Laborem exercens

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Il conflitto tra lavoro e capitale nella presente fase storica

13 Economismo e materialismo

Prima di tutto, alla luce di questa verità, si vede chiaramente che non si può separare il « capitale » dal lavoro, e che in nessun modo si può contrapporre il lavoro al capitale né il capitale al lavoro, né ancora meno - come si spiegherà più avanti - gli uomini concreti, che sono dietro a questi concetti, gli uni agli altri.

Retto, cioè conforme all'essenza stessa del problema; retto, cioè intrinsecamente vero e al tempo stesso moralmente legittimo, può essere quel sistema di lavoro che alle sue stesse basi supera l'antinomia tra lavoro e capitale, cercando di strutturarsi secondo il principio sopra esposto della sostanziale ed effettiva priorità del lavoro, della soggettività del lavoro umano e della sua efficiente partecipazione a tutto il processo di produzione, e ciò indipendentemente dalla natura delle prestazioni che sono eseguite dal lavoratore.

L'antinomia tra lavoro e capitale non ha la sua sorgente nella struttura dello stesso processo di produzione, e neppure in quella del processo economico.

In generale questo processo dimostra, infatti, la reciproca compenetrazione tra il lavoro e ciò che siamo abituati a chiamare il capitale; dimostra il loro legame indissolubile.

L'uomo, lavorando a qualsiasi banco di lavoro, sia esso relativamente primitivo oppure ultra-moderno, può rendersi conto facilmente che col suo lavoro entra in un duplice patrimonio, cioè nel patrimonio di ciò che è dato a tutti gli uomini nelle risorse della natura, e di ciò che gli altri hanno già in precedenza elaborato sulla base di queste risorse, prima di tutto sviluppando la tecnica, cioè formando un insieme di strumenti di lavoro sempre più perfetti: l'uomo, lavorando, al tempo stesso « subentra nel lavoro degli altri » ( Gv 4,38 ).

Accettiamo senza difficoltà una tale immagine del campo e del processo del lavoro umano, guidati sia dall'intelligenza sia dalla fede che attinge la luce dalla Parola di Dio.

È questa un'immagine coerente, teologica ed insieme umanistica.

L'uomo è in essa il « padrone » delle creature, che sono messe a sua disposizione nel mondo visibile.

Se nel processo del lavoro si scopre qualche dipendenza, questa è la dipendenza dal Datore di tutte le risorse della creazione, ed è a sua volta la dipendenza da altri uomini, da coloro al cui lavoro ed alle cui iniziative dobbiamo le già perfezionate e ampliate possibilità del nostro lavoro.

Di tutto ciò che nel processo di produzione costituisce un insieme di « cose », degli strumenti, del capitale, possiamo solo affermare che esso condiziona il lavoro dell'uomo; non possiamo, invece, affermare che esso costituisca quasi il « soggetto » anonimo che rende dipendente l'uomo e il suo lavoro.

La rottura di questa coerente immagine, nella quale è strettamente salvaguardato il principio del primato della persona sulle cose, si è compiuta nel pensiero umano, talvolta dopo un lungo periodo di incubazione nella vita pratica.

E si è compiuta in modo tale che il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto al capitale, e il capitale contrapposto al lavoro, quasi come due forze anonime, due fattori di produzione messi insieme nella stessa prospettiva « economistica ».

In tale impostazione del problema vi era l'errore fondamentale, che si può chiamare l'errore dell'economismo, se si considera il lavoro umano esclusivamente secondo la sua finalità economica.

Si può anche e si deve chiamare questo errore fondamentale del pensiero un errore del materialismo, in quanto l'economismo include, direttamente o indirettamente, la convinzione del primato e della superiorità di ciò che è materiale, mentre invece esso colloca ciò che è spirituale e personale ( l'operare dell'uomo, i valori morali e simili ), direttamente o indirettamente, in una posizione subordinata alla realtà materiale.

Questo non è ancora il materialismo teorico nel pieno senso della parola; però, è già certamente materialismo pratico, il quale, non tanto in virtù delle premesse derivanti dalla teoria materialistica, quanto in virtù di un determinato modo di valutare, quindi di una certa gerarchia dei beni, basata sulla immediata e maggiore attrattiva di ciò che è materiale, è giudicato capace di appagare i bisogni dell'uomo.

L'errore di pensare secondo le categorie dell'economismo è andato di pari passo col sorgere della filosofia materialistica, con lo sviluppo di questa filosofia dalla fase più elementare e comune ( chiamata anche materialismo volgare, perché pretende di ridurre la realtà spirituale ad un fenomeno superfluo ) alla fase del cosiddetto materialismo dialettico.

Sembra tuttavia che - nel quadro delle presenti riflessioni -, per il fondamentale problema del lavoro umano e, in particolare, per quella separazione e contrapposizione tra « lavoro » e « capitale », come tra due fattori della produzione considerati in quella stessa prospettiva « economistica », di cui sopra, l'economismo abbia avuto un'importanza decisiva ed abbia influito, proprio su tale impostazione non-umanistica di questo problema, prima del sistema filosofico materialistico.

Nondimeno, è cosa evidente che il materialismo, anche nella sua forma dialettica, non è in grado di fornire alla riflessione sul lavoro umano basi sufficienti e definitive, perché il primato dell'uomo sullo strumento-capitale, il primato della persona sulle cose, possa trovare in esso un'adeguata ed irrefutabile verifica e appoggio.

Anche nel materialismo dialettico l'uomo non è, prima di tutto, soggetto del lavoro e causa efficiente del processo di produzione, ma rimane inteso e trattato in dipendenza da ciò che è materiale, come una specie di « risultante » dei rapporti economici e di produzione, predominanti in una data epoca.

Evidentemente l'antinomia tra lavoro e capitale qui considerata - l'antinomia nel cui quadro il lavoro è stato separato dal capitale e contrapposto ad esso, in un certo senso onticamente, come se fosse un elemento qualsiasi del processo economico - ha inizio non solamente nella filosofia e nelle teorie economiche del secolo XVIII, ma molto più ancora in tutta la prassi economico-sociale di quel tempo, che era quello dell'industrializzazione che nasceva e si sviluppava precipitosamente, nella quale si scopriva in primo luogo la possibilità di moltiplicare grandemente le ricchezze materiali, cioè i mezzi, ma si perdeva di vista il fine, cioè l'uomo, al quale questi mezzi devