Convegno ecclesiale di Verona |
18 ottobre 2006
Eminenza, eccellenze e tutti voi, cari amici, riuniti qui a Verona per questo 4° Convegno Nazionale della Chiesa cattolica italiana!
Innanzitutto, vorrei chiedere perdono di non meritare affatto di aver l'onore di rivolgermi alla vostra assemblea e di non essere in grado di esprimermi nella vostra lingua così bella.
Quelli che hanno avuto l'impossibile compito di educarmi avevano una tale ammirazione per la cultura romana che hanno concentrato tutti i loro sforzi nel farmi imparare un po' di latino, senza immaginare che un giorno alcune parole di italiano mi sarebbero state più utili.
Si capisce dal loro punto di vista, vero?
Permettetemi ora di approfittare della vostra indulgenza per rispondere quanto più concretamente possibile a due o tre domande che ci sono poste dagli organizzatori di questo incontro di questa sera.
Laddove pensavamo, non molto tempo fa, di camminare verso un paradiso tranquillo retto dallo Stato - provvidenza, assistiamo alle lacerazioni del tessuto sociale.
Laddove l'Europa si è caratterizzata per lungo tempo per il dinamismo della modernizzazione, ci scopriamo vittime di un invecchiamento che potrebbe tradursi in difficoltà finanziarie e abbassamenti dei livelli di vita.
Infine, lungi dai sogni di un universo pacificato che abbiamo potuto nutrire con la caduta del muro di Berlino, la distruzione delle « Torri gemelle » ci ha fatto entrare in un'era nuova di tensioni geopolitiche crescenti.
Tre ragioni - e ne potremmo trovare molte altre - che possono spiegare il clima di tristezza e di paura diffusa che da più punti di vista caratterizza l'Europa.
Fortunatamente la realtà è fatta di contrasti.
Che cosa posso dire per rispondere alla domanda: « Quali segni culturali discerniamo in questo contesto in Francia? ».
I segni che risaltano ai nostri occhi e quelli che percepiamo nel trambusto mediatico che ci circonda ci segnalano delle pesanti difficoltà: occorre riconoscerle.
Ma prestiamo orecchio maggiormente, ascoltiamo!
Udremo allora dei messaggi di fiducia, come se la « bambina Speranza » di Charles Péguy, che voi citate così opportunamente, canticchiasse sulle nostre strade.
Quel che risalta ai nostri occhi era stato mirabilmente formulato nel settembre 2001 dal Card. Bilie, Presidente della nostra conferenza episcopale, poco prima della sua morte: Occorre non nasconderselo: la nostra Chiesa sta appena iniziando il suo esodo.
Non sentiamo più quel che ha nutrito tante generazioni.
Nel popolo vi sono meno praticanti, meno militanti e sempre di meno tra i suoi bambini sono quelli che ricevono il catechismo.
I sacerdoti sono sempre più rari, invecchiati, indeboliti dal sovraccarico o la dispersione dei loro compiti.
Finora potevamo vivere di espedienti, di illusioni.
Ora scopriamo che la distanza tra il Vangelo e il mondo è molto più grande di quanto immaginasse la nostra memoria collettiva.1
Chiesa in esodo! Chiesa portatrice di un messaggio di speranza, ma in una società da molti punti di vista colma di beni materiali, ma dove - e forse proprio per questo - il suo messaggio non sembra più necessario, quando non è deriso.
È una società che non è più per nulla abitata da quel personalismo comunitario che vi si era fatto un certo spazio all'indomani della seconda guerra mondiale, ma che è abitata da un relativismo che si generalizza, dalla preferenza per ciò che è immediato, dal regno del consumo e del futile e da quell'individualismo in cui ciascuno pretende di governare la società a partire dal suo buon volere; i soli diritti sono i miei, anche se faccio dei salamelecchi davanti ai diritti dell'uomo e se decido, io stesso, del senso della mia vita.
Questo individualismo, d'altra parte, è un male che raggiunge tanto il tessuto sociale della Nazione quanto il popolo dei fedeli.
H. Tincq pone la domanda: « Le infermità del cattolicesimo, con il quale la Francia ha per così lungo tempo fatto lega [ … ] non sono forse sintomi di una società ugualmente malata? ».
La domanda chiama una risposta affermativa; il male della Chiesa è quello della società, ma questo non è fatto per consolarci.
Ma c'è di più. Accanto a quel che vediamo, c'è quel che sentiamo.
Un doppio e assordante baccano.
L'uno viene da una nuova forma di bon ton che consiste nel deridere - in maniera bassa, talora grossolana - il fatto religioso.
È la « cultura del disprezzo » di cui parla Réne Rémond.
