Paternità spirituale … |
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Scrivendo ai Corinti San Paolo mette in evidenza a un certo punto una contrapposizione molto utile per comprendere il significato della paternità in spirito.
Egli dice: « Quando anche voi aveste migliaia di maestri in Cristo non avreste tuttavia altrettanti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo mediante il Vangelo! » ( 1 Cor 4,15 ).
Una cosa è il maestro, l'antico schiavo - pedagogo; una cosa, e ben diversa! è il padre.
Esaminiamo dunque alcuni testi dell'Apostolo per precisare il senso, la funzione e la natura di questa paternità evangelica.
Qui S. Paolo fa una dichiarazione di autenticità apostolica come se rispondesse alla domanda: « Qual'è un vero segno di missione divina? »
E la sua risposta si può riassumere in questa unica espressione: « L'attitudine paterna ».
Rivolgendosi ai Tessalonicesi con linguaggio particolarmente vivo e affettuoso, egli ricorda loro che ha voluto diventare, in mezzo ad essi, pieno della affabilità che una madre ha per i suoi bimbi lattanti; affabilità che sconfina in tenerezza e struggimento.
Non solo, egli dichiara, ha dato loro il Vangelo, ma il dono del Vangelo sarebbe parso insincero per lui se non avesse significato dare anche la vita per amor loro: ecco una identificazione preziosa.
S. Paolo insegna che comunicare il Vangelo con atteggiamento che non sia di dono totale non è annunzio completo.
Il tema è ripreso ancora dove egli si paragona poi al padre dei figli amati; qui emerge un secondo aspetto che completa il primo: annunziare il Vangelo non significa solo esortare, ma consolare per il modo stesso con cui s'annunzia; il meglio della propria personalità deve essere impegnato in una pedagogia tenera e incoraggiante.
Solo in questo modo il Vangelo è annunziato in modo proprio ed evidente.
Il vero segno di una missione evangelica è dunque, come si diceva, l'attitudine paterna.
Ci si deve perciò chiedere: dove si radica la ragione profonda di questa caratteristica?
È quanto l'Apostolo ci chiarisce in Ef 3,14.
Qui S. Paolo dichiara, con celebre espressione, che dal supremo essere paterno di Dio scaturisce ogni altro fatto familiare nella creazione.
Sia nell'ordine della natura che nell'ordine della grazia la paternità va intesa, in stretta conformità alla più pura tradizione biblica, come rappresentativa e strumentale rispetto alla suprema e onnipresente paternità divina.
In altre parole la paternità originaria è qualità e potenza proprie a Dio solo.
È chiaro che in simile prospettiva la paternità naturale e ancor più la paternità soprannaturale acquistano una proiezione ontologica vera e propria.
Non si tratta di « pensare », « raffigurarsi », « trattare » Dio come se fosse un padre, riferendosi alla paternità terrena come a quella che rimane in ogni modo la più reale, ma all'opposto occorre fissare la Paternità di Dio come l'unica vera e necessaria e considerarla sostegno e causa d'ogni altra.
Ciò significa uscire da schemi naturalistici per interpretare la paternità in spirito.
È insufficiente dire che la paternità in spirito « sostituisce » la paternità fisica o « allarga » la paternità affettiva e psicologica dell'uomo; bisogna affermare piuttosto che non vi è paternità più autentica di quella che si avvicina alla stessa paternità di Dio e partecipa alla sua fecondità.
Questa verità, che si ritrova frequente nel Nuovo Testamento, vi è radicata molto saldamente: il Padre invia il Figlio, cioè il frutto della sua fecondità totale, nel mondo e ha lo scopo di far entrare il mondo nella vita di questo Figlio perché il nome unico di « Abbà! Padre! » possa esser pronunciato da molti ( Rm 8,15; Gal 4,6; Gv 6,57 ).
Così la Paternità eterna si estende alle creature che sono generate di nuovo nel Figlio e con lui diventano figlie.
Si capisce come in questi termini S. Paolo, inviato dal Cristo a proseguire la missione di generare figli al Padre, si dica propriamente padre a sua volta: chi partecipa all'opera del Padre celeste ottiene da Dio, per il ruolo libero che egli attua in questa partecipazione, di considerare in qualche modo anche suoi i figli che ha portati a Dio con il suo ministero apostolico.
La radice profonda di quell'attitudine paterna deve dunque essere ricercata qui: non si tratta di affettuosità naturale né di appropriazione metaforica d'un titolo a cui non è lecito aspirare, ma di un fatto fondato nell'essere di Dio e nell'insieme di atti e di operazioni che Dio stesso pone, per comunicarlo attraverso il Cristo e i suoi ministri.
Si intuisce facilmente, in questi termini, la grandezza della paternità che entusiasmava l'Apostolo; se ne rileva anche la piena e giusta priorità su ogni altro tipo di paternità possibile, poiché tutto comincia da Dio, non dall'uomo; si è in grado così di chiedersi: « e come questa paternità di attua concretamente nei rapporti storici »?
Ascoltiamo ancora S. Paolo in 1 Cor 4,15.
Egli afferma di avere generati i cristiani di Corinto mediante il Vangelo.
