Come morì Fratel Teodoreto |
B163-A2
( Continuazione )
2.
13 maggio 1954 - Sono appena stati messi gli inginocchiatoi, di qua e di là, lungo la bara, dove giace in penombra, in una cornice di fiori, fra quattro ceri ardenti, alti, agli angoli e piante ornamentali, la composta salma di Fratel Teodoreto, gravemente solenne.
Il volto cereo spicca con le facciole sul contrasto nero dell'abito.
Le mani stringono la corona del Rosario. Sono solo.
Quante volte i Catechisti ed i Fratelli sono stati messi in allarme, in questi ultimi anni, per la salute del loro Fondatore e Confratello, e quante volte hanno tratto poi un gran respiro di sollievo per il suo rimettersi in piedi.
Magari più lento nel passo. Magari impuntando sulle sillabe, come se le parole incespicassero uscendo.
Ci si era già abituati, un po', a questi alti e bassi.
Pareva che quell'altalena di bene e di male in salute dovesse continuare all'infinito.
Ma, questa volta, no. Quel gran cuore, nel rigoroso ritmo di misura, era proprio stato attaccato senza speranza l'8 maggio, nel giorno della Madonna di Pompei, e fermato il 13, in quello anniversario della prima apparizione di Fatima e nell'ottava del Patrocinio di San Giuseppe, per essere sepolto il 15, nella ricorrenza di San Giovanni Battista de La Salle.
Coincidenze singolari, quasi ad attestare significativamente che gli sono stati vicini il Santo Fondatore della sua Comunità, il suo San Giuseppe sempre invocato e la Beatissima Vergine, Porta del Cielo.
In hora mortis. Morto, sì, ora, per immobilità di morte naturale.
Ma, pur vivendo, già morto da tempo al mondo in quella ferrea disciplina, volitivamente, inflessibilmente sempre osservata nel fare « il sacrificio di tenersi come corpo morto » nello slancio tenace volto al « compimento della sua santificazione », secondo le parole trasmessegli da Fra Leopoldo il 3 giugno 1921.
Fino all'ultimo istante, in un'ordinarietà di vita straordinaria, o in una straordinarietà di vita ordinaria, in un crescendo di volontà fermissima che ha toccato il vertice proprio nei giorni estremi, con quell'atteggiamento di controllo guardingo, vigile, come di chi tema fino all'ultimo un agguato e si rannicchi per non offrire alcun bersaglio al nemico.
Non è immaginazione la mia. Pur vedendo pochissimo, mi chinavo quanto più potessi, quand'ero solo con l'infermo, per rendermi conto di ogni minima contrazione e per coglierne il valore.
Qualcuno aveva detto che non era in conoscenza.
Altro che se lo era! specialmente negli ultimi due giorni.
Quel rapido movimento della mano sinistra per assicurarsi che la camicia fosse sempre ben distesa giù, quando per questa o per quella occorrendo doveva venire scoperto; quei ripetuti gesti come di carezza sulla copertina di "Rivista Lasalliana" lasciatami dal caro Fratel Emiliano sulla sponda del letto dell'infermo; quell'accarezzare e stringere la mano di chi gli si appressasse ( ricordo, fra gli altri, il buon Manetta che si era inginocchiato accanto, visibilmente commosso a quella stretta ); quel farsi più calmo del respiro, quando si pregava intorno a lui, come per non incidere col fiato grosso sulle voci oranti e per partecipare mentalmente anche lui, come quando, spigolo a caso tra i miei appunti.
Cesone invitò a pregare ad alta voce per lui Fra Leopoldo; queste ed altre osservazioni confermano senza possibilità di abbaglio quella conoscenza e quel controllo prevalenti sul male.
Ed a tal punto ne ero convinto che mi studiavo di non cadere mai in distrazione, ma di cogliere ogni minimo indizio di bisogno per fare sentire che c'era sempre qualcuno accanto, affinché, anche quando non si potesse ottenergli sollievo, gli si offrisse almeno conforto.
E chi gliene ha dato più di Fratel Arcangelo, con quell'assistenza veramente da angelo?
14. venerdì - Ore 21.
Non avevo più visto Solerò dall'ultima notte dal 12 al 13.
Mi è venuto incontro, serio. L'ho pregato di seguirmi fuori della camera ardente, volendo chiedergli quali fossero stati gli ultimi istanti.
Mi ha detto: « Ad un certo punto, dopo le tre, non si è più sentito il rantolo.
D'un tratto, il silenzio è stato rotto come da due forti sorsate d'aria, una di seguito all'altra, come se il morente ne mancasse; mozze a metà, e subito seguite da un movimento del busto in su, come se l'agonizzante tentasse di sollevarsi un po'.
Un silenzio. La bocca, gli occhi si chiudono a poco poco.
Uno, due respiri, come soffi, impercettibili. Ed il corpo si rilascia immobile fino alla risurrezione ».
Esco. Piove. Non prendo il tram. Ho bisogno di andare a piedi.
Mi pare di essere come svuotato di me stesso. Un gran desiderio di esser buono.
Una gran voglia di piangere.
15. sabato - Ore 16.
Sono terminate le visite di tributo alla salma: Catechisti, Fratelli e Francescani; clero e religiosi, d'ogni grado, Ordine e Congregazione; allievi ed ex allievi della Casa di Carità Arti e Mestieri, del Collegio San Giuseppe e di tutti gli istituti lasalliani di Torino e fuori; famiglie di amici, conoscenti e semplici fedeli.
Sono terminate le esequie, celebrate nella cappella del San Giuseppe: presentì l'Assistente Generale, Visitatori, Superiori, autorità ed una folla straripante negli ampi corridoi e negli atri, facente ala riverente al passaggio della bara, portata a spalle da tre Fratelli e da tre Catechisti, stipando poi torpedoni e vetture, gremendo le vie adiacenti al Collegio, nonostante la pioggia.
È stato porto l'ultimo saluto, ad esprimere il lutto di Torino, dall'assessore Enrico, al camposanto, alla tomba dei Fratelli, dove la salma resterà fino a quando piaccia a Dio e si possa avverare il voto dei Catechisti di conservarla nella Casa di Carità Arti e Mestieri.
Una dimostrazione davvero imponente, indimenticabile. Siamo tutti intontiti.
Ma nessuna ha uguagliato quella pomeridiana, intimamente raccolta, proprio da figli, in famiglia, alla Casa di Carità Arti e Mestieri, presente anche il caro Fratel Saturnino: principalmente quando Tessitore, aprendo la consueta riunione settimanale dei Catechisti, ha incominciato a leggere la pagina del Vangelo di San Giovanni, dov'è detto: « Devo andare, perché venga il Paraclito ».
La voce del Presidente ha avuto un tremito e si è spenta di botto in un sommesso singhiozzo.
C'è stata una pausa abbastanza lunga, nella volontà di dominare la commozione. Un gran silenzio.
Volti severi, gravi, immobili, tutti rigati di lacrime, suppongo, come il mio; tutti fissi verso il Presidente, in una espressione di dolore rassegnato, muto, eloquente più d'ogni gesto e più d'ogni parola, accomunante in uno tutti, ancora smarriti, ma già fortemente tesi a fare più che mai vivere in sé quell'esempio, quel grido ansioso di salvezza d'anime: « fra tanto male, basta una vita così? »,1 quella volontà di sacrificio nell'imparità della lotta contro le apparenze terrene, quell'unione di cuori che commosse profondamente in quei giorni, alla vista di quel dolore, un assai caro Fratello di Francia: « C'est un vrai cénacle »!
Ma nel ricordo ancora oggi la penna s'impunta sul foglio, la mente si offusca di lacrime ed il cuore preferisce alla parola, il silenzio.
Gaetano G. di Sales
1 Lettera di Fratel Teodoreto al Rev. P. Arturo Piombino, barnabita, direttore spirituale ( 20 dicembre 1948 ).