14 maggio 1953
Coloro i quali stimano che il Cristianesimo sia causa di tedio e di tristezza, dovrebbero esser presenti ad una delle tante Udienze, che si sono andate moltiplicando in questi ultimi tempi, fino a raggiungere quasi il ritmo dell'Anno Santo.
Noi stessi torniamo sempre con letizia in mezzo a queste moltitudini devote, che Ci chiedono una parola di conforto e di benedizione.
Ed eccoCi oggi a dare il benvenuto a migliaia di lavoratori prevalentemente romani, a Noi perciò doppiamente cari, persuasi tutti che, accogliendoli in questa insigne Basilica, Noi avremmo manifestato anche a loro tenero affetto, simile a quello che nutriva e nutre per essi Gesù, il divino Lavoratore di Nazareth.
Diletti figli!
Oggi la Chiesa commemora l'Ascensione di Cristo al cielo.
Dal giorno di Pasqua la sacra Liturgia è stata tutto un prorompere di melodie e di armonie festose, in cui l'Alleluia era sempre la nota dominante, ripetuta da ogni anima, da ogni coro di anime.
Se però oggi continuano i canti di gioia e di gloria, non manca tuttavia qualche nota di rattenuta mestizia.
Gesù lascia i discepoli e sale al cielo; manderà lo Spirito Santo; intanto Egli non è più in mezzo a loro vivo e visibile.
Ma mentre gli Apostoli guardano Gesù che si eleva e scompare dietro la nube, ecco apparire due angeli in bianche vesti, che dicono loro: « O uomini di Galilea, che cosa state guardando in cielo? » ( At 1,11 ).
Essi, cioè, invitano gli Apostoli a non tenere lo sguardo fisso inutilmente in alto; li aspetta ora la terra, dove è il cammino che li porterà alla mèta, dove è la vigna che dovranno coltivare, dove è il campo delle loro pacifiche lotte.
Un giorno, sì, vedranno Gesù tornare dal cielo con grande potenza e maestà ( cfr. Mt 24,30 ).
Ma il suono di queste parole ricorda un'altra domanda, che avete chi sa quante volte udita in senso completamente opposto: « O uomini, perchè state a guardare il cielo?
Il paradiso non c'è; sarebbe quindi vano sperare di raggiungerlo.
Non vi è Dio; l'anima non è immortale.
Guardate dunque piuttosto la terra coi suoi problemi; studiatevi di trovare qui la loro soluzione.
O uomini, non guardate il cielo; e se qualcuno vuole il paradiso, procuri di formarselo quaggiù, con ogni mezzo ».
Naturalmente queste parole non sono pronunciate da un'unica voce.
Però a dirle è sempre lo stesso nemico, unico e multiforme, che sino alla fine dei secoli tenterà di rompere il fronte del bene, per seminarvi distruzione e morte.
Nè vengono sempre pronunciate così brutalmente.
Infatti, quando sia utile, lo spirito delle tenebre sa vestirsi anche da angelo di luce.
Allora, secondo i luoghi, le circostanze, lo stato d'animo di chi ascolta, egli muta tono e linguaggio; ma la sostanza del discorso rimane sempre la stessa: « Uomini, non guardate il cielo; pensate soltanto alla terra ».
Questa parola, che ha mosso e muove persone delle più diverse condizioni sociali, è stata per molti decenni, ed è oggi ancora, l'arma di assalto più pericolosa e micidiale per le anime di tanti lavoratori, protagonisti anch'essi nel dramma del mondo moderno.
Oggi molti di essi hanno dimenticato il cielo e si ostinano a volgersi soltanto alla terra, chiedendo a questa di trasformarsi in paradiso, dove nulla manchi, dove il cuore umano senta quietarsi le ansie e colmarsi il vuoto che lo angoscia.
In fatto, però, questo paradiso è apparso sempre meno conseguibile sulla terra.
Da una parte, uomini in possesso di tutti gli agi della ricchezza, non hanno con ciò acquistato la felicità da loro agognata, e sono spesso privi anche del minimo di serenità e di pace.
Dall'altra, coloro che vivono senza Dio, pronti forse soltanto a bestemmiarlo e a maledirlo, e destituiti dei supremi conforti che soltanto la fede soprannaturale può dare nelle prove più dolorose, gemono in un tormento d'inquietudine e di rivolta.
Diletti figli, carissimi lavoratori!
La giornata di oggi è stata quest'anno ben opportunamente prescelta per la consueta commemorazione della Rerum novarum.
Ed è notevole che le idee ispirate dalla grande festività odierna coincidano in qualche modo con gl'insegnamenti contenuti nella memorabile Enciclica del Sommo Pontefice Leone XIII di s. m., come il pensiero fondamentale della Chiesa sulla questione operaia.
Ma - domanderà forse qualcuno - non ha Egli allora diretto lo sguardo di tutti i credenti, di tutti gli uomini retti, non precisamente verso il cielo, quanto verso la vita presente, verso il triste stato dei salariati di quel tempo, in mezzo ad un industrialismo ancora assai disordinato e senza freno?
