Convegno ecclesiale di Verona |
17 ottobre 2006
Ci sono molti modi di parlare di spiritualità.
Vorrei evitare quello che tende allo spiritualismo, quasi rifugio in un mondo dello spirito in cui tutto risulta perfetto e rarefatto.
In questa riflessione, il termine spiritualità vuole conservare il suo originale carattere di vita secondo lo Spirito e il radicamento nell'esistenza quotidiana, con le sue fatiche e le sue tensioni, con i suoi slanci e le sue asprezze, riflettendo così lo spessore di cammini spirituali - personali ed ecclesiali - densi di vita e di mistero.
Mi pare che in questo modo sia possibile evitare quell'estenuarsi dei linguaggi della vita cristiana che oggi risultano quasi consunti da un uso troppo generico, o troppo retorico.
L'esuberanza del lessico dice quanto sia difficile oggi pronunciare parole spirituali vere, che non abbiano paura né delle incertezze della vita né del riferimento al mistero.
Pudore e sobrietà della parola potranno restituire ai nostri linguaggi la possibilità di comunicare l'intensa bellezza di una vita vissuta nella prospettiva del Vangelo.
Ciò che colpisce nella Prima lettera di Pietro, e che forse non sempre viene posto nell'adeguato risalto, è l'intensa sofferenza che l'autore avverte dentro la comunità cristiana; intrecciata con una più alta speranza e l'esortazione a un amore più forte, la sofferenza della comunità è un dato di fatto che l'apostolo assume.
Una riflessione vera e onesta sulla speranza anche per noi non può non prendere le mosse dalla realtà del nostro essere cristiani.
I rapidi e accelerati cambiamenti che caratterizzano il mondo in cui viviamo e le ripercussioni che essi hanno sul modo di pensare la vita, di concepire la persona e la dimensione religiosa di essa, sono vissuti con crescente consapevolezza dalle comunità cristiane.
Nel senso di disagio che molti cristiani sperimentano è chiara la coscienza delle sfide da affrontare per essere Chiesa oggi:
l'incontro con i fedeli di altre religioni;
il confronto con un mondo laico che tende a relegare la fede nello spazio delle questioni private;
la tentazione di chiudere il cristianesimo dentro una cultura;
la fatica di comunicare con persone apparentemente indifferenti a ogni dimensione di profondità, che nei momenti duri della vita mostrano la disperata sofferenza di un'esistenza chiusa negli orizzonti terreni.
Merita un cenno in più la percezione, in molte persone, della « fatica di vivere », la difficoltà di stare in relazione con un contesto frammentato e disperso, la sofferenza per la perdita di una possibile unità interiore: esperienze che rischiano di renderci stranieri a noi stessi.
Questioni nuove e difficili, che chiedono una conversione fatta anche di apertura alla novità, capace del coraggio di una nuova elaborazione del profilo di un cristianesimo per questo tempo.
Non basta una fede più generosa; occorre oggi una fede disposta ad abbandonarsi all'azione dello Spirito e a spendere il talento di un'intelligenza spirituale creativa.
Si intuisce l'esigenza di tutto questo, ed essa mette a nudo le debolezze del nostro essere cristiani: la gracilità della fede dei credenti; la difficoltà delle comunità di mostrarsi come case accoglienti di tutti; la stanchezza di un modello pastorale articolato e complesso, ma non sempre in grado di interpretare la vita e di accompagnarla in percorsi di unità; di restare fedele a un cattolicesimo popolare che ha nella parrocchia la sua struttura più forte.
La difficoltà a capire un mondo che cambia e la durezza del confronto con esso ha generato in molte comunità e in molti cristiani, soprattutto coloro che sono più impegnati nell'attività pastorale, frustrazione per il senso di inefficacia della propria azione, stanchezza, per un'attività che sfocia sempre più spesso nell'attivismo, esito di una generosità un po' affannata e un po' impaurita, chiusura delle comunità su se stesse, troppo concentrate sulle proprie attività, progetti, iniziative.
Nell'odierno contesto socioculturale, i cristiani si sentono estraniati, resi estranei a un mondo con cui forse si sono troppo identificati e che non c'è più, ma anche provocati da questa situazione a riscoprire la loro natura di stranieri da questo mondo, perché stranieri a ogni mondo.