Infine, probabilmente più pericoloso, vi è il baccano che ci perviene da parte dei fondamentalismi o dai sostenitori di un secolarismo che, al minimo pretesto, urlano.
Giungono a occupare i media, esercitano un sorta di intimidazione surrettizia.
Finiscono per definire un « politicamente corretto », obbligando ciascuno a domandarsi se la sua parola non apparirà passatista, intollerante o clericale.
Aggiungendosi a un clima di derisione o di scetticismo rassegnato, tutto ciò rende più difficile proferire una parola di speranza.
Diverremo dunque, attraverso scivolamenti impercettibili davanti a questo « terrorismo molle », una nuova « Chiesa del silenzio »?
Non siamo evidentemente a questo punto e gli sforzi sono numerosi per far fronte a questa situazione.
Ma la difficoltà è reale.
Ecco per quanto riguarda lo spettacolo e i clamori!
Ma se voi siete, come dice così bene Mons. Giuseppe Betori, abitati da questa « sete di ascolto », allora sì, percepirete dei segni di speranza, molte cose che germinano silenziosamente, iniziative che si prendono, impegni che si moltiplicano con dei volti molto diversi, apertamente cristiani o più discreti, all'interno di una società civile in cui prolifera la vita associativa.
Lasciate ora che io mi soffermi su questi segni di speranza.
Oh, non potrei dirvi niente di definitivamente rassicurante, niente che segnali la fine prossima della « traversata del deserto ».
Potrei dirvi, questo sì, l'apparizione evidente di una nuova generazione di laici che si mobilitano affinché la vita della Chiesa continui e risplenda, senza fare chiasso.
C'è qualcosa di ancora più evidente, forse: il contributo multiforme - a volte un po' sconcertante - delle nuove comunità portatrici di un vigoroso slancio spirituale, meno spettacolare forse che altrove, ma privo di ogni complesso davanti al « politicamente corretto ».
C'è anche, laddove la parola cristiana appare forse troppo discreta, una richiesta sempre più frequente fatta ai cristiani di esprimersi più vigorosamente, una richiesta proveniente da molti agnostici assetati di senso.
Questa richiesta mi colpisce molto.
È presente ed è forte.
Tutto accade come se, sempre più, noi fossimo più apertamente invitati « a rendere ragione della nostra speranza ».
Come se i nostri contemporanei, discernendo meglio il nulla degli idoli che sono loro offerti ( edonismo, ricchezza o potere ), discernessero in qualche modo che il Risorto - al quale ci richiamiamo più o meno apertamente - ci avesse affidato alcune chiavi del senso e della speranza.
Constato personalmente questa richiesta sempre più forte osservando il numero crescente di coloro che partecipano alle nostre Settimane sociali, attestando così che la dottrina sociale cattolica può fornire la risposta pertinente che essi cercano per i problemi del nostro tempo.
A questa richiesta, sempre più risposte sono offerte, nutrite per mezzo del ritorno alla tavola della Parola, alle sorgenti della fede e al suo approfondimento, nella vita rinnovata delle parrocchie, nei movimenti di evangelizzazione, nell'influsso esercitato da numerose comunità religiose.
I cristiani, a poco a poco, si esprimono maggiormente come tali - sembra -, con una parola liberata.
Infine, essi sono presenti, spesso, in prima fila, in tutte le battaglie in cui l'uomo, la sua dignità e i suoi diritti sono in gioco.
È proprio di queste forme di impegno l'essere nutrite, per coloro che le vivono, da una profonda speranza e dalla preoccupazione di contribuire a un progetto di civiltà per il mondo intero.
Questo mi conduce alla seconda grande domanda.
La risposta è sì. Quali?
A questo riguardo non ho alcun dubbio, per due motivi che posso riassumere rapidamente.
Il primo si collega all'esperienza fatta per tredici anni durante i quali, chiamato a dirigere un'istituzione internazionale, ho girato il mondo con molteplici occasioni di scambi con i dirigenti più diversi a tutte le latitudini.
Ho ascoltato le confidenze di molti di loro.
Sono stato testimone della loro ricerca angosciata, spesso piena di buona volontà, di un sistema di pensiero, di un corpus di principi etici che possano guidare le loro azioni a partire dalle ricchezze della loro cultura.
Ebbene, posso dirlo senza ambagi, non ho da nessuna parte incontrato un corpus di dottrina sociale che possa con tanta pertinenza e così universalmente, come lo fa l'insegnamento sociale cristiano, rispondere alla ricerca condotta dagli uomini di oggi di basi di una società da costruire sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni uomo, e aperta alla dimensione di una responsabilità universale.
Inutile elaborare di più.