Non ha Egli richiesto energicamente in nome di Cristo le riforme, il miglioramento di condizioni ed istituzioni terrene, e indirizzato ai proprietari dei mezzi di produzione e ai capi delle imprese quella ammonizione, degna di essere anche oggi ascoltata, « che nè le leggi divine né le umane permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gl'infelici e trafficare sulla miseria altrui »?
Non ha quel sapientissimo Pontefice precisamente congiunto la vera vita cristiana col retto ordine di questo mondo, quando, riprendendo le parole di S. Tommaso d'Aquino, confermava nella Rerum novarum che l'uso dei beni temporali « è necessario all'esercizio della virtù », e quindi per condurre sulla terra una vita cristiana degna dell'uomo?
Si; così è.
Mentre Leone XIII lanciava il suo grido di verità e di giustizia nella questione operaia, voleva che gli uomini, e particolarmente i lavoratori, stessero con ambedue i piedi sulla terra.
Quaggiù essi dovevano, come cristiani, occuparsi del vero ordine.
Tuttavia l'uomo, creato e salvato da Dio, non può avere i due piedi sulla terra, senza tenere lo sguardo volto verso Dio, verso il vero fine della vita umana, la unione con Dio nel cielo, là ove soltanto si compie definitivamente ogni ordine ed ogni giustizia.
Perciò gli uomini, che nel loro pensiero e nella loro azione si danno tutti alla terra o che addirittura negano la patria celeste, non hanno una solida base nemmeno in questo mondo, anche se esteriormente sembrino possederla o che essi stessi vantino il loro preteso realismo.
Un vero ordine umano quaggiù non può essere perfetto nè perfettibile, se non s'indirizza verso l'al di là.
È questa una idea essenziale della Rerum novarum: Non è possibile ( vi si legge ) intendere e valutare a dovere le cose terrene, se l'animo non si eleva alla contemplazione di un'altra vita, ossia all'eterna, senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente dileguasi, ed anzi tutto l'universo diviene un mistero inesplicabile ».
S'ingannano dunque quei cattolici, promotori di un nuovo ordine sociale, i quali sostengono: innanzi tutto la riforma sociale, poi si penserà alla vita religiosa e morale dei singoli e della società.
Non si può infatti separare la prima cosa dalla seconda, perchè non si può disunire questo mondo dall'altro, nè spezzare in due l'uomo che è un tutto vivente.
Leone XIII, il grande avvocato dei lavoratori cristiani, ha loro con tutta chiarezza indicato la via, quella di un genuino cristianesimo.
Tuttavia nella Rerum novarum non solamente la restaurazione dell'ordine sociale nel mondo è intimamente congiunta col fine trascendente dell'uomo, ma anche la riforma delle reciproche relazioni fra le persone dedite all'attività economica, la cura dei rapporti umani quotidiani e concreti fra datori di lavoro ed operai, fra capi e dipendenti nelle imprese.
Immediatamente prima dei passi testè citati ed in stretta connessione con essi, l'Enciclica insegna che la Chiesa non solo vuole un ordine giusto nella economia, ma « mira più in alto; a riavvicinare il più possibile le due classi e a farle amiche ».
E quale ne è il preciso e determinante motivo?
La eguale dignità umana di tutti, la quale alla sua volta deriva intieramente dal fine trascendente a tutti comune.
Di fronte a questo fine e alla comune patria nel cielo tutte le altre differenze fra gli uomini rimangono di una importanza secondaria.
Leone XIII scrive espressamente: « Che tu abbia in abbondanza ricchezze e altri beni terreni, o che ne sii privo, ciò non importa nulla per la felicità eterna; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è quello che sommamente importa ».
Quando la vera dignità umana e il destino trascendente di tutti gli uomini sono realmente vissuti giorno per giorno, anche l'impresa diviene quella stretta comunanza nel lavoro che la Rerum novarum desidera.
Allora gli uni tratteranno gli altri con riguardo nelle parole e negli atti;
faciliteranno loro il lavoro e lo stimeranno, anche se minimo;
si studieranno di accordar loro quella funzione, che meglio corrisponde alle capacità e al senso di responsabilità di ciascuno.
Si vede così che già prima dei nostri tempi Leone XIII e la Chiesa hanno segnalato la grande importanza della cura delle umane relazioni nella impresa.
In alcuni circoli si derisero allora tali idee e desideri, come se non fossero altro che pii sogni.
In quale stima si tenevano da loro la dignità umana del lavoratore nella economia e nella produzione?
Contava per essi soltanto la misurabile forza di lavoro e il modo di applicarla col maggior possibile rendimento alle energie della natura.
Oggi invece si ha cura di promuovere le relazioni umane nella produzione, anche se spesso non per motivi molto nobili o con metodi più teorici che pratici.
Ma ancora una volta: si sarebbero evitati gli errori, se con la saggezza di Leone XIII, con la saggezza della Chiesa, si fosse preso il lavoratore per quel che è realmente: Fratello di Cristo e coerede del cielo.