In termini paolini il Vangelo è senza dubbio, in primo luogo, l'annunzio della Parola da cui sgorga in seguito tutta la realtà sacramentale.
Nel passo citato, si noti, il termine « generare » è tratto dal parlare comune ed ha un significato concreto, fisico: siamo dunque lontani da ogni debole simbolo.
S. Paolo afferma di avere generato i Corinti con il Vangelo.
Come si può spiegare questa realistica affermazione?
Occorre ricordare che il Vangelo non è, ne per S. Paolo e per altri, un semplice annuncio.
Il Vangelo è un appello attuale che Dio Padre fa nell'atto stesso che il Vangelo è proclamato.
Si tratta allora di un rapporto immediato con Dio Padre: chiunque ascolti il Vangelo ascolta in realtà uno che lo sta chiamando con voce inconfondibile cioè con voce divinamente paterna.
Chi accetta e risponde alla parola trova il Padre, inizia il suo novello esser figlio.
E poiché il Vangelo è annunciato dagli inviati, ogni inviato è in realtà il portatore di quell'appello, e chi risponde all'inviato risponde a Dio Padre.
Perciò l'Apostolo comunica con la sua voce la voce del Padre e riceve nel suo cuore la risposta, come delegato di quell'unico cuore Paterno; dunque chi mediante il Vangelo, annunziato e proclamato, chiama è Dio Padre nell'apostolo, e il credente giunge a Dio Padre affidandosi all'apostolo, che gli diviene padre poiché gli porta la parola, la chiamata e l'amore del Padre celeste con tutta la sua persona.
Per questa stringente eppure semplice logica soprannaturale S. Paolo sà di essere padre mediante il Vangelo e insegna, per consolazione di tutti gli apostoli, che chiunque vorrà annunziare il Vangelo diverrà ugualmente padre di coloro a cui lo avrà annunziato ricevendone la risposta filiale.
Esiste dunque una paternità immediatamente legata alla Parola che si annunzia, e chiunque vede come si allarghi a questo punto la possibilità paterna che Dio concede ai cristiani, senza che essa perda per questo verità e forza.
Rimane allora un aspetto della paternità apostolica che è impossibile tralasciare.
S. Paolo, con una parola concretissima e commoventissima, ce lo richiama in Gal 4,19.
Il paragone è ancora materno; ma qui l'Apostolo si rifà addirittura alle doglie del parto e afferma di continuare a soffrire per i Galati le pene di questa incessante fecondità affinché il Cristo « si formi » in loro.
Anche questo termine « formarsi » richiama, nel vocabolario paolino, il segreto formarsi della creatura nel seno materno.
È dunque sofferenza che prende tutta la persona e la consuma nella generazione del corpo del Cristo.
Come si deve intendere allora questa generazione mistica attraverso il dolore?
Si deve intendere in due modi: uno, ovvio, in quanto l'evangelizzazione comporta rischi, fatiche, persecuzioni che vengono a far parte dell'opera apostolica; l'altro, assai più legato alla economia della redenzione partecipativa, in quanto l'apostolo, come ogni apostolo, deve restare crocifisso con Cristo, compiendo ciò che manca alla sua passione per la Chiesa, incessantemente portandone le intime stigmate.
Qui la paternità diviene merito.
S. Paolo afferma ciò quando scrive ai Corinti: « Noi siamo sottoposti alla morte, così in noi agisce la morte e in voi la vita » ( 2 Cor 4,12 ).
Il quadro della paternità spirituale si completa così e diviene ricco di serio fascino interiore.
Si tratta di comunicare a nuovi credenti, o ravvivare in vecchi credenti, la novità strabiliante che Dio vuole essere chiamato e considerato Padre.
Il Vangelo va dato con attitudine paterna, dunque, perché subito giunga come consolazione; la Parola poi chiamerà con voce divina attraverso la bocca e il cuore di ogni apostolo che in tal modo riceverà in sé la rivelazione dei figli di Dio e la primizia del loro fiducioso amore al Padre.
Ciò deve compiersi nella crocifissione senza di cui non vi è ne salvezza né fecondità: ogni apostolo ha così tracciata la sua via profetica e regale.
Non si può tralasciare, per concludere, un rilievo toccante: la paternità di cui si parla è quella che Gesù inaugurò tra noi, come tutti sanno, insegnandoci a dire: « Padre nostro … ».
Ma non tutti sanno che quel termine: « Abbà, cioè Padre », è stato introdotto da Lui con novità quasi scandalizzante in quanto nessuno, ai suoi tempi né mai, avrebbe osato rivolgere a Dio un termine che il parlare comune raccoglieva allora solo dalle labbra dei bimbi verso il loro babbo terreno.
Non è tutto ciò significativo più che ogni lungo e sapiente discorso?
La paternità significa insegnare che Dio, il sublime e unico Dio, attende di essere chiamato in quella maniera.
Cioè acquistano il regno i piccoli, coloro che sanno rivolgersi a Lui con quel nome: nessuna luce è tanto attraente come questa, per la quale tuttavia, mistero della iniquità!
Il Salvatore fu posto in croce.
D. Pollano