Multa quidem
22 novembre 1839
Venerabili Fratelli,
Fin dall'inizio del Nostro ufficio apostolico abbiamo dovuto annunziarvi da questa stessa Sede tanti avvenimenti gravi e dolorosi per la diuturna avversità dei tempi presenti.
Ma ciò che nell'odierna vostra riunione dobbiamo annunziarvi di dolore e di lutto per la Chiesa universale è tale che supera largamente l'acerbità dei mali che abbiamo lamentato altre volte.
Nessuno di voi ignora che i Vescovi Ruteni e tutta quell'inclita Nazione, che avevano avuto assieme al dono della fede anche quello dell'unità con Roma pur conservando il rito greco e l'uso della propria lingua, purtroppo avevano miseramente abbandonato l'unità, seguendo il luttuoso scisma greco; avevano poi pensato, e non una volta sola, un sincero e devoto ritorno alla Chiesa di Roma, con l'aiuto della grazia divina.
Già prima, nel Concilio Ecumenico di Firenze, l'Arcivescovo di Kiev, metropolita di tutta la Russia, aveva sottoscritto assieme agli altri Padri Greci il famosissimo decreto dell'unione.
Nonostante che quel grande evento sia stato poi reso vano per la ribellione delle popolazioni e gli sforzi ostili di coloro che, insensibili luce della Grazia, continuavano ad aderire allo scisma, tuttavia non mancarono mai propositi e sollecitazioni, specialmente dai Vescovi, verso l'unità.
Finalmente spuntò il tanto sospirato giorno in cui, per la grazia misericordiosa di Dio, fu concesso alla Nazione Rutena di ritornare in seno alla Madre che aveva abbandonata, e di rientrare in quella comunità fondata dall'Altissimo, nella quale soltanto si può trovare la salvezza.
Infatti i Vescovi Ruteni, che alla fine del secolo decimosesto erano soggetti alla dominazione civile del piissimo Sigismondo III, re di Polonia e di Svezia e granduca di Lituania, ricordando la concordia che prima vigeva fra la Chiesa orientale e quella occidentale, concordia che i loro antenati avevano sempre favorito sotto la guida della Santa Sede, dopo aver rigettato completamente tutti gli errori dello scisma, chiesero di associarsi ancora alla Chiesa di Roma, rinnovando la primitiva unione.
E tutto questo non perché furono costretti da pressioni o violenze o perché tratti in inganno da leggerezza d'animo o di ingegno, né allettati da illeciti vantaggi temporali, ma soltanto perché illuminati dalla sola e chiara luce superiore e spinti dalla sola conoscenza della verità; infine, accesi soltanto dal desiderio della salvezza propria e delle pecore loro affidate, dopo aver preso una decisione unanime su cosa tanto importante, inviarono a questa Cattedra di Pietro due colleghi come ambasciatori a nome di tutto il clero e del popolo.
E con quel senso di carità li abbia ricevuti il Nostro Predecessore Clemente VIII di santa memoria, col plauso di tutto l'Orbe cattolico, e con quanta sollecitudine questa Santa Sede li abbia costantemente seguiti, con quanta sagacia e pazienza li abbia trattati, con quali e quanti modi li abbia aiutati, lo attestano con evidenza le molteplici Costituzioni apostoliche con le quali furono elargiti a quella gente grandi favori e speciali benefici.
In modo particolare sono stati conservati i sacri riti derivati dalle consuetudini liturgiche delle Chiese orientali, con tutto quello che non contrastava l'unità con i cattolici di rito latino.
Furono eretti persino collegi in vari luoghi, specialmente a Vilna, per istruire e indirizzare sulla via della santità della fede e dei costumi i chierici della nazione rutena, provvedendoli inoltre di un annuo contributo.
È veramente deplorevole e doloroso che si sia resa vana, con l'andar del tempo, questa unione dei Ruteni con la Chiesa di Roma che si era così felicemente instaurata.
Tuttavia era rimasto motivo di immensa gioia il fatto che la maggior parte di essi, prima di tutto dei Vescovi, con costante e ferma devozione verso la Sede Apostolica e non separata da questo centro di unità, abbia mai deflettuto in nessun modo dall'integrità della dottrina e della fede cattolica, nonostante nel secolo scorso si fossero diffuse nelle loro regioni le prave falsità di opinioni e gli errori di una vana filosofia.
Ma quale infelice cambiamento della loro situazione!
Oh, durissima calamità, non mai abbastanza deplorata, della nazione rutena!
Coloro che in tempi non lontani la nazione rutena aveva ricevuto come Padri e Pastori, coloro che avrebbe dovuto sperimentare come guide e maestri, onde restare sempre più unita con un vincolo sempre più stretto al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ora per l'estrema sua rovina li trova autori di una nuova defezione.
È questa, Venerabili Fratelli, la notizia che Ci tiene in tanta ansietà e sollecitudine; questo si aggiunge a tutte le amarezze che Ci colpiscono, ed è da ricordare più con le lacrime che con le parole.
Confessiamo sì che all'inizio non potevamo in alcun modo prestar fede a tutte quelle notizie che su questa triste vicenda Ci erano state riferite, considerata specialmente la grande distanza da quelle località e la grave difficoltà, di cui Ci rammarichiamo, di non potere facilmente comunicare con i cattolici che si trovano sparsi in quelle terre.
È per questa ragione che abbiamo differito di far sentire le Nostre rimostranze e riprovazioni per la gravità del male.
Ma ora, con grande dolore, non possiamo più dubitare, per le sicure notizie che Ci sono pervenute in seguito e perché la cosa è stata divulgata dai pubblici giornali, cioè che molti Vescovi Ruteni, già uniti a Roma, della Lituania e della Russia Bianca, con parte del clero e del popolo a loro affidato, sono passati nel campo degli scismatici, abbandonando miseramente la comunione con la Chiesa di Roma da cui era partita l'unione sacerdotale.