Ciò che è universalmente vero si applica in maniera particolare all'Europa che è stata così riccamente fecondata - che lo riconosca o no - dal Vangelo.
Volgiamoci verso l'Europa nella sua crisi di oggi: è divisa tra i suoi problemi interni e gli appelli che le vengono dal mondo.
Per ognuno di questi problemi, essa può trovare nel messaggio sociale cristiano la via che possa condurla verso dei segni di speranza.
Alla luce dei lavori del piccolo gruppo « Iniziative di cristiani per l'Europa » ( IXE ) nel quale ho la fortuna di lavorare accanto a Luca Jahier, vedo, in effetti, una Europa ispirata dal Vangelo come la migliore risposta alle paure che ci abitano, come risposta agli appelli dei nostri fratelli europei che non ci hanno ancora raggiunto nell'Unione europea e soprattutto come risposta al grido del mondo in via di sviluppo.
Vedo infine una tale Europa come uno strumento di primo piano per iniziare una strategia di « pace preventiva » - Andrea ne parlerà - e anche per offrire un modello per una governance mondiale che serva meglio l'umanizzazione del mondo.
A dire il vero, la Chiesa cattolica offre più che dei segni di speranza all'Europa.
Le rivela - come Giovanni Paolo II ha fatto così bene con Ecclesia in Europa - la sua vera identità, l'apertura e il suo primo dovere: la solidarietà, virtù cardinale di un mondo preso nel processo di globalizzazione.
Mediante questo, la Chiesa restituisce all'Europa senso e vita.
Questo dono fatto all'Europa è così essenziale che la Chiesa ha tutte le ragioni di invitare i cristiani, come faceva Paolo VI, a praticare con entusiasmo e determinazione il « dovere d'Europa » e a resistere alla tentazione del dubbio e del « ciascuno per sé ».
A partire da questo, come riprendere il grande tema delle « radici cristiane dell'Europa » e dei segni di speranza che la civiltà euro-pea e la vita cristiana possono offrire agli altri « mondi »?
Innanzitutto, accettando di ascoltare il grido del mondo.
Forse noi non ci vediamo più come cristiani, ma il mondo ci sa cristiani; giudica il cristianesimo a partire da quel che noi siamo, facciamo o soprattutto non facciamo.
È il mondo che ci grida: europei, che avete fatto del vostro battesimo?
Queste radici cristiane costituiscono un'evidenza: ovunque ci si rechi in Europa, qualsiasi sia il libro che si legga dei maestri della sua cultura, i paesaggi dell'Europa, come la sua cultura - anche nel diniego di alcuni tra i suoi rappresentanti - sono disegnati e penetrati di cristianesimo.
Il mio Paese, dimenticando i suoi paesaggi e la sua cultura, non ha voluto riconoscerlo.
Eppure, l'evidenza è qui: venite a visitare la città della mia infanzia; che cosa sarebbe senza la sua cattedrale?
Oggi, se si riprende questa battaglia per il riconoscimento delle radici cristiane, si può scommettere sul fatto che essa sarà difficile e dall'esito incerto; ogni sorta di argomenti più o meno fallaci a riguardo della Turchia o il necessario acquietamento delle tensioni con i musulmani saranno posti all'attenzione.
Occorrerà dunque procedere con prudenza e discernimento, ma la questione più importante non è quella sull'opportunità di questo dibattito.
Quando si tratta di domandarsi quale segno di speranza un vissuto cristiano può offrire agli « altri mondi », noi dobbiamo piuttosto metterci sulle orme di quei due discepoli che camminavano sulla strada di Emmaus.
Ricordate: « Noi avevamo sperato … », dicono allo Sconosciuto che cammina con loro ( Lc 24,21 ).
Come possiamo rispondere al mondo che ci domanda: « Che cosa possiamo sperare? ».
Ebbene, con lo stesso gesto mediante il quale quei due uomini hanno riconosciuto Gesù Cristo, la Speranza: la condivisione del pane.
Vorremmo tutti che l'Europa fosse riconosciuta come cristiana.
Ebbene, facciamo in modo che attraverso la sua pratica della condivisione del pane, in un mondo che ha fame, appaia come il continente della condivisione!
E che, in un mondo sull'orlo o già al di là della disperazione, essa sia ciò che dice di se stessa nel suo progetto di costituzione: « Uno spazio privilegiato di speranza umana ».
Allora, in questa condivisione del pane e nella speranza donata, essa sarà un po' più riflesso del solo Maestro della speranza.
Occorre essere molto presuntuosi per accettare di rispondere a questa domanda.
Ma voi ponete questa domanda a degli amici ed è come amico che posso osare rispondervi.
