17 giugno 1967
L'incontro con i cari figli ben può essere considerato - incomincia Paolo VI - quale provvido momento di grazia e di meditazione, giacché gli avvenimenti da essi rievocati rappresentano anche per il Papa un motivo di speciale impegno.
A ciò fa ripensare quanto Sua Santità ha testé ascoltato.
Anzitutto il ricordo d'un grande, doloroso periodo, con i drammi in esso vissuti e sofferti: un'ora angosciosa per tante vite.
Il Santo Padre l'ha presente dinnanzi allo spirito e vuole ora ricordare anche alcune persone, che con Lui trattarono per una soluzione umana e pratica dei gravi problemi sorti dal fenomeno dolorosissimo dei profughi.
Accanto ai nomi di Oscar Sinigaglia e di Raoul Romoli vanno rievocati quelli di Monsignor Radossi, Arcivescovo di Spoleto, di Monsignor Camozza, Arcivescovo di Pisa, di Padre Orlini, dei Minori Conventuali, che, all'indomani del tremendo conflitto mondiale, sovente conferirono con Monsignor Montini, collaboratore del Sommo Pontefice Pio XII, sui problemi di tante famiglie costrette a lasciare la propria residenza.
E con le persone è giusto onorare altresì le grandi opere compiute a vantaggio degli stessi profughi.
Assai spesso molti sono portati al pessimismo e ad essere i primi ad attenuare il bene effettuato intorno a sé.
Invece reca grande sollievo il considerare i comuni sforzi associati per un nobile fine; il concorso sensibile dato dalle pubbliche autorità, che hanno profuso grandi mezzi ed hanno saputo escogitare istituzioni e lavori per chi aveva bisogno di tutto.
Va dunque preso con spirito di serenità quel che ci offre questo nostro tempo, pur se accompagnato da tante amarezze; e perciò sentiamo tutti il dovere di benedire e ringraziare il Signore per tante imprese positive, organiche, utili e benefiche.
Un'altra considerazione di sano ottimismo si presenta all'intelletto ed al cuore.
Il forzato allontanamento dalla terra dei propri padri ha dato origine all'inserimento stabile nel Paese, a cui gli stessi profughi appartengono.
Al di sopra perciò del semplice evento materiale ed economico, vanno studiati alcuni alti elementi spirituali.
Sono essi che, a un certo punto, si sovrappongono e suscitano una realtà consolante:
il movimento solidale che ci fa tutti fratelli;
l'accresciuto amore per la patria comune;
il più fervente spirito cristiano, il quale fa scorgere l'immagine di Cristo in chiunque si presenti a noi, sofferente ed invocante un aiuto.
Il Santo Padre è lieto di rilevare queste note superiori in tutto il lavoro compiuto per i profughi.
Si tratta d'una vera apologia della buona spiritualità che ha guidato, e tuttora dirige, un'opera egregia verso stupende e concrete imprese.
Una terza riflessione ancora - e non sembri peregrina: è molto importante - può essere feconda di nobili intenti applicabili pure ad altre circostanze della vita.
Si tratta anzitutto di un pensiero molto umano e pur genuinamente cristiano, giacché il Signore se ne è appropriato per compiere la sua economia di salvezza per il mondo.
È la fecondità del dolore.
Avete sofferto? Sì, molto.
Orbene, tale dolore che cosa ha prodotto?
Voi stessi lo dite: dal dolore è scaturita una sorgente di bontà, la bontà che l'Italia ha dimostrato.
L'intero Paese, infatti, vi è stato amico e, anche se non ha avuto tutto il tempo per esternare i migliori sentimenti, resta innegabile che ogni italiano, ogni connazionale vi ha dimostrato simpatia ed ha voluto partecipare alle vostre angustie.
Ed ecco l'Italia, oltremodo provata dalla guerra, ricevere proprio dalla vostra presenza dolorante un maggior impulso e conforto spirituale.
L'Italia è divenuta migliore appunto perché voi siete giunti quali ospiti carissimi in un Paese già sofferente e in ulteriori angustie per voi, poiché siete i figli prediletti.
Adunque il grande dolore dei profughi
non si è rinchiuso in se stesso;
non muove ad un pianto disperato;
non evita, sgomento, la realtà;
non si abbandona al pessimismo.
Fa sorgere, invece, nuove energie, le quali molto contribuiscono ad una integrazione anche materiale con il proprio Paese.
Vitali sono le opere derivate dal dolore.
Abbiamo, quindi, un giusto motivo per ringraziare il Signore anche delle sventure che Egli ha permesso in nostro bene.
Sembra un paradosso: eppure è un insegnamento della saggezza e della sapienza cristiana.
Esso ci ricorda, intanto, che tutti siamo poveri pellegrini durante la vita terrena, nella quale crediamo di rimanere in permanenza, di avere profonde radici.
Siamo, al contrario, dei viandanti spinti dal tempo e dalle vicende personali ed anche - come è il presente caso - dalla sventura che ha tolto le case ed ha allontanato dai luoghi natii.
Il dolore ci ricorda la provvisorietà della vita; e sarebbe anzi un cattivo maestro se non aggiungesse - ma lo dichiara esplicitamente - che questa provvisorietà
ha una direzione ultima, un fine, una speranza;
addita una patria suprema, verso cui ci dirigiamo;
possiede un aspetto ( diciamo pure la parola ) escatologico, tendente cioè ai fini ultimi segnati da Dio.
Il dolore ci insegna a ben muovere il passo verso le reali mete della nostra vita e dà a ciascuno di noi il modo di essere più amabili, più solidali, più fratelli: ci insegna a diventare « popolo ».
In che modo si misura la vera efficienza di un popolo?
Certo dalla sua coesione interna, per cui esso non è una folla amorfa senza relazioni profonde e consistenti, bensì costituisce un'unità spirituale, salda nei suoi fini, e soprattutto nei suoi sentimenti e nella sua concordia.
Orbene quando si prova questa coesione interiore di un popolo?
La si avverte soprattutto allorché qua o là insorgono tentativi di lacerarla; la si sente, in maniera evidente, nella sofferenza.
V'è perciò da ringraziare il Signore poiché quanto è avvenuto intorno ai profughi giuliani e dalmati ha appunto risvegliato il vincolo della fraternità più sentita.
Allorché si sono avuti come degli strappi ai tendini interiori dell'affetto, si è maggiormente avvertita la solidarietà nazionale ed è aumentato nel popolo il grado di dignità e di fiducia in se stesso, insieme così la certezza nei propri destini.
È qui il fondamento della nostra gratitudine al Signore.
Il grande Manzoni ha dichiarato che il Signore non ci dà sofferenze se non per prepararci godimenti maggiori.
Talvolta Iddio ci prova con mano che sembra assai pesante.
Ma il dolore - l'abbiamo visto - è fecondo.
Proprio il dolore viene assunto dal Divino Redentore per salvare le anime, per renderle buone ed associarle alla sua Croce.
O Signore - ripeteremo con fede convinta - sempre sia fatta la tua volontà!
Noi ritroveremo in questa adesione la forza per compiere bene il nostro cammino.
Iddio voglia - conclude il Santo Padre nell'accomiatarsi da quei carissimi figli - che il resto della vostra strada sul suolo italiano sia ottimo, ordinato, ricco di soddisfazioni: soprattutto sia benedetto nei vostri figliuoli, mentre il Padre delle anime imparte di gran cuore a voi tutti ed a quanti qui rappresentate la Sua Benedizione Apostolica.