20 dicembre 1990
Signori cardinali, venerati fratelli della Curia Romana!
1. Mentre il periodo di Avvento dell'anno di grazia 1990 sta volgendo al termine, avvertiamo prossima ormai nella celebrazione liturgica della Chiesa l'apparizione della benignità e dell'amore per gli uomini di Dio, salvatore nostro ( cf. Tt 3,4 ).
Il Natale è vicino con i suoi doni di luce e di gioia e noi ci disponiamo a riviverlo in atteggiamento di grata esultanza.
In esso celebriamo il mistero della salvezza: il mistero, cioè, di Dio che ha voluto farsi incontro all'uomo per colmarlo della sua misericordia e bontà.
Dalla notte santa si diffonde sull'intera umanità il chiarore di una luce nuova, che dà senso pieno alla sua stessa esistenza contrassegnandola con prove di condiscendenza ineffabile.
Il cammino degli uomini porta i segni di questa costante, amorevole presenza.
Il nostro pensiero va, in particolare, a un avvenimento che ci tocca più da vicino per il significato che ha avuto e ha per la Chiesa del nostro tempo.
25 anni or sono, proprio in questi giorni si concludeva il Concilio Vaticano II.
Evento di portata storica, l'Assise conciliare ha certamente segnato una singolare e provvidenziale tappa nel cammino della Comunità cristiana.
La Chiesa, mossa dallo Spirito Santo, è andata incontro con coraggio all'uomo del nostro tempo; lo ha quasi preso per mano per condurlo verso una più piena comprensione e attuazione del messaggio evangelico.
Essa ha sentito il bisogno di parlare all'umanità di oggi con un linguaggio più facilmente comprensibile, senza tuttavia venire meno alle esigenze della verità.
La Chiesa ha avvertito, soprattutto, l'urgenza di un profondo rinnovamento, perché sul suo volto risplendesse sempre più chiaramente la luce di Cristo.
E questo incessante sforzo di rinnovamento, nel senso soprattutto del richiamo al Vangelo e alla conversione costante, continua ancor oggi a guidare i suoi passi non senza difficoltà e fatica: ma si tratta, ne sono certo, della fatica della crescita.
In questi anni, infatti, la Chiesa è cresciuta sia nella sua coscienza missionaria che nel suo impegno di conversione e di rinnovamento.
Mentre ringrazio con voi il Signore per aver voluto segnare con così grande abbondanza di doni spirituali il nostro secolo e in particolare quest'ultima sua parte, ricordo con venerazione i miei predecessori Giovanni XXIII e Paolo VI, che del Concilio furono ispiratori e principali artefici.
Il XXI Concilio Ecumenico - osservava Giovanni XXIII nel discorso di apertura, l'11 ottobre 1962 - mira a "trasmettere integra, senza attenuazioni o travisamenti, la dottrina cattolica che, nonostante difficoltà e contrasti, è divenuta patrimonio comune degli uomini …
Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera che la nostra età esige, proseguendo così il cammino che la Chiesa compie da quasi venti secoli".
Ritorno oggi volentieri su queste parole, perché esprimono significativamente lo spirito del Concilio e del periodo postconciliare, guidato dalla lungimirante prudenza del Papa Paolo VI.
Egli, nel discorso d'apertura della quarta e ultima Sessione, diceva: "Il Concilio offre alla Chiesa, a noi specialmente, la visione panoramica del mondo …
Mentre altre correnti di pensiero e di azione proclamano ben diversi principi per costruire le civiltà degli uomini, la potenza, la ricchezza, la scienza, la lotta, l'interesse, o altro, la Chiesa proclama l'amore.
Il Concilio è un atto solenne di amore per l'umanità".
La Chiesa non ha cessato di proseguire il suo itinerario di salvezza fra gli uomini: essa si sente chiamata - quale popolo di Dio - a crescere nella comunione per servire gli uomini e portarli così alla perfetta unità nel Cristo loro Redentore.
