Convegno ecclesiale di Verona |
Riflessione spirituale di don Michele Morando su 1 Pt 2,1-10
19 ottobre 2006
Il testo che è stato proclamato è un inno alla dignità e grandezza del popolo di Dio, « stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato », e al contempo un'apertura sulla missione che qualifica questo popolo, quella di «proclamare le meraviglie » di Dio.
In questi giorni del Convegno ecclesiale italiano, nel clima della preghiera, dell'ascolto comunitario della Parola, delle relazioni fraterne, abbiamo potuto fare esperienza di questa nostra dignità, frutto della singolare misericordia divina che ci ha generati ed edificati come popolo di Dio.
Al contempo, il confronto, lo scambio di esperienze, il processo di discernimento comunitario ci hanno sollecitati e abilitati a divenire annunciatori-testimoni di quelle « meraviglie di Dio », culminate nel mistero pasquale di Cristo, che sono motivo di fondata speranza per il mondo d'oggi.
In questo singolare momento di presa di coscienza e di esperienza ecclesiale vorrei che allargassimo lo sguardo a considerare l'universalità di questo « popolo di Dio » del quale siamo chiamati a far parte.
Proprio perché la Chiesa è « popolo » qualificato, non da condizioni etniche o culturali, ma soltanto dall'elezione e dalla redenzione divina, essa supera ogni barriera razziale e culturale e si riconosce da Dio convocata ed edificata da ogni popolo, stirpe e nazione.
Dentro la particolare esperienza ecclesiale che stiamo vivendo, non possiamo perciò dimenticare le comunità cristiane che vivono in altre nazioni e culture, e non possiamo ignorare i credenti, appartenenti ad altri popoli, che vivono oggi nel nostro Paese.
La mia passata esperienza di fidei donum e l'attuale incarico di seguire le comunità cristiane di altre nazioni presenti nella Chiesa di Verona mi sollecitano a rileggere il cammino di edificazione del « popolo di Dio », proposto dalla Prima lettera di Pietro, nell'ottica di uno scambio tra comunità cristiane di diverse nazioni e culture.
Per costruirci come « popolo di Dio » il testo della Prima lettera di Pietro ci invita, innanzi tutto, a vivere del permanente dinamismo di conversione che deve caratterizzare l'esistenza cristiana generata dal battesimo: « Deporre ogni malizia e ogni frode, le ipocrisie, le gelosie e ogni maldicenza » ( v. 1 ) per « un amore fraterno senza finzioni, proveniente dal cuore e intenso » ( 1 Pt 1,22 ).
La singolare dinamica di morte/vita, caratteristica della vita cristiana, è declinata qui attraverso il passaggio da atteggiamenti di egoismo, di pregiudizio ed esclusione a relazioni fraterne, sincere, cordiali e cariche di autentica passione per l'altro.
A fondamento di questa chiamata a un cambiamento radicale della qualità delle nostre relazioni sta la fede nell'amore che Dio ci ha riservato in Cristo e la speranza in un'umanità riconciliata e solidale che Dio ci ha aperto nella croce/risurrezione del suo Figlio.
Noi, infatti, abbiamo gustato « come è buono il Signore » ( v. 3 ) e siamo passati dalla condizione di non-misericordia all'esperienza della misericordia divina.
Questo comporta necessariamente una continua conversione nelle relazioni, da attuare nelle nostre comunità cristiane, per renderle luoghi e segni di una nuova umanità fraterna.
Tale conversione deve estendersi, particolarmente oggi in un'epoca e in una cultura globale, ai rapporti tra le Chiese e agli atteggiamenti verso i fratelli che da altre nazioni vengono a cercare tra noi nuove possibilità di vita.
Le nostre Chiese di antica origine, pur nelle fatiche di questo momento storico, sono chiamate a superare il loro particolarismo per aprirsi a uno scambio di doni e a una generosità solidale verso le nuove Chiese di altri continenti e verso le povertà e le situazioni di indigenza che spesso contrassegnano il loro contesto socioeconomico.
Nella situazione, poi, di forti migrazioni, che caratterizza il nostro tempo e segna anche il nostro Paese, la conversione richiesta alle nostre comunità è quella di trasformare la paura del diverso in disponibilità ad arricchirsi della diversità, di mutare il pregiudizio in incontro, il sospetto in dialogo, la noncuranza in solidarietà accogliente.
Il battesimo di tanti immigrati adulti o di figli di immigrati, che abbiamo celebrato nelle nostre assemblee, e l'impegno che queste si sono assunte, con i genitori e padrini, a educarli nella fede, sono il segno di un popolo di Dio multietnico e multiculturale chiamato a crescere nel dialogo e nel dono reciproco, superando innate resistenze, paure di perdita di identità culturale, se non anche l'insorgente tentazione di ridurre il cristianesimo a « religione civile » e di farne lo strumento di difesa contro la diversità degli stranieri.
