldo, fui tacitato con questa tranquilla spiegazione: « Non volevo che gli fosse tolto nulla ».

Cosicché, per non togliere, aveva aggiunto.

Non posso rivedere tre posti del Collegio San Giuseppe, senza che mi torni con pronta vivezza in mente la sorridente, raccolta figura del mio inter locutore: l'angolo sinistro opposto a chi entra nel parlatorio ; il lato minore, verso la finestra, della lunga tavola che occupa il mezzo della sala attigua alla biblioteca; la cameretta dell'infermeria.

Là, a seconda dell'ora o delle condizioni di salute, avevo di quando in quando lunghi colloqui, riversando tutto il mio nel gran cuore di lui; così lunghi che talvolta si tirava avanti senza avvederci che era calata l'ombra e si era fatto a mano a mano buio.

Del che sorpresi, il Fratel bibliotecario o la suora infermiera chiedevano dal quadro della porta: « Debbo accendere? ».

« No, no … Al dottore fa male la luce ».

Infatti, non mi accadde mai di notare che egli non si preoccupasse della mia invalidità visiva, avendo sempre per prima cura di farmi sedere spalle alla luce, con quella delicatezza che sapeva cogliere ogni occasione per intervenire tempestivamente consolatrice.

Come quella volta che partì per un impiego a Lussemburgo la mia figliola ventenne.

Lui, ne era al corrente e sapeva quale vuoto avrebbe lasciato nei genitori quella partenza.

Come lui, lo sapevano parenti ed amici.

Ma fu soltanto lui che se ne ricordò all'ora giusta.

Mia moglie ed io eravamo appena tornati dalla stazione che il telefono squillò.

Si udì una voce lontana e dolente, che di tanto in tanto s'impuntava troncando a mezzo le parole o facendo più lunghe le pause.

Non dimenticherò mai l'inflessione di quella voce accorata.

« Sono Fratel Teodoreto. Voglio soltanto dire che sono vicino, partecipo e prego con Loro, durante il viaggio e dopo.

Stiamo tranquilli. La Loro è una buona figliola. La Madonna l'accompagna ».

Il cuore ha da esser cuore, e la ragione ha da essere ragione. Entrambi al posto loro.

Di codest'ordine e misura di cuore possono dare attestato tre biglietti di lui che ho sott'occhio.

Col primo accusa ricevuta di un mio invio di opuscoli.

Col secondo mi trasmette notizie ordinarie.

Col terzo prende parte ad una mia inquietudine.

Ebbene, il carattere diverso di contenuto si può già desumere dall'indirizzo vocativo che precede il testo e che viene espresso dal qualificativo « carissimo » seguito, nel primo caso, da titolo, nome e cognome; nel secondo, da titolo e nome; nel terzo, soltanto dal nome.

Quel cuore, amatissimo e sensibilissimo, fu costantemente tenuto sotto controllo fino all'estremo minuto.

Degli ultimi giorni ebbi già occasione di scrivere nel nostro Bollettino « ire morte ».

Ma dagli appunti affrettati che annotai allora durante la mia presenza nella cameretta d'infermeria ( il 12 maggio vi rimasi ad intervalli tredici ore ), sono spinto a trarre questi altri particolari.

Il 5 maggio, dopo la riunione delle zelatrici, nel primo mercoledì del mese, mi recai con Giovanni Cesone al Collegio San Giuseppe, poco prima delle 18.

Ci ricevette Fratel Cecilio con questa notizia: « Fratel Teodoreto non è stato bene. Per prudenza è a letto ».

Salii, accompagnato da Fratel Cecilio.

Il Servo di Dio era coricato, con le braccia fuori della rimboccatura, coperte dalle maniche lunghe di una spessa maglia di lana grigio scuro.

La fronte e le guance mi parvero d'un rosso acceso come di congestione.

Gli occhi mi fissavano intensamente: mi parvero freddi, inespressivi.

Non era il suo sguardo solito. Avrei detto che non mi avesse riconosciuto.

Mi sembrava strano, forse sconvolto. Aveva intuito che il disturbo poteva farsi grave e che la mancata prensilità delle dita ( due o tre ore prima non aveva retto un oggetto non pesante ) poteva segnare il principio della fine? Non so.

Ma, se fu così, quell'umanità comune di sensi naturali che trasparisce nel momento in cui ci si dice: « adesso ci siamo! »; quella prima sensazione che ci preavverte essere prossima l'ora, a cui si dirige, sale e s'appunta tutta la vita; quel naturale e, sia pure, istantaneo turbamento della natura seconda di fronte alla sua distruzione imminente, al suo cessare di esistere; e, d'altra parte, il senso che a quella vista si impadronisce dell'astante che anche il santo è un uomo come qualunque altro: tutte cedeste considerazioni messe insieme fanno esclamare ancora più alta l'ammirazione commossa nel constatare quanto prontamente quell'umanità, quella sensazione, quel turbamento siano stati dominati e stretti come in una morsa dalla natura prima, unicamente volta a Dio ed al natale della sola vera vita non fallace.

Così fu che dopo il mezzogiorno dell'8 maggio, col rinnovarsi molto più grave del male, non notai la minima ombra di quel che mi parve momentaneo turbamento iniziale.

Bensì la normale eccezionalità di quel ferreo controllo di sé.

Fratel Teodoreto teneva costantemente gli occhi chiusi.

Era presente a se stesso? Capiva, sentiva? Ci fu chi disse di no.

Poteva pensarlo chi entrava per uscire quasi subito.

Certo, nei giorni 9 ed anche 10, non furono rari i momenti di coma.

Ma chi assisteva con assiduità l'infermo era piuttosto condotto a pensare che nel complesso fossero più frequenti i periodi di lucidità.

Quel tener sempre chiusi gli occhi era un prepararsi al distacco ed un concentrarsi totalmente in Dio.

Se no, come potrebbe spiegarsi quel prendere in mano, accarezzandone ripetutamente la copertina, il numero di marzo di « Rivista Lasalliana » che mi aveva dato allora il caro Fratel Emiliano?

Un moto convulso, incosciente, meccanico?

Ed allora, anche quelle carezze sulla mia mano, anche quella cura diligente di non scoprirsi, quando con Fratel Cecilio ed Umberto Ughetto gli arrotolammo il lenzuolo, sotto, per mutarlo?

Anche quel moto ritmico della mano al petto ( sul crocifisso nascosto ) e del braccio disteso lungo il tronco, regolarmente alla parola « Jesus » ed all'Amen, durante il Rosario recitato dal nostro Domenico Conti? Moti convulsi? No.

Non erano tali.

Erano il suo cuore e la sua grande pietà che si effondevano ancora visibilmente intorno.

Ne ebbi chiara conferma, quando gli accompagnai verso il mezzogiorno dell'alltre giovani Fratelli di Rangoon, dicendo loro piano: « Un giorno vi riterrete assai fortunati per avere visto, qui, in quest'ora, Fratel Teodoreto! ».

Poi, dovendo rimanere con loro a colazione, rivolto al Servo di Dio e strettagli la mano, soggiunsi a voce alta, in preda a viva commozione: « Per carità,signor Direttore! Non ci lasci!. .Stia ancora a lungo con noi.

Come farò senza di Lei? ».

Sorrise. Aprì gli occhi, celesti, velati d'una lacrima.

Mi fissò affettuosamente. Solo un angelo può guardare così.

Quello sguardo m'inonda ancora come lavacro di fonte battesimale.

Gaetano G. di Sales