Comunione: è, questa, certamente una nozione-chiave nell'ecclesiologia del Vaticano II e oggi, a 25 anni dalla sua conclusione, sembra doveroso far convergere ancora su di essa la nostra attenzione.
La "koinonia" è una dimensione che investe la costituzione stessa della Chiesa e riveste ogni sua espressione: dalla confessione della fede alla testimonianza della prassi, dalla trasmissione della dottrina all'articolazione delle strutture.
A ragione, perciò, su di essa insiste l'insegnamento del Concilio Vaticano II, facendone l'idea ispiratrice e l'asse portante dei suoi documenti.
Si tratta di una comunione teologale e trinitaria di ogni fedele con il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, che si riversa effusivamente nella comunione dei credenti tra di loro, raccogliendoli in un popolo: "de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata" ( S. Cypriani, De oratione dominica, 23 ), con un'essenziale dimensione visibile e sociale.
La Chiesa appare così come l'universale comunione della carità ( cf. Lumen gentium, 23 ), fondata nella fede, nei sacramenti e nell'ordine gerarchico, nella quale pastori e fedeli si alimentano personalmente e comunitariamente alle sorgenti della grazia, obbedendo allo Spirito del Signore, che è Spirito di verità e di amore.
Una istituzione che, all'interno della Chiesa si dimostra validissimo strumento di comunione, è senza dubbio quella dei Sinodi.
In essi, infatti, come il nome stesso significa, si raccolgono nell'unità di un comune cammino le energie e i passi, la fede e la speranza di tutti grazie al vincolo della carità.
Dai Sinodi promanano segni concreti di partecipazione alle aspirazioni e alle difficoltà di ciascuno, attraverso la comunicazione e lo scambio, nella reciproca fiducia di essere ascoltati e accolti in vista del bene della Chiesa, che è bene di tutti.
I Sinodi si propongono così come segni di comunione ecclesiale, poiché mentre radunano i vari membri della Chiesa, dirigono le loro attenzioni e le premure alle esigenze e alle mete generali e particolari dell'evangelizzazione e della carità.
Nel riandare col pensiero all'evento conciliare di 25 anni or sono, non possiamo non ricordare con commossa gratitudine verso il Signore della Chiesa un'istituzione, sorta nel clima della celebrazione conciliare, che si dimostrò immediatamente come speciale espressione e strumento di ecclesiale comunione.
Intendo alludere al Sinodo dei vescovi.
Quando il 15 settembre 1965 il mio predecessore di v. m., il Papa Paolo VI, lo istituì col motu proprio "Apostolica Sollicitudo", il Concilio Vaticano II non era ancora terminato.
Alla prima sorpresa per la novità subentrò ben presto la consapevolezza di un avvenimento straordinariamente importante per il rafforzamento di relazioni di rinnovata e acuita sensibilità ecclesiale.
La nuova istituzione apparve come un segno manifestativo e contemporaneamente premonitore, specialmente per i pastori della Chiesa, di una stagione fertile di frutti di condivisione e di amore, a reciproco sostegno nel portare i pesi gli uni degli altri ( cf. Gal 6,2 ).
È ciò che traspare, del resto, dalle parole stesse del Papa Paolo VI, che vedeva nella "cum sacris pastoribus coniunctio" lo strumento principale per ottenere i migliori frutti del Sinodo, da lui descritti come "praesentiae solacium, prudentiae ac rerum usus auxilium, consilii munimentum, auctoritatis suffragium", a opera dei medesimi pastori.
Nel parlare della istituzione del Sinodo dei vescovi, torna spontaneamente alla memoria la figura di colui che fu chiamato ad esserne il primo segretario generale, il card. Wladislaw Rubin, recentemente chiamato alla casa del Padre per godere della perfetta comunione con lui nella gioia del cielo.
A noi resta il suo esempio di generosa e instancabile dedizione alla Chiesa nella "caritas pastoralis", e di ciò siamo a lui grati nel ricordo e nella preghiera.
I vescovi radunati in Sinodo "cum Petro et sub Petro", rendono manifesta e operante quella "coniunctio", che costituisce la base teologica e la giustificazione ecclesiale e pastorale del riunirsi sinodalmente.