C'è un percorso di grazia nella realtà attuale: quello che ci porta a riscoprire il paradosso del nostro essere, come cristiani, stranieri pur dentro un mondo in cui siamo cittadini, pur accanto a donne e uomini di cui ci sentiamo fratelli.
Il dono di questo tempo è per noi quello di assumere la percezione dell'essere stranieri non come esito di un'espropriazione di identità, ma come frutto di un'identità riscoperta in forma più pura e più profondamente nostra: quella pasquale dell'amore che si dona, assunta e vissuta come fonte di pienezza per tutti.
Alla testimonianza dei singoli credenti e delle comunità si chiede oggi di far emergere il profilo di un cristianesimo per questo tempo, di elaborare modelli di vita credente per l'esistenza ordinaria e quotidiana.
I tempi difficili sono quelli in cui occorre radicarsi nell'essenziale, mettendo più in profondità le radici.
La Prima lettera di Pietro ci invita a ritrovare l'essenziale nel Signore Gesù, la pietra viva che può rendere stabile e forte la nostra stessa esistenza.
L'essenziale è lui: il suo mistero in cui immergerci; la sua parola di cui alimentare un pensiero che abbia la forza della Verità; la sua pasqua, in cui radicare un modo di amare libero e capace di totale dedizione.
Così, con il cuore in lui, rigeneriamo la nostra volontà di amare questo mondo; con lo sguardo fisso in lui, alleniamo lo sguardo a guardare la vita come la vede lui.
Vivendo come lui, ricominciamo ogni giorno il cammino, rimessi in piedi dalla misericordia che ama senza merito, e diffondiamo nel mondo la speranza che nasce dall'essere amati e che da speranza amando; la speranza che in noi nasce dalla certezza della risurrezione; dalla promessa che noi e ogni cosa siamo incamminati verso l'Eterno.
Stretti a lui, anche noi diventiamo pietre vive, uomini e donne che testimoniano la Verità in cui credono con convinzione e con mitezza, la cui discrezione è sinonimo di ascolto e rispetto e non di timore.
Persone capaci di dialogo con tutti e che esprimono la loro fede nell'amore.
Dio è Amore. Questo ci ha ricordato Papa Benedetto con la sua prima enciclica.
Dunque Dio ci ama. Dio ama ogni uomo e il mondo per il quale ha dato il Figlio.
Vivere da cristiani è vivere come il Figlio dato per noi: lo stesso amore totale, che non fa preferenza di persone; quell'amore che nel giorno per giorno diventa parola di fiducia, gesto di misericordia, atteggiamento di attenzione e di gratuità, impegno di condivisione dell'inquietudine e della ricerca di senso e di libertà di tanti fratelli di oggi; quell'amore che ci apre l'accesso alla vita definitiva oltre la morte.
Il nostro essere stranieri ci fa persone dallo sguardo lungo, sempre gettato lontano; siamo persone che non si lasciano rinchiudere negli orizzonti del tempo e dunque sanno vedere anche là dove altri non vedono.
Vedono il disegno di armonia con cui il mondo e le cose sono usciti dalle mani di Dio e sono rigenerati nella pasqua di Cristo.
È la testimonianza di Giorgio La Pira, che ha saputo « vedere » la pace oltre il conflitto e operare per essa; o quella di madre Teresa, che ha saputo vedere la dignità di figli di Dio dentro un'umanità devastata dal dolore e dalla miseria.
Lo sguardo penetrante dei profeti ha saputo vedere ciò che altri non vedevano; la loro libertà ha dato loro il coraggio di spendersi perché quel disegno si realizzasse.
La loro profezia, come quella di tutti i testimoni che ricordiamo anche in questo Convegno, è quella della santità, unica misura secondo cui vale la pena essere cristiani, cammino di coloro che vivono abbandonati al mistero di Dio e con lo sguardo rivolto a lui.
Stretta al Signore Gesù, la vita di ciascuno di noi acquista il profumo del Vangelo e parla.
Racconta la bellezza di un'umanità piena e affascinante, che sa reinterpretare le dimensioni fondamentali dell'esistenza alla luce della fede.
E così il profumo del Vangelo, che è sovrabbondanza di amore, come nel gesto della donna di Betania, raggiunge i luoghi dell'esistenza quotidiana, al di fuori dei mondi ecclesiastici, nella casa, nella piazza, nella professione, nella scuola, nel posto di lavoro, il fascino, talvolta carico di dramma ma sempre grande, della vita vissuta con il Signore.