Alla base della loro iniqua decisione fu di introdurre dapprima fraudolentemente i libri delle sacre celebrazioni che avevano ricevuto dai Greco-Russi e di trasferire ai loro usi quasi tutta la forma del culto, in modo da portare il popolo ( ignaro del cambiamento operato lentamente, anche per la somiglianza dei due riti ) nello scisma, sia pure contro la sua volontà.
Per loro comando furono spesso convocati i parroci, ai quali furono ripetutamente consegnate lettere in cui, fra impudenti falsità, veniva loro intimato che ciascuno, secondo quella formula, aderisse alla Chiesa Greco-Russa.
Nello stesso tempo i renitenti venivano ammoniti che, altrimenti, avrebbero perduto subito il loro ufficio parrocchiale e che essi, unitamente ai presbiteri che seguendo il loro esempio si fossero rifiutati, sarebbero stati deferiti ai Superiori.
Dopo aver usato tanti altri artifici, arrivarono a tal punto di perversità da non vergognarsi di dichiarare pubblicamente che volevano unirsi alla predetta Chiesa, aggiungendo anche preghiere, a nome del gregge ad essi soggetto, per ottenere il consenso imperiale.
Né gli eventi vennero meno al loro volere.
Dopo aver tutto preparato e confermato con sanzioni in quel Sinodo scismatico tenuto a Pietroburgo, fu decretata l'aggregazione dei Vescovi, del clero e del popolo ruteno ( fino allora uniti alla Chiesa di Roma ) alla Chiesa Greco-Russa con una solenne celebrazione.
Ci rattrista qui ricordare quali nefande conseguenze già potevano presagire questi pastori degeneri, sospinti da chissà quali incitamenti, fino a cadere in un così grande baratro di nequizia e di perdizione.
Meditando sulla loro misera sorte, bisogna esclamare con le parole della Scrittura: "Molti giudizi di Dio sono un abisso".
D'altra parte, Venerabili Fratelli, potete Voi stessi comprendere quale sia il Nostro animo e quanta intima sofferenza Ci abbia colpiti per una così atroce ferita inflitta alla Chiesa Cattolica. Ci rattristiamo, anzi gemiamo nell'intimo del cuore, che tante anime redente dal Sangue di Cristo siano in pericolo per quanto attiene alla loro eterna salvezza.
Ci addoloriamo che per mezzo di Vescovi traditori sia stata violata la fedeltà promessa in precedenza alla Chiesa Cattolica; Ci rattristiamo che sia stato così malvagiamente disprezzato quel sacro carattere del quale erano stati insigniti per l'autorità di questa Sede Apostolica.
Siamo ansiosamente solleciti e preoccupati per tutti i diletti figli di quella gente, che perseverarono con fermezza nel vincolo con la Comunione Cattolica, per nulla illusi dalle false arti, né atterriti dalle minacce, né sedotti dal cattivo esempio.
È ben noto quali gravi danni siano loro conseguiti dalla defezione degli altri e quanti ancora dovranno sopportare per la loro costanza nella santa unione.
Potessimo Noi consolarli da vicino con la Nostra paterna esortazione e impartire loro qualche grazia spirituale per confermarli nella fede!
Frattanto, memori dell'ufficio che esercitiamo e che a Noi - come al profeta - è stato imposto dall'alto, ascoltiamo: "Grida, non cessare; alza la tua voce come tromba: annunzia al mio popolo le loro scelleratezze e alla casa di Giacobbe i loro peccati".
Da questo fastigio del supremo apostolato, al cospetto di tutto l'orbe cristiano, denunciamo incessantemente la defezione dei Ruteni e soprattutto dei Vescovi, e condanniamo l'ingiuria inferta alla Chiesa Cattolica con tale indegna azione.
E poiché facciamo le veci in terra di "Colui che è ricco di misericordia, ed ha pensieri di pace e non di afflizione", anzi di "Colui che è venuto a cercare ciò che era perduto per farlo salvo"; allo scopo di non venir meno alla carità apostolica verso di essi, esortiamo caldamente ciascuno di loro a considerare da quale altezza sono caduti e in quali formidabili pene sono incorsi, secondo i Sacri Canoni, affinché comprendano per quale via si sono temerariamente messi, dimenticando così la loro eterna salvezza; temano il Principe dei Pastori che richiederà dalle loro mani il sangue delle pecore disperse; e salutarmente colpiti dalla attesa di un terribile giudizio, ritornino sulla via della giustizia e della verità, dalla quale si allontanarono, e riportino a salvezza se stessi e il gregge miseramente disperso.
Dopo tutto questo, Venerabili Fratelli, non possiamo assolutamente dissimulare che ancor più si aggrava il Nostro dolore per le condizioni del Cattolicesimo nei vastissimi territori dell'Impero Russo.
Sappiamo quanto sia oppressa da angustie, in quel paese, la Nostra Santissima Religione.
Per liberarla da esse non abbiamo tralasciato di spendere ogni opera della Nostra pastorale sollecitudine, e non risparmieremo anche per l'avvenire ogni premura presso quel potentissimo Imperatore, sempre nella speranza che, per la sua equità e per il suo animo eccelso, voglia benevolmente accogliere le Nostre richieste e i Nostri desideri.
A questo scopo, con preghiera unanime "andiamo con fiducia al trono della grazia, al Padre delle misericordie e al Dio di ogni consolazione" affinché guardi benigno alla sua eredità, consoli con l'aiuto opportuno la Chiesa, sposa che piange amaramente la disgrazia dei suoi figli, e largisca con clemenza, fra tante avversità, la serenità così a lungo desiderata.
Gregorio XVI