In questo modo appare chiaro come il Sinodo dei vescovi sia un'espressione efficace dell'affetto collegiale, inteso come sollecitudine comune per la Chiesa universale, come comune servizio svolto nella "caritas pastoralis", conformemente alla manifesta volontà del Signore.
Certo, l'autorità e l'oggettiva configurazione del Sinodo differiscono sostanzialmente da quelle del Concilio per costituzione, per rappresentatività, per capacità potestativa, per qualità e ampiezza di magistero e quindi per efficacia esecutiva.
Infatti la collegialità episcopale in senso proprio o stretto appartiene soltanto all'intero collegio episcopale, il quale come soggetto teologico è indivisibile.
Tuttavia il Sinodo si afferma come un modo espressivo e operativo nell'esercizio pastorale della "sollicitudo omnium ecclesiarum" propria di ogni vescovo, e del corrispondente "affectus collegialis" dei vescovi tra loro.
La validità del Sinodo, dunque, non può derivare da presunte superiori prerogative, ma si basa sulle tipiche proprietà sinodali, che rispondono ai nomi di
"collegialis affectus",
"collegialis effectus",
"pastoralis coniunctio",
"caritas pastoralis".
Quando si parla di collegialità effettiva e collegialità affettiva, all'interno del Sinodo, non si intende certamente introdurre o sottintendere una giuridica contrapposizione di termini quanto piuttosto indicare, in modo coerente con la natura del Sinodo, quell'inconfondibile disposizione interiore, che consiste nel mantenere vivo lo spirito collegiale nell'esercizio concreto della "caritas pastoralis".
Prende forza così anche il vitale rapporto esistente tra la "sollicitudo omnium ecclesiarum" di ogni vescovo e il primato petrino, come già ebbi modo di dichiarare in passato: "Nel mistero della Chiesa tutti gli elementi trovano il loro posto e la loro funzione.
E così la funzione del vescovo di Roma lo inserisce profondamente nel corpo dei vescovi, quale centro e cardine della comunione episcopale; il suo primato, che è un servizio per il bene di tutta la Chiesa, lo pone in rapporto di unione e collaborazione più intensa.
Il Sinodo stesso fa risaltare il nesso intimo tra la collegialità e il primato: l'incarico del successore di Pietro è anche servizio alla collegialità dei vescovi e per converso la collegialità effettiva e affettiva dei vescovi è un importante aiuto al servizio primaziale petrino" ( 30 aprile 1983 ).
Il Sinodo, dunque, è un'espressione peculiare della collegialità dei vescovi col Papa.
L'esperienza di questi 25 anni è servita a meglio precisarne le caratteristiche.
Nel rapporto col successore di Pietro il Sinodo trova non soltanto la garanzia dell'unità sia all'origine che nello svolgimento del suo lavoro, ma anche il fondamento della sua autorevolezza.
Nella prospettiva di questa relazione del Sinodo con il vescovo di Roma, riceve il suo senso specifico anche il rapporto tra lo stesso Sinodo e la Curia Romana.
Com'è noto, la Curia costituisce lo strumento, per mezzo del quale il Papa svolge il suo ministero nella Chiesa, esercitando le prerogative sue proprie di pastore universale.
Non ha quindi fondamento un'interpretazione della Curia che volesse presentarla come un soggetto antitetico rispetto al Sinodo.
Né sarebbe legittimo ipotizzare un atteggiamento concorrenziale tra le due istanze ecclesiali.
Il principio di comunione e di servizio, nel contesto della "caritas pastoralis", fornisce il criterio per un'impostazione corretta dei mutui rapporti dal punto di vista teologico, ecclesiale e pastorale.
La "praesidentia caritatis", che appartiene al vescovo di Roma, rappresenta l'ambito vitale, nel quale si compongono in unità le sollecitudini dei Pastori uniti a Pietro.