Eppure questo percorso non è un idillio, non solo perché la strada della libertà da noi stessi è aspra, ma anche perché questo stile di vita ci rende stranieri a un mondo prigioniero di logiche di morte.
È fin dall'inizio l'esperienza dei cristiani che hanno fatto sul serio e che hanno conosciuto l'ultima delle beatitudini: quella che scaturisce, come inevitabile conseguenza, nella vita di coloro che respingono le logiche mondane e si fanno estranei alla lusinga del danaro, all'attrattiva del successo, alla sirena del potere e dell'immagine e si collocano nella folla degli umili, dei miti, dei puri di cuore.
Ci sono oggi Chiese che vivono in maniera particolare la loro testimonianza in un contesto di persecuzione e di lotta: in Sudan, in Palestina, in Indonesia, in Cina un numero crescente di cristiani testimonia anche a prezzo della vita che l'amore pasquale è più forte della morte e non si lascia fermare da essa.
E, quando la violenza si scatena contro di loro, le loro parole di perdono, come quelle di suor Leonella in Somalia, sono l'esempio di come il vivere con lo sguardo sull'eterno renda capaci di affrontare anche la morte pronunciando parole di vita.
Se il nostro tempo chiede un nuovo profilo di cristianesimo, chiede anche un profilo nuovo di comunità cristiana.
Anche le comunità in cui viviamo e che qui rappresentiamo hanno bisogno di raccogliersi sull'essenziale, riesprimendone il cuore, cioè l'amore pasquale di Cristo.
Pur riconoscendo le buone e molte ( forse troppe ) cose che oggi le nostre comunità stanno facendo, credo sia necessario rendere più chiaro l'essenziale di cui vive la Chiesa e proporre percorsi concreti perché questo cuore divenga l'esperienza cardine di ogni comunità:
- la parola di Dio, rivelazione dell'amore, dono per conoscere il cuore di Dio, per guardare l'esistenza umana dal suo punto di vista;
esperienza che pone la coscienza in ascolto, che dispone a un'obbedienza che dà forma all'esistenza e fa del volto di ciascuno di noi un riflesso in cui a poco a poco prende forma il volto del Signore Gesù;
luce per i passi della vita, o mistero da custodire nei giorni dell'oscurità e del silenzio.
Le nostre comunità sono chiamate a essere con più decisione scuole in cui imparare a mettersi in ascolto, in cui conservare la carica « scandalosa » e paradossale della Parola, in cui assaporare il gusto e la libertà del vivere in ascolto di Dio;
- la liturgia, celebrazione dell'amore, da vivere nella festa e nello splendore, come si addice alla lode dell'uomo a Dio, e nella sobrietà che richiede il dialogo della creatura con lui, da cui riceve in dono l'amore che celebra.
Ritualismo e devozioni, che sono tornate ad affermarsi nelle nostre comunità, tendono a rinchiudere Dio nei confini della nostra umanità e del nostro bisogno; la liturgia invece è preghiera che testimonia la fede in un Dio che, mentre si fa vicino, non si mostra che di spalle e così ci attrae a sé, nel suo inafferrabile mistero; - la comunione, visibilità dell'amore ricevuto da Dio come talento.
Trafficato nelle forme della fraternità, del servizio, della solidarietà, della carità operosa, spinge la comunità a vivere nella totalità di un amore che ha il timbro di quello pasquale; a realizzare e mostrare che la Chiesa è chiamata a essere segno « dell'unità per tutto il genere umano » ( Lumen gentium 1 ), capofila di un'umanità tutta incamminata verso Dio.
Vivere Parola, liturgia e comunione in questo modo proietta la comunità cristiana oltre se stessa.
Così essa vive la sua speranza.
Ma sappiamo che la speranza è la virtù più difficile.
Il mondo accetta la nostra fede e chiede la nostra carità.
Ma la speranza di un oltre è troppo.
Come Paolo ad Atene, siamo derisi non per la nostra fede o carità, ma per la nostra speranza.
E noi rischiamo di vergognarci di essa facendo perdere alla nostra testimonianza il carattere profetico che dovrebbe appartenerle.
Una Chiesa che spera è libera, aperta, coraggiosa, capace di affrontare ogni difficoltà: non senza sofferenza, ma con l'audacia che le viene dal suo sguardo oltre il tempo.
La Chiesa della speranza ha la chiave per entrare in comunicazione con le persone di questo tempo: è quella dell'amore, con le sue infinite declinazioni esistenziali, come accoglienza, compassione, misericordia, consolazione.
Chi si sente amato è chiamato fuori dal suo isolamento, torna ad avere fiducia, a porsi domande, a guardare oltre.
E può credere che c'è una risurrezione dalla morte, se già oggi può incontrarne i segni incerti in questa vita.
La Chiesa della speranza sa essere luce sul monte, offrendo un giudizio credente su questo tempo e scoprendone le ambiguità e i limiti, insieme alle risorse e ai semi di bene.
Nessun arroccamento sulla difensiva, ma una ricerca libera e senza pregiudizi dei segni dei tempi, del modo in cui Dio parla oggi al suo popolo ed è vivo nella nostra storia.
La Chiesa della speranza vuole far giungere a tutti la gioia del Vangelo; per questo cerca di conservare il suo carattere popolare e universale, senza lasciarsi irretire dalla tentazione di identificarsi con una cultura, accogliendo la sfida epocale del dialogo tra le religioni e facendosene umile protagonista.
A metà del cammino decennale della Chiesa italiana che ci vede impegnati a « comunicare il Vangelo in un mondo che cambia », ci risulta sempre più chiaro che l'evangelizzazione è portare il Vangelo nei luoghi della vita, soprattutto in quelli che oggi più difficilmente sono raggiunti dall'azione della comunità ecclesiale; per far questo, la Chiesa ha bisogno dei laici ( la relazione di don Franco Brambilla ).
Per far sentire il profumo del Vangelo, occorre essere vicini alle persone.
Solo così si può mostrare la bellezza di una vita vissuta da cristiani e si può collocare la parola evangelizzatrice nella conversazione quotidiana, nei dialoghi brevi, quando il Vangelo può diventare luce sulle gioie e le speranze, le fatiche e le sofferenze di ogni giorno.
Il Concilio e il magistero successivo a esso ci hanno insegnato il valore della vocazione dei laici per la missione della Chiesa e ci hanno consentito di sperimentare la bellezza di una vita da laici che sa resistere sia alla tentazione di esaurirsi nel servizio pastorale sia a quella di immergersi totalmente nelle realtà secolari, senza riferimenti alla comunità.
La vocazione laicale, come ogni vocazione, nella comunità cristiana è segno evidente e chiaro di una dimensione che appartiene a tutti e che tuttavia qualcuno interpreta in modo più esplicito di altri: la dimensione della condivisione della vita quotidiana comune, per mostrare a tutti che Dio ama la vita.
Tuttavia mi pare che oggi la vocazione laicale, nel modo in cui è interpretata dai laici e accolta nelle comunità, mostri molti segni di debolezza.
L'attuale frammentazione del laicato in una molteplicità di esperienze aggregative rende inoltre difficile far emergere la comune vocazione e debole la voce dei laici nel mondo e nella comunità, facendo più povera la Chiesa stessa dell'esperienza di chi la immerga nella polvere della storia, le apra con fiducia le porte del dialogo con il mondo, la vita, la realtà circostante, il territorio …
Mi pare oggi necessario che le diverse espressioni del laicato ritrovino il senso comune della loro vocazione, attraverso percorsi di incontro, di comunione, di reciprocità.
La vita dei fedeli laici si svolge nel mondo; il loro cammino spirituale è tutt'uno con la loro responsabilità di trasformare la vita, stando dentro le sue ricchezze e le sue contraddizioni.
Abbandonarsi a Dio dentro e attraverso la vita quotidiana è una straordinaria avventura dello spirito: quella che permette di « toccare con mano » il mistero, non solo quello di Dio, ma anche quello della vita.
È mistero la vita che si accende in una donna, non meno che l'amore umano; è mistero il dolore che ci piega sotto il peso delle domande, o il lavoro con cui umilmente contribuiamo a mandare avanti il mondo; è mistero la morte come sigillo della nostra povertà ma anche come porta che ci apre all'abbraccio definitivo con il Padre.
Vivendo la vita di tutti, intravediamo di essa ciò che molti non intuiscono: non è chiusa su se stessa.
L'esistenza di ogni giorno conosce la contemplazione come l'ordinaria capacità di stare di fronte al mistero nelle molteplici forme in cui esso si manifesta e negli infiniti luoghi che esso abita.