È quindi penoso il vedere come oggi alcuni cattolici rifuggano dall'introdurre nelle imprese le mirabile ricchezze dell'umanesimo cristiano e lo sostituiscano con una forma sbiadita di umanesimo distaccato dalla fede cristiana.
Essi scambiano così la ricchezza con la povertà, l'autentico col succedaneo.
Finalmente l'Autore della Rerum novarum era altresì fermamente convinto che l'ordinamento della vita all'ultimo fine, il cielo, e quindi la pratica della vita cristiana, dove essa è e si mantiene veramente tale, « contribuisce anche per sè alla prosperità esteriore ».
Per quale motivo?
Perchè essa conduce a quelle virtù, che preservano l'uomo dalla stima eccessiva delle cose di questo mondo, e specialmente a coloro che godono dei beni di fortuna danno la fermezza in ciò che a buon diritto fu chiamata l'« aurea mediocritas »: l'aurea moderazione.
In tal modo la giusta misura, l'armonia vera e la genuina stabilità favoriscono il progresso della società umana, progresso conforme alla natura e perciò accetto a Dio.
Oggi la produzione e il consumo dei beni economici si effettuano in una società, che non sa dare al progresso né misura, nè armonia, nè stabilità.
Ecco la fonte, donde deriva - forse anche più che dalle circostanze esteriori del nostro tempo, - quel senso d'incertezza, quella mancanza di sicurezza, che si nota nella economia moderna; incertezza che nemmeno le speranze dell'avvenire possono rendere più tollerabile.
Invano si addurrebbero all'apposto le possibilità della tecnica e della organizzazione, che fanno balenare
la promessa di produrre sempre più e a minor costo;
la previsione di un futuro sempre crescente tenore di vita;
la quantità dei bisogni materiali, che gli uomini possono ancora aumentare nel mondo intiero.
Invano, abbiamo detto; poichè invece quanto più esclusivamente e incessante mente si rafforza la tendenza al consumo, tanto più l'economia cessa di avere per oggetto l'uomo reale e normale, l'uomo che ordina e commisura le esigenze della vita terrena al suo ultimo fine e alla legge di Dio.
Se - come se ne dipinge un quadro promettitore - la macchina fosse destinata a diminuire sempre più e, per così dire, fino all'estremo il tempo del lavoro e della fatica, il tempo libero dovrebbe anch'esso necessariamente perdere il suo senso naturale di distensione e di riposo tra due momenti di attività.
Questo diverrebbe il primo elemento della vita e l'occasione di nuovi e spesso costosi bisogni, come, d'altra parte, una sorgente di guadagno per quelli che li soddisfano.
Sarebbe così sconvolto il genuino rapporto del bisogno reale e normale con le esigenze artificialmente suscitate.
I redditi necessariamente aumenterebbero, ma ben presto non sarebbero più sufficienti.
La mancanza di sicurezza rimarrebbe, perchè l'economia sociale nascerebbe da una umanità e supporrebbe una umanità sviata dalla retta e giusta misura del suo essere.
Leone XIII ha invece nella Rerum novarum dinanzi allo sguardo l'uomo sano, che conduce una vita conforme ai principi cristiani.
Soltanto se lavora guidata da lui e per lui, la tecnica moderna effettua un progresso armonico e durevole, di cui anche il benessere temporale è parte integrante.
Perciò Egli nella sua Enciclica insiste fortemente sull'osservanza dei giorni festivi.
Per Lui essa è un segno che rivela se e fino a qual punto l'uomo sano e la vera armonia del progresso nella società umana ancora sussistono.
Egli vede chiaro e profondo, quando mette in rapporto la questione operaia col riposo festivo e la santificazione della domenica:
il benessere esterno, precisamente del lavoratore, non può attendersi da una tecnica della produzione, che esige regolarmente dal lavoratore e dalla sua famiglia il sacrificio della domenica;
può ancor meno provenire da una condizione di cose, in cui la domenica non fosse, come Iddio la vuole, un giorno di quiete e di ristoro, in un clima di elevata pietà.
La tecnica, la economia e la società manifestano il loro grado di sanità morale dal modo come favoriscono o contrariano la santificazione della domenica.
Non vi è dunque, dubbio che l'affermazione del destino trascendente dell'uomo costituisce il cuore della dottrina di Leone XIII sulla questione operaia.
Tocca a voi, diletti figli, di fare costantemente nei singoli casi le pratiche applicazioni, cui non abbiamo potuto che brevemente alludere.
Diletti figli!
Gesù disse un giorno che coloro i quali cercheranno in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia, avranno in soprappiù tutto il resto.
A quella parte della umanità, che vive quasi senza speranza sulla terra perché ha voluto disinteressarsi del regno di Dio, occorre ripetere con forza e con dolcezza che vi è, sì, il sistema per risolvere i problemi anche umani: cercare nuovamente Dio, guardare nuovamente il cielo!