Innanzitutto, lasciate che io vi dica quanto sia indovinato il porre da parte vostra questa domanda.
Sì, in una Europa paralizzata, questa Europa che dubita, c'è un segno di speranza.
È la vitalità italiana.
La signora Merkel ha detto recentemente - ed è un'ottima notizia: « La Germania sta tornando ».
Penso che l'Italia potrebbe dire anche - e non solo per motivi politici: « L'Italia sta tornando ».
Questo è evidentemente più percettibile per i vostri amici dell'estero che per voi.
L'Italia è più presente che mai nella gestione degli affari mondiali e prende le sue responsabilità, come vediamo nel Libano di oggi, come vediamo in questa settimana di attenzione alla fame nel mondo, nel sostegno che il vostro Paese fornisce alla FAO e alla bella iniziativa che è il nuovo partenariato dei paesi del G8 con l'Africa ( il NEPAD ).
L'Italia sta tornando! Già questa è in sé una buona notizia per il mondo.
Ma c'è di più. Questa Italia è un'Italia cristiana e forte di un vero cattolicesimo popolare, cosa che non vale più nel caso del mio Paese.
Allora, lo so, alcuni spiriti elevati arricciano il naso di fronte all'idea di un cattolicesimo popolare, vi vedrebbero volentieri qualcosa di retrogrado.
Quale errore! È la vostra forza, della quale questo raduno di Verona da testimonianza: mantenetela, fatela vivere nella sua semplicità e precisamente nella sua gioia di vivere!
Voi siete attraverso di essa una sorgente di ispirazione per noi.
È a partire da queste radici popolari che il cristianesimo italiano può aprirsi a degli orizzonti nuovi di speranza e aprirsi - sì - alla dimensione mondiale, ogni giorno più pressante con le sue responsabilità.
I cristiani italiani possono fare molto perché questa presenza più vigorosa dell'Italia sulla scena europea e mondiale serva meglio il bene comune universale.
Possono « afferrare alla vita » le grandi questioni mondiali e in particolare questa causa della pace preventiva di cui parla il prof. Andrea Riccardi, la causa degli obiettivi del millennio, la causa dell'organizzazione dell'indispensabile « autorità pubblica di competenza universale » di cui Giovanni XXIII si era fatto profeta e che spetta a noi creare.
I cristiani italiani possono e devono agire affinché la parola data - tutte queste promesse fatte in tante conferenze internazionali, gli obiettivi del millennio, per esempio - sia mantenuta.
Ogni comunità umana si basa sul rispetto della parola data.
Senza di essa, nulla può essere costruito, che si tratti delle nostre famiglie, dei nostri paesi o della comunità mondiale.
Questi dieci anni che sono davanti a noi - dal 2006 al 2016 - abbracciano questo anno 2015, termine delle nostre promesse di realizzare gli obiettivi del millennio, particolarmente in Africa, alla quale siamo legati in tanti modi.
Perché tutti noi, cattolici d'Europa, non formeremmo una sorta di coalizione del rispetto della parola data affinché questi obiettivi possano essere raggiunti, affinché insieme possiamo aiutare l'Africa ad accedere infine allo sviluppo umano, per quanto dipende da noi?
Infine ( e vedete che mi limito solo a ciò di cui sono più sicuro ), l'Italia, al cuore del Mediterraneo, ha un ruolo di primo piano da giocare per il ristabilimento della fiducia in un mondo minacciato dalla paura e dall'odio.
La Chiesa italiana ha sicuramente un ruolo di ispiratrice da giocare qui.
L'Italia è al cuore di ciò che può essere il focolare, sia delle incomprensioni crescenti, sia, al contrario, di una concordia fraterna ricostruita.
Dico ricostruita perché l'Italia ha saputo essere spesso nella storia un luogo di incontro cordiale dei popoli delle rive del Mediterraneo.
Il mondo è in un'attesa dolorosa della civiltà dell'Amore: è sui bordi del Mediterraneo che ne è stato piantato il germe decisivo e ne è stato posto il segno della tomba vuota.
L'Italia ha una vocazione privilegiata a far sì che questa civiltà vi si sviluppi, a far emergere questa civiltà in cui ciascuno, più cosciente delle radici profonde della sua identità, accetterà l'altro nella sua cultura, la sua religione e la sua differenza e lavorerà, mano nella mano con lui, a costruire un mondo più abitabile.
Ecco alcuni compiti che mi vengono in mente, ma sono sicuro che lo Spirito ve ne suggerirà altri e vi darà lo slancio necessario per impegnarvi in essi fuori di ogni paura e nella speranza.
Indice |
1 | Citato da H. TINCQ, Dieu en Franco, Calmann-Lévy, Paris 2003 |