Alla comunità cristiana i laici oggi chiedono che questa loro esperienza spirituale sia non solo riconosciuta, ma valorizzata come dono che è di tutta la comunità.
Alla comunità chiediamo che dia valore alla nostra vocazione non solo quando ci impegniamo come catechisti, o animatori, o operatori della pastorale, ma che riconosca innanzitutto il valore della nostra fede spesa nelle situazioni di ogni giorno, quando solo Dio è testimone della nostra azione per costruire il Regno e quando il nostro impegnarci non contribuisce direttamente a sostenere le iniziative pastorali della comunità.
Vorremmo che questa nostra esperienza potesse trovare voce e che nelle nostre parrocchie ci fosse spazio per i racconti della missione nella vita quotidiana, sull'esempio di ciò che facevano i discepoli che, tornando dalla missione cui erano stati inviati, raccontavano ciò che avevano vissuto.
Se la vocazione dei laici prenderà valore nel futuro delle nostre comunità, ciò accadrà quando esse avranno affrontato la questione della rilevanza ecclesiale dell'azione secolare dei laici cristiani.
Mi pare che sia un tema ancora da esplorare in larga parte; tuttavia due percorsi sono chiari già oggi:
- quello della corresponsabilità e del dialogo intraecclesiale.
I laici sentono il bisogno di prendere la parola nella comunità, e vorrebbero poterlo fare non in luoghi appartati, riservati ai laici, ma in luoghi ecclesiali, di tutti, contribuendo con la loro esperienza di Dio nel mondo a delineare il volto di comunità aperte alla vita.
Il cammino compiuto dagli anni del Concilio a oggi, se ha potuto far crescere questa esigenza e questo desiderio, significa che ha fatto crescere una maturità, un senso di appartenenza e di partecipazione che chiede di potersi esprimere nei luoghi della corresponsabilità ecclesiale in forme vive, non rituali e non formali.
Così sarà possibile contribuire a far crescere, più intensa e feconda, la relazione della Chiesa con il mondo di oggi;
- quello di cammini formativi non strumentali o finalizzati a cose da fare, ma radicati nella forza della parola di Dio e del magistero della Chiesa; capaci di esplorare nel dialogo e in una comunicazione circolare le strade appassionanti e mai scontate del rapporto tra la vita e la fede; aperti a diventare occasioni di discernimento, in cui insieme si cerca di capire come essere fedeli contemporaneamente al Vangelo e alla concretezza dell'esistenza quotidiana con le sue responsabilità; in cui insieme si affrontano i temi dell'annuncio del Vangelo e della testimonianza nel mondo, veri problemi di cui nessuno ha la soluzione e che necessitano di dialogo, di confronto, di ricerca ( Lumen gentìum 37 ).
Così la formazione potrà essere momento di sintesi fra l'impegno pastorale e il discernimento culturale, evitando di proporsi solo come catechesi dottrinale e astratta.
L'educazione cui la Chiesa italiana ha scelto di dedicarsi con nuovo impegno ( Traccia ) si radica nel desiderio di aiutare e accompagnare ogni persona nel cammino che la porta a liberare le energie più vive e a riconoscere i doni che porta in sé, per realizzare il capolavoro della propria umanità, che è armonia, unità, libertà, apertura.
Così sarà possibile percorrere le strade della ricerca di un senso profondo alla propria vita e alle dimensioni di essa, reinterprentando per questo tempo affetti ed emozioni; famiglia e generazione; lavoro e cittadinanza; limite e solidarietà.
La sofferenza delle comunità cristiane di oggi assomiglia ai dolori del parto: attraverso le provocazioni dello Spirito, che passano per le vie della storia umana, la Chiesa si lascia costruire dal Signore: sa che in questo modo sarà rigenerata come nuova e potrà essere sempre giovane della freschezza del Vangelo, contemporanea anche a questo tempo.
Mi auguro che insieme, come Chiesa, sappiamo renderci reciprocamente testimonianza della fiducia in un futuro giovane: non sappiamo ancora quali ne saranno i contorni, ma siamo certi che Dio ce ne farà dono.
Non importa se per questo dobbiamo passare attraverso i giorni dell'incertezza, del dolore, del silenzio: è il travaglio del parto.
Sappiamo anche che, come per la donna, il dolore del dare alla luce si dimentica subito, per la gioia che è venuto al mondo un bimbo ( Gv 16,21 ).
Anche questo è esercizio di speranza.
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