Sul fondamento di comunione, che sostiene la Chiesa nella sua intima costituzione e nelle sue più varie espressioni concrete e storiche, si costruisce l'esuberante correlazione di mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiese particolari.
In forza di questa costitutiva relazione si stabiliscono tra le singole parti "vincoli di intima comunione circa le ricchezze spirituali", mentre la "varietà di Chiese locali fra loro concordi, dimostra con maggiore evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa" ( Lumen gentium, 13 ).
Per questa unità la Chiesa universale può sentirsi arricchita dei tesori delle Chiese particolari e le Chiese particolari gloriarsi dell'appartenenza alla Chiesa universale, la quale, appunto, è veramente presente e agisce in esse ( cf. Christus Dominus, 11 ).
Tale reciprocità, mentre esprime e preserva le rispettive dignità, illustra adeguatamente la figura della Chiesa, una e universale, che nelle Chiese particolari trova insieme e la propria immagine e un suo luogo di espressione, essendo le Chiese particolari formate "ad immagine della Chiesa universale, e in esse e da esse è costituita l'una e l'unica Chiesa cattolica" ( Lumen gentium, 23 ).
Le Chiese particolari a loro volta sono "ex et in Ecclesia universali": da questa e in questa, infatti, hanno la loro ecclesialità.
La Chiesa particolare è "Chiesa" proprio perché è presenza particolare della Chiesa universale.
Così, da una parte, la Chiesa universale trova la sua esistenza concreta in ogni Chiesa particolare in cui essa è presente e operante e, dall'altra, la Chiesa particolare non esaurisce la totalità del mistero della Chiesa, dato che alcuni suoi elementi costitutivi non sono deducibili dalla pura analisi della Chiesa particolare stessa.
Tali elementi sono l'ufficio del successore di Pietro e lo stesso collegio episcopale.
E in questo ambito l'istituzione sinodale si pone come un importante luogo di incontro di tutta la pluriforme ricchezza dei doni e degli scambi, fino a quel vertice che è costituito dalla celebrazione delle assemblee ordinarie del Sinodo dei vescovi.
In esse confluiscono nel modo più ampio possibile le istanze della Chiesa universale riflesse dalle diverse Chiese particolari.
I pastori di queste, con la loro personale responsabilità pastorale, si riuniscono nell'effettivo esercizio dell'affetto collegiale, in spirito di comune servizio per tutta la Chiesa e per tutte le Chiese ad essi affidate.
In questo dinamismo entrano, perciò, le Chiese particolari come efficaci soggetti di comunione.
In tal senso, nell'ambito del Sinodo, mediante la "coniunctio pastorum", anche fisicamente visibile e attiva, si manifesta e celebra la "communio ecclesiarum".
È spontaneo qui ricordare la celebrazione del recente Sinodo sulla formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali: in esso la comunione delle Chiese ha conosciuto segni particolari di intensità e di unanimità, specialmente in riferimento al fatto del tutto nuovo della partecipazione dei vescovi dell'Europa centrale e orientale, sia di rito latino che di rito orientale.
È stato un avvenimento che ha suscitato nell'animo di tutti lode e ringraziamento al Signore della storia per le "grandi cose" che egli continua a operare nella sua Chiesa.
Diverso si presenta il discorso, se ci si riferisce ad altre forme di attività sinodale, come sono le assemblee speciali del Sinodo dei vescovi o i Sinodi diocesani.
In questo tempo si stanno compiendo alacremente i preparativi per ben due assemblee speciali del Sinodo dei vescovi, che, a Dio piacendo, celebreremo nel prossimo futuro.
Vicino è ormai il Sinodo per l'Europa, al quale prenderanno parte le Chiese del continente, portandovi, con le ricchezze della loro storia, prospettive, preoccupazioni, speranze, suscitate dai rivolgimenti storici verificatisi di recente.
È un evento importante, che ci si augura possa recare un efficace contributo all'opera di rievangelizzazione dell'Europa, assicurando l'afflusso di nuova linfa dalle antiche radici cristiane per un futuro di autentico progresso nel rispetto di ogni dimensione umana.
Il Sinodo speciale per l'Africa è anch'esso oggetto di attenta preparazione in vista dello sviluppo di quelle Chiese aperte al futuro della evangelizzazione e della testimonianza.
Né può dimenticarsi la speciale forma sinodale, avviata col Sinodo Particolare dei vescovi dei Paesi Bassi, il cui Consiglio è ancora operante, e che ha lo scopo di affrontare gli specifici problemi incontrati dalla Chiesa in quel territorio.
Nella tradizione della Chiesa acquistano, poi, un significato proprio i Sinodi delle Chiese Orientali, che sono sotto la direzione dei patriarchi o degli arcivescovi maggiori e possiedono speciali titoli di autorità pastorale ed ecclesiale.
Degni di attenzione sono, infine, i Sinodi diocesani, nei quali il vescovo, attuando una speciale forma di "communio" con i presbiteri, i religiosi e i fedeli laici, si rivolge alla Chiesa particolare per affrontare con la riflessione, la preghiera, la sollecitudine pastorale i problemi posti dalla proclamazione della fede e dalla testimonianza della carità nelle concrete situazioni del mondo d'oggi.
Così è del Sinodo di questa santa Chiesa di Roma, che "presiedendo" per volontà di Cristo "alla carità", è investita di una particolare responsabilità a motivo della testimonianza esemplare che deve offrire di fronte a tutto il popolo di Dio.
Venerati fratelli, anche l'istituzione sinodale, come ogni struttura ecclesiale, ha in definitiva la sola finalità di far echeggiare, in ogni angolo della terra e in ogni epoca della storia, la parola angelica risonata nella notte di Betlemme: "Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore che è il Cristo Signore" ( Lc 2,10-11 ).
In prossimità ormai del grande evento, che ha cambiato la storia del mondo, noi ci raccogliamo in ascolto di quell'annuncio, per rivivere nella fede la "grande gioia" della nascita del Salvatore.
Di quella gioia vogliono essere espressione anche gli auguri che fraternamente ci scambiamo per l'imminente Natale e per l'anno nuovo, che s'affaccia alle porte ricco di confortanti speranze, ma segnato anche da drammatiche incertezze.
Voglia il Signore allontanare dal mondo le nubi minacciose che ne ingombrano l'orizzonte e concedere alla Chiesa e all'umanità giustizia, concordia e pace.
Voglia egli riversare in particolare su di voi, che partecipate da vicino alle sollecitudini del successore di Pietro, l'abbondanza delle sue consolazioni.
Sono grato al cardinale decano delle affettuose parole con cui ha interpretato i voti augurali del Collegio e di tutti i presenti.
A lui, ai signori cardinali, e a voi, membri della Curia Romana, del Governatorato e del Vicariato di Roma, vada l'espressione della mia viva riconoscenza per la collaborazione che da ciascuno ricevo nell'adempimento del compito affidatomi.
Mi si consenta, in un momento di singolare comunione d'animi come questo, di rivolgere una speciale parola di gratitudine al card. Agostino Casaroli, che ha lasciato da poco l'ufficio di segretario di Stato dopo lunghi anni di totale dedizione al servizio della Sede apostolica.
Desidero sottolineare di lui, accanto alle ben note qualità di diplomatico lungimirante e saggio, le spiccate doti umane e sacerdotali - la fedeltà, la lealtà, la bontà - che me ne hanno resa preziosa la collaborazione e mi hanno fatto riconoscere in lui un autentico "uomo di Chiesa".
Porgo il mio augurio al successore, il pro-segretario di Stato mons. Angelo Sodano, come pure a quanti nel corso dell'anno che si chiude hanno assunto nuove responsabilità nella direzione di Dicasteri e Organismi della Santa Sede.
Con l'auspicio che il Natale del Signore, che ci apprestiamo a rivivere, accresca negli animi di tutti quella buona volontà che è la premessa della vera pace ( cf. Lc 2,14 ), a voi, ai vostri collaboratori e alle persone care imparto di cuore la mia benedizione.