Non è più possibile, oggi, vivere e testimoniare il dinamismo dell'amore, che costituisce la legge del popolo escatologico di Dio, senza allargare i confini a questo orizzonte universale.
Non ci sarà dato, però, di maturare questa permanente conversione se non attingeremo all'alimento « spirituale » che ci viene dalla Parola di Dio: « Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale per crescere con esso verso la salvezza » ( v. 2 ).
E la Parola che deve accompagnare il cammino del popolo di Dio verso la meta promessa e sperata della salvezza.
In questa Parola - come afferma il Vaticano II - « è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell'anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale » ( Dei verbum 21 ).
Questa bramosia della Parola, negli anni postconciliari, sembra aver trovato rinascita nelle nostre comunità cristiane al punto da farci evocare la parola del profeta: « Ecco verranno giorni [ … ] in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma d'ascoltare la Parola del Signore » ( Am 8,11 ).
È altrettanto vero, però, che questa fame della Parola non caratterizza la totalità del nostro popolo che si dice cristiano, e che permangono talora difficoltà ed estraneità all'accostamento di questa Parola.
Dentro questa situazione di Chiesa ci può essere di stimolo l'esperienza di altre Chiese dei paesi di missione.
Per molte comunità povere di questi paesi la Parola è diventata davvero la più grande ricchezza e per questi poveri - poveri materialmente, ma nient'affatto tali a livello spirituale e pastorale - la Parola del Vangelo costituisce ancora la buona novella che dona possibilità di vita, speranza di libertà, esperienza di salvezza.
A contatto con queste realtà, anche noi missionari, che abbiamo portato a questi popoli il « dono della fede » tramite l'annuncio della Parola, abbiamo vissuto un singolare cammino di arricchimento spirituale.
Traducendo il testo sacro nelle lingue di questi popoli e sforzandoci di inculturare il messaggio evangelico, abbiamo riascoltato la Parola dentro le diverse culture, e con meraviglia abbiamo sperimentato che la Parola parla al cuore di ogni uomo, e parlava in modo nuovo al nostro stesso cuore.
Insieme alle nostre comunità, abbiamo riscoperto « come bambini » la bramosia del latte spirituale della Parola.
Il contesto della missione, infatti, ci ha permesso di cogliere con stupore nuovo la forza del Vangelo e la sua coniugazione nelle lingue degli uomini ce ne ha rivelato l'inesauribile ricchezza, capace di rispondere alla sete di salvezza di ogni uomo e capace di purificare e rigenerare le diverse culture.
Nel nostro tempo, in cui sono resi più facili la conoscenza e il confronto con le Chiese dei paesi di missione, e in cui sempre più numerosi credenti di popoli diversi vivono tra noi, tornare a riascoltare insieme la Parola di vita, riflessa nelle differenti situazioni e culture, potrebbe essere occasione di riscoperta della sua ricchezza, motivo di fiducia nella sua potenza salvifica, strumento per edificare un popolo di Dio che non finisce di stupirsi delle meraviglie che Dio compie nella storia degli uomini.
L'ascolto di questa Parola ci introduce all'incontro con Cristo e ci porta a « stringerci a lui, pietra viva » per lasciarci edificare da Dio come « pietre vive » - adulti nella fede e nella testimonianza - e come « edificio spirituale » - comunità nella quale opera lo Spirito divino.
In tal modo siamo messi in grado di diventare « un sacerdozio santo », un popolo che, nella lode di Dio e nell'amore e nel servizio dei fratelli, rende a Dio il culto di una vita rinnovata.
Ancorarsi alla « pietra viva » comporta, però, la partecipazione al mistero di morte e risurrezione di Cristo, « pietra rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio ».
Pietro ricorda questa realtà ai credenti del suo tempo, chiamati a vivere la loro esistenza nuova in un contesto sociale che non li comprendeva, che li osteggiava e forse li perseguitava.
Ma la partecipazione a questa dimensione del mistero pasquale di Cristo connota la vita e la testimonianza cristiana in ogni tempo, così che la « persecuzione » diventa una nota caratteristica di una Chiesa missionaria ( Lumen gentium 6 ).
Nel nostro mondo essa forse assume le forme di una certa sordità o indifferenza, ma può diventare ostilità più o meno aperta quando l'impegno dei cristiani per un mondo nuovo incrocia pregiudizi culturali o mette in questione interessi di diverso genere.
Il richiamo a Cristo, pietra rigettata e preziosa, diventa allora invito al coraggio di una testimonianza, personale ed ecclesiale, fedele al Vangelo; al coraggio di una speranza offerta al mondo sempre « con dolcezza e rispetto » ( 1 Pt 3,15 ).
In questo coraggio ci può essere di modello l'esperienza missionaria.
Pio XII nella Fidei donum esortava le comunità cristiane a partecipare all'impegno missionario con la preghiera, con la generosità, ma anche, per alcuni, con il dono di se stessi.
Il dono oscuro di sé che molti missionari offrono nel servizio al Vangelo e alle popolazioni più povere è diventato, in alcuni casi, anche dono coraggioso della propria vita.
In diverse situazioni, anche i cristiani delle Chiese di missione portano la loro testimonianza in un ambiente apertamente ostile, soffrono persecuzioni e hanno dato la propria vita in fedeltà al Vangelo.
Sono le pietre violentemente rigettate che diventano preziose di fronte a Dio.
Il loro sacrificio, nell'ottica pasquale, ha segnato la fecondità della missione e illumina di coraggio la nostra testimonianza e il nostro impegno.
Pietro ricorda ancora che Cristo, pietra preziosa, diviene « sasso d'inciampo e pietra di scandalo » per coloro che non credono alla Parola ( v. 8 ).
Lo ricorda verosimilmente con sofferenza, pensando a quanti al suo tempo, anche tra i suoi correligionari, hanno trovato nella croce di Cristo motivo di scandalo, anziché ancoraggio di salvezza.
La stessa sofferenza è anche la nostra di fronte all'irrilevanza che il messaggio cristiano ha per un certo mondo secolarizzato, e di fronte all'indifferenza o all'incredulità pratica che segna la vita di uomini e donne del nostro tempo.
Ma questa sofferenza non deve divenire per noi motivo né di giudizio né di estraniazione, ma piuttosto di rinnovata attenzione e simpatia a questo nostro mondo.
In quanto « popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere meravigliose » ( v. 9 ), noi avvertiamo la singolare responsabilità di portare a tutti l'annuncio e i segni della speranza, perché, pur nella nostra debolezza, « Cristo Gesù è la nostra speranza » ( 1 Tm 1,1 ).
Questi giorni del Convegno ecclesiale hanno certamente rafforzato la coscienza del dono e della responsabilità di essere « testimoni del Risorto, speranza del mondo ».
Dobbiamo interrogarci se, in questo nostro compito di testimonianza, non possiamo trovare degli « alleati inattesi ».
Ci sono in mezzo a noi uomini e donne di differenti popoli e culture, che nelle loro tradizioni religiose o in una fede espressa con linguaggi nuovi cantano con semplicità le « meraviglie di Dio ».
Come ricordava recentemente Benedetto XVI, essi sono talora spaventati dal nostro secolarismo, ma continuano a offrirci il dono di una religiosità spontanea e di una fede vissuta con immediatezza.
Come in un nuovo esodo biblico, essi portano con sé le speranze di famiglie, di clan e di popoli per nuove possibilità di vita e per un mondo più giusto e, al contempo, portano la frustrazione di chi è estraneo e non pienamente riconosciuto nella propria dignità e nel contributo che può offrire.
Non può essere un kairos carico di speranza il dono che essi ci offrono e la domanda che essi sollevano?
Nella tradizione della Chiesa veronese, che ospita questo Convegno, c'è un segno luminoso in questa direzione: Zeno, l'ottavo Vescovo di Verona proveniente dalla Mauritania, migrante nero e missionario anche lui, è stato accolto nella nostra terra e vi ha portato la fede.
I tanti missionari partiti da Verona per annunciare il Vangelo in Africa hanno sempre avuto coscienza di restituire un dono che in tempi lontani era stato loro offerto.
Proprio Zeno, nella lettura che ci è stata proposta, ricordava che « l'edificio spirituale » si costruisce chiamando a raccolta tutti e che, senza i carismi di tutti, non si realizza la chiamata del popolo di Dio ad annunciare le sue meraviglie.
Ma in particolare faceva appello ai poveri: « Esultate poveri: per merito vostro e in voi diviene più grande la casa di Dio.
Infatti siete uguali a tutti, e tutte le misure superate con la grandezza della vostra schiera ».
L'appello di Zeno diventa un'indiretta esortazione a noi perché, tra i fratelli destinati a edificare il popolo di Dio e cantare la gloria delle sue meraviglie, accogliamo anche i poveri venuti da lontano che ci portano i loro doni di fede e la forza della loro speranza.
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