L'ordine dell'amore nello spirito della obbedienza |
B167-A3
( Relazione tenuta al corso di formazione per sposi )
L'obbedienza da uomo a uomo è un'obbedienza puramente accidentale, cioè non mi tocca nella mia sostanza umana, non è necessario per me, uomo, obbedire a un altro uomo perché siamo alla pari, mentre invece l'obbedienza verso Dio è sostanziale, mi investe proprio nella mia natura umana: per il fatto che sono uomo, sono fatto per obbedire.
L'obbedienza da creatura a creatura, oltre che essere accidentale è provvisoria, ma in realtà nella vita futura l'unica gerarchia sarà la gerarchia della carità.
Invece la mia obbedienza verso Dio è una obbedienza eterna, sostanziale della vita futura: adorerò e la mia gioia sarà riconoscere che sono di Dio fino alla più intima filtra del mio essere come qui in terra non mi rendo assolutamente conto di essere.
Quindi mentre qui obbedisco per fede, là adorerò nella evidenza profonda di quello che vedrò, cioè che Dio mi possiede.
Se io nella mia situazione umana e sociale obbedisco a un uomo, pongo sempre delle condizioni ben chiare, che l'obbedienza sia ragionevole, prudente, opportuna, ecc.
La mia obbedienza a Dio invece è incondizionata; se pongo delle condizioni alla mia obbedienza a Dio, pecco, se non pongo delle condizioni alla mia obbedienza a uomo, pecco.
Nel primo caso sono un disobbediente, nel secondo caso sono un imprudente: non posso consegnarmi con le mani legate ad una creatura come me, per alta e capace che sia.
Devo consegnarmi con le mani legate al mio Creatore che è l'Unico che non offenderà la mia dignità di persona umana.
C'è quindi una profonda differenza fra le due obbedienze: l'una per il cristiano si anima dell'altra, noi obbediamo alle creature in nome di Dio; ma di fatto tanto quanto le creature, la società tendono a potenziare la nostra libertà terrena, altrettanto la nostra religione conserva in tutta la sua forza la nostra dipendenza creaturale nei riguardi di Dio.
Non bisogna quindi cadere nell'equivoco che quanto più l'uomo è libero tanto più è emancipato anche nei riguardi di Dio.
Sono concetti soltanto analoghi, ma in realtà essenzialmente diversi.
È bene essere emancipati e liberi nel quadro di una società armonica, ma è necessario essere come servi e schiavi di Dio nel quadro di una religione ben vissuta.1
Il cristiano è ( dice l'Epistola ai Romani ) « conforme a Cristo ».
L'espressione del testo non è debole come quella della nostra lingua.
Dire conforme per noi, evoca soprattutto un aspetto esterno della cosa, quando invece la Bibbia dice che il cristiano è « summofos » di Cristo, vuoi dire proprio la forma interna, ciò per cui Cristo è Cristo; noi condividiamo la forma interna di Cristo, l'intimo, gli assomigliamo di dentro, non di fuori.
Noi che siamo o dobbiamo essere conformi a Cristo, dobbiamo ben sapere che Cristo ha realizzato la forma dell'Obbedienza totale.
Capite che mi interessa sapere questo.
Se il mio destino è essere interamente conforme a Cristo devo pur sapere che sono conforme a uno che ha realizzato la forma più totale di servitù a Dio, diversamente mi troverei nell'imbarazzo di essere conforme al perfetto Obbediente e non sentirmi affatto desideroso di obbedire, che è di fatto la contraddizione molto diffusa in molti cristiani i quali vivono da cristiani, ma quasi ignorando questa loro prepotente conformità all'Obbediente per eccellenza, cioè Cristo.
Nel famoso passo della lettera ai Filippesi Paolo invita i cristiani ad avere gli stessi sentimenti di Cristo, sentimenti in senso ebraico, proprio l'intima volontà dell'anima; non soltanto degli affetti o delle emozioni.
Cristo pur essendo in natura di Dio non ha tenuto come una rapina, avidamente, questo suo esser Dio, ma ha fatto una cosa straordinaria: si è annientato prendendo la forma di schiavo.
Dire servo è dire poco per capire l'esattezza della posizione di Cristo, occorre dire schiavo.
Abbiamo dunque un Dio che restando nella eternità entra nel tempo ed entrato nel tempo come uomo, si fa schiavo di Dio.
Questa schiavitù è una cosa, una parola di cui si fregia, ma del tutto inefficace?
No; Egli è talmente schiavo che la sua esistenza si è identificata a obbedienza: la stessa cosa.
Esistere per uno schiavo è obbedire.
Notate la profondità del concetto.
Allo schiavo, ai tempi di Paolo, l'idea di libertà era del tutto estranea al suo concetto di vita.
Lo schiavo nasceva e moriva schiavo.
L'uomo libero, era tutto un altro tipo di uomo, come per noi i marziani.
Lo schiavo aveva la forma mentis di colui che vive per obbedire, anzi, vive se obbedisce, perché se non obbedisce il padrone può anche togliergli la vita.
Questa identificazione disumana e impressionante sul piano antropologico, diventa sublime sul piano cristologico.
Cristo è uno schiavo, non vivrebbe se non obbedisse, non perché se Lui non obbedisse, ipotesi assurda, Dio lo distruggerebbe, ma perché l'amore che lo anima lo obbliga a vivere per obbedire.
Dunque la sua obbedienza, così identificata con la vita, come noi non ce la immaginiamo neppure, fa in modo che è posto dinanzi a un decreto di Dio, bisogna morire per salvarsi; posto dinanzi a questo decreto Cristo risponde con una perfetta obbedienza.
Schiavo rispetto a Dio, obbediente fino alla morte; il che è presto detto, ma obbedire fino alla morte di fatto non significa morire perché si è condannati a morire per forza, non significa accettare di morire perché tanto bisogna morire, significa obbedire fino alla morte, non è l'accettazione della morte ma: io obbedisco e se devo andare a morire ci vado.
Obbediente fino alla morte e non a una qualunque morte, ad una pacifica morte socratica, mai alla morte di croce.
Dunque mi trovo di fronte a Colui che è il grande Schiavo, proprio con la « S » maiuscola, della storia; Schiavo di Dio, ma il grande Schiavo.
Una natura umana così schiava non la troverò mai più; schiavo fino al punto di morire sulla croce.
La stessa parola liturgia è usata da S. Paolo una volta nella lettera ai Romani per esprimere il funzionario che è al servizio della comunità e nella lettera agii Ebrei la stessa parola diventa Cristo che è al servizio della comunità dei fratelli perché obbedisce a Dio e muore.
Noi siamo conformi o destinati ad essere conformi a questo Gesù, non ad un altro; ecco perché l'obbedienza diventa l'anima della vita.
L'obbedienza però va ampliata nel concetto proprio del servizio, perché lo schiavo, proprio nel senso ebraico della parola non è solo uno che obbedisce, ma proprio uno che serve, non dice solo sì, ma identifica la propria azione con la volontà del padrone ed agisce.
Dunque noi siamo obbedienti e servitori di Dio per destinazione, per vocazione, fin nel più intimo di noi: anima e corpo per tutto il tempo e in tutte le situazioni.
Questa conformità a Cristo la realizziamo vivendo attraverso un uso della libertà che si sforza però sempre attraverso le circostanze e la luce di Dio, di sapere quale è la volontà di Dio, quindi una libertà assetata di obbedienza.
Guardate che non è poco dire questo, perché noi uscendo in genere da un insieme di costrizioni che fin dalla infanzia ci hanno condizionato, soffocato, aspiriamo all'indipendenza assoluta.
La nostra libertà normalmente vuole l'autonomia totale, e invece è saggezza cristiana rendersi conto che la nostra volontà in Cristo non è assetata di autonomia, ma è assetata di obbedienza.
I Santi avevano sete di obbedienza, cioè non che obbedissero perché avevano fatto un voto, avevano fatto un voto perché avevano voglia di obbedire, volevano identificarsi a Cristo.
Capire questo, che, a dire la verità, è un mistero, non è facile, bisogna richiamarsi a quello che è il dramma della nostra disobbedienza.
Quando ad un certo punto, direbbe Chardin, nel farsi del mondo, sboccia nel creato la persona umana, accade un fatto nuovo, una nuova possibilità; per la prima volta esiste un essere, la persona, che ha questa caratteristica: è un centro di attività intelligentemente autonomo, un piccolo universo che sa fare da sé.
Prima della comparsa della persona nel cosmo, nessuna creatura poteva dir questo, le creature erano mosse, non si muovevano; l'evoluzione era fatta da qualcun altro, d'ora in avanti sarà una evoluzione che si fa da sé.
Dio affida alla persona umana la propria storia.
Capite che qui c'è un grosso rischio però.
Se invece di una sola persona al mondo ne esistono due e tutte e due hanno questa intima tendenza ad essere piccoli mondi che si guidano da sé con il proprio giudizio intellettuale, che cosa faranno insieme?
Saranno destinate a due orbite che non si incontreranno mai?
Ma poiché non sono persone puramente spirituali, ma incarnate e quindi, per un altro lato, socialmente dipendenti l'una dall'altra, quando le loro libertà ed i loro giudizi si incontreranno che cosa accadrà?
I casi sono tre:
o una perfetta armonia e queste due persone lavoreranno in una opera coordinata, due libertà che si accompagnano senza violarsi e senza disprezzarsi a vicenda;
o uno scontro, quando, rispetto a un medesimo oggetto, i giudizi saranno diversi e le decisioni ostili,
oppure una subordinazione, una delle due persone diventerà dominante e l'altra diventerà dominata.
Sul piano sociale è questo il gran dramma dell'equilibrio umano.
Le risoluzioni più o meno democratiche delle dottrine politiche, in fondo si riducono a questo.
È l'enorme problema di far coesistere tanti centri autonomi di intelligenza e di azione.
Ciascuno dei quali ha il diritto di essere autonomo e tuttavia ha il dovere di non essere Dio.
Su un piano umano possiamo ancora dire che l'obbedienza, cioè la subordinazione di una persona all'altra, può avere più di un aspetto.
Questa persona può subordinarsi a quella ossia dire: « Decidi tu, io farò, ti regalo la mia volontà e quindi la mia azione ».
La subordinazione può essere molto diversa, irrazionale: « Mi consegno a te, senza avere però i motivi razionali per farlo ».
Tutte le subordinazioni che nascono dagli entusiasmi, dagli, impulsi, dagli innamoramenti interiori, insomma, tutto questo crea delle obbedienze, talora fortissime.
Ci sono delle persone che sono legate ad altre in una maniera che pare frangibile solo dalla morte, eppure sono subordinazioni sbagliate.
Può essere invece razionale la mia subordinazione ad un'altra persona, quando io non tengo solo conto dell'altra persona, delle sue doti, della fiducia che mi ispira, ecc., ma anche del fine a cui questa persona vuole condurmi.
In altre parole, se una persona è capacissima, intelligentissima e volitiva, ma mi rendo razionalmente conto che mi conduce a un fine sbagliato, io non mi subordino perché sono razionalmente avvertito che quell'obbedienza sarebbe sbagliata, sarebbe colpa.
Il dramma è piccolo quando si tratta di persone umane, ma diventa un dramma esistenziale quando si tratta della persona umana e di Dio, perché anche di fronte a Dio io sono un piccolo cosmo intelligente e capace di determinarmi da me.
Che cosa farò dunque? Il vero problema è qui.
Se tra persona e persona ci capiamo, c'è un'affinità umana, tra persona e Dio dobbiamo capirci a tutti i costi, perché Dio è il mio fine, esisto per Dio, insomma se non riesco con la mia azione personale a inserirmi in Dio, nella sua vita, io sono perduto.
Peraltro dice un Concilio, c'è più differenza tra Dio e una creatura di quanto non ci sia tra loro di somiglianza.
Quindi io sono nel rischio dì non riuscire a colmare questo abisso neppure con la mia intelligenza ragionante.
Cosa fare quando Dio viene con le sue giuste pretese di creatore a chiedermi di fare come Dio?
I primi capitoli del libro della Genesi attraverso quella forma di parabola storica dicono in sostanza questo.
Dio dà all'uomo la sua responsabilità personale: « vivi, esisti, cresci, domina la terra; però ti avverto, non credere per questo di essere un Dio, non cedere al pericolo dell'autosufficienza ».
Mangiare cioè il frutto del bene e del male, la conoscenza universale.
« Se tu cedi a questa tentazione di autosufficienza ti renderai conto di una cosa, che non sei autosufficiente ».
Come si fa a capire che una cosa non è nostra, ma ci è data?
Lo capiamo quando chi ce l'ha data ce la toglie.
Finché me la lascia posso illudermi e dire: « è roba mia »; la salute, l'intelligenza, la ricchezza, la identifico talmente con me che mi confonde e credo che sia mia di diritto e di fatto, ma se Iddio tocca la mia salute mi rendo subito conto che non è mia, non faccio come voglio, cado nella povertà, conosco la morte perché ho voluto essere Dio.
C'è dunque un profondo dramma; il dramma della storia tra la persona umana, che di fatto ha sbagliato, e Dio.
La persona umana ha cercato l'autosufficienza, ossia non può più da sé entrare con la propria volontà nel flusso della volontà eterna di Dio; non vivono più insieme, non c'è più la Grazia, l'amicizia; l'uomo è un disobbediente, nasce nella disobbedienza, vive nella disobbedienza, non basta neppure la legge.
La legge, dice S. Paolo, non giustifica, la legge ti fa capire che sei un disobbediente, ma ti fa sospirare Cristo, perché la legge ti stampa il tuo peccato, ma non ti salva dal peccato.
A questo punto ecco arriva il grande Schiavo; il Servo di Yahweh di cui vi dicevo prima.
Si capisce che questo atteggiamento di estrema, di terribile obbedienza, non è soltanto un'obbedienza che rispetti i valori dell'essere: « tu sei Dio, io sono un uomo, dunque ti obbedisco », perché in Cristo non c'è persona umana, c'è persona divina che per mezzo di una natura umana è come schiava, ma che non potrebbe esserlo da Dio a Dio; il Verbo di Dio è uguale al Padre, non può subordinarsi al Padre, in quanto Dio, ma in una natura umana si fa schiavo per riscattare nella sua obbedienza la disobbedienza dei molti, cioè di tutti.
Se per la disobbedienza di uno è entrata la morte nel mondo, ci insegna S. Paolo, per l'obbedienza di Cristo è rientrata la vita.
Il cristiano, riallacciamo il concetto iniziale, è colui che deve scegliere tra essere conforme a Adamo il ribelle, il primo uomo, o conforme a Cristo obbediente, il vero uomo, il nuovo Adamo, il modello perfetto dell'uomo.
La scelta è continua, non scegliamo a sette anni per andare avanti beati fino a settanta.
La scelta è quotidiana, abbiamo sempre la possibilità di passare dal nuovo Adamo al vecchio Adamo e peccare; o dal vecchio Adamo al nuovo Adamo e convertirci.
Noi siamo radicati nel nuovo Adamo, siamo nel Battesimo di Cristo, siamo nella sua confermazione con lo spirito, siamo cristiani di fatto, vero noi possiamo dimenticarlo e diventare dei disobbedienti, molte volte siamo oscillanti e la nostra santità è appunto la nostra conformità all'essere schiavi.
Questo termine di schiavitù offende piuttosto il nostro orecchio moderno, ci pare così anacronistico, ma è perché noi abbiamo in mente la schiavitù da uomo a uomo, che è la cosa più rivoltante, appunto perché un uomo si fa Dio di un altro: lo possiede, lo compra, lo vende, lo mutila, lo uccide, fa quel che vuole, insomma questo è l'assurdo di tutti gli assurdi.
Ma la schiavitù dell'uomo a Dio non è che la nostra totale dipendenza.
È chiaro dunque che l'autonomia di fronte a Dio è inconcepibile.
Che gravita assume l'atto peccaminoso in questa luce, perché è contro la natura di Cristo in me, ed è inconcepibile l'autonomia.
La vita è totale servizio, è continua oblazione che proprio perché è totale, è spiritualissima, raccoglie tutte le forze inferiori del proprio io, ciò di cui la persona è capace nella sua determinazione e le porge a Dio in un gesto che la supera e la dona a Dio.
Obbedire dunque è elevarsi perché, e questo è importantissimo, se io obbedisco a Dio, non solo Dio mi possiede, ma io possiedo Lui, per questo l'obbedienza mi innalza, perché io mi faccio di Dio, ma Dio si fa mio.
« A chi osserva i miei comandamenti noi verremo, dice Cristo, e faremo dimora in lui ».
Dunque l'obbediente carpisce Dio con la sua obbedienza e se ne impossessa.
L'obbedienza santifica, è estremamente positiva.
Non è paragonabile con nessun tipo di obbedienza umana, perché è l'obbedienza vera, perché si realizza.
Un obbedienza spiritualissima di questo genere fa sì che il cristiano abbia dentro la forma dell'obbediente; il cristiano è servo di Dio e per amore di Dio servo dei fratelli.
Pur conservando la sua dignità umana, pur vivendo la sua responsabilità, pur immedesimandosi nei suoi doveri anche quando sono doveri di autorità, di comando, di direzione, il cristiano nell'intimo è servo di coloro cui comanda, è servo di tutti i suoi fratelli.
Ignora, insomma « il padrone sono io ».
Il cristiano sa di essere un incaricato a servire i fratelli.
« Non sono venuto a farmi servire, ma a servire » dice Cristo.
E con l'atteggiamento concretamente da schiavo, Cristo, poco prima di morire, si cinge, si inginocchia, e lava i piedi dei suoi discepoli, compresi quelli di Giuda, che dopo un po' andranno nella notte al tradimento.
Lo Schiavo in ginocchio che lava i piedi ai padroni.
Guardate che è concreto questo, perché noi i piedi ad un altro non li laveremmo, o lo faremmo come un bel gesto liturgico.
Una volta all'anno laveremmo i piedi di qualcuno che ha i piedi puliti, ma lo schiavo non fa così; ma guardate che lo schiavo non è il padrone che si inginocchia per forza e lava i piedi.
Lo schiavo è uno che serve, vede Dio e serve tutti.
Lo ha fatto Gesù e noi siamo destinati a questa conformità.
Voi capite che luce sia questo atteggiamento per la convivenza sociale e in particolare per la convivenza coniugale.
Ancora una volta vi dico, non è soltanto una obbedienza, ma è un servizio, che è cosa ben più alta.
L'obbedienza ha le sue gerarchie e le sue armonie, il servizio è puramente reciproco.
Un marito e una moglie si possono obbedire in modo diverso, ma si servono comunque.
Il marito per la moglie è ciò che Cristo è per la Chiesa, dà la vita per la moglie, per la famiglia; e la moglie è la sua fecondità, ossia si spende, lavora, si consuma: non è un servizio questo? È un servizio tale e quale.
È veramente, nell'amore, come dice S. Paolo, schiavo, di una schiavitù consacrata.
S. Paolo dice: « servitevi, fate gli schiavi l'un dell'altro nella carità ».
Ecco, questa è una schiavitù, direi quasi sacramentale, è il mistero dell'agape fraterna.
Allora tu servì, anche se in apparenza comandi, anche se gli altri dipendono da te, ma tu vivi un servizio e altrettanto servi perché ti doni, ti consumi, perché sei docile; ma il servizio è molto più intimo dell'atteggiamento esterno.
L'obbedienza è una forma di servizio.
Noi siamo dei servitori, ma « servire Deo regnare est »; dunque la nostra dignità è esattamente quella di essere dei servi pur essendo estremamente liberi, e non è una contraddizione, ma è la sublimazione della libertà come solo Dio sa darci, che ci fa schiavi e ci esalta nell'essere liberi.
Questa è cosa veramente interessante che non è mai finita nella sua profondità e che ci rende ( è l'unico modo ) gioiosi di obbedire, cioè non gente che si sente defraudata di una libertà perduta, non gente che si sente mutilata rispetto all'uomo del mondo che è libero e autonomo.
No, non è autonomo, è servo di molte passioni e di se stesso; tu invece sei schiavo di Dio e perfettamente libero.
È una libertà da conquistarsi, ma la vocazione è quella.
Il servizio in certo senso assume molte forme: prima assume la forma di zelo, un desiderio ardente del bene altrui che diventa poi, un ministero.
Gesù Cristo fa un ministero quando lava i piedi agli apostoli, un ministero che diventa una diaconia, un servizio in senso psicologico, di diligenza, di slancio nel servizio, non dunque un ministero fiacco e svogliato, ma un ministero « diaconus », colui che serve a tavola, letteralmente, colui che corre per servire, che ha voglia di servire e cerca l'occasione per farlo.
Ecco la sete di obbedienza che diventa a un certo punto una benevolenza attiva; io ti servo nel senso che ti rendo felice.
Dice S. Paolo ai Romani: « Voi non dovete più pensare a ciò che piacerebbe a voi, poiché Cristo non ha pensato a ciò che piaceva a Lui ».
La vostra ansia deve essere non di « essere felici », ma di « rendere felici » e rendendo felici sarete felici perché chi dà la pace, riceve misteriosamente la medesima pace.
Allora ecco che dinamismo interiore: il servizio è l'opposto dell'indifferenza.
Questa carità diventa una energia divina insuperabile nell'ambito del focolare domestico e nell'ambito dei rapporti sociali: è il segreto della Chiesa.
Voi sentirete adesso le applicazioni pratiche alla vostra situazione, ma l'animazione interiore è questa, è una profonda animazione che si riallaccia direttamente al Verbo incarnato ed è al di là di ogni limite che noi possiamo immaginare; tra l'altro è estremamente invitante.
Questa obbedienza cristiana, mentre da un lato realizza la perfetta libertà e dignità, dall'altro è soprannaturale, ossia anche se passa attraverso delle creature termina sempre in Dio, è soprannaturale perché si fa per Dio e con la forza che proviene da Dio.
Non ruba la dignità per questo motivo; l'obbedienza costa, ci obbliga a rompere i nostri limiti, l'obbedienza ci priva del termine della nostra azione.
Ci priva anche dell'inizio della nostra decisione, in senso relativo, cioè: « non sei tu che decidi di andare, io ti dico, vai, adesso ».
Pero, in senso assoluto, cioè proprio nello sgorgare della mia libertà, l'obbedienza mi vuole libero, vuole che io aderisca in modo libero a tutto questo.
Perché se io dico « va bene, allora ci vado », non sono libero, sono trascinato; invece, non avendo deciso il termine della mia azione, né il tempo, né il modo di farla, se sono obbediente, cioè se amo, voglio ciò che vuole colui che mi dice « fa così ».
Al di là di queste privazioni, lo amo al punto che decido con gioia per Lui anche se costa: « obbediente sino alla morte di croce ».
È una edificazione molto piena: più si obbedisce, più si ama, e più si ama, più si obbedisce.
E soprattutto è una edificazione soprannaturale.
D. Giuseppe Pollano
1 Oggetto dell'intelligenza è la verità, che ad essa si impone. L'intelligenza realizza se stessa subordinandosi alla verità. Analogamente, oggetto della volontà è il bene e la volontà diventa libera aderendo al bene. Ma il bene assoluto è Dio, la verità eterna è Dio e perciò è nella subordinazione assoluta a Dio che l'anima realizza se stessa e trova la pienezza della libertà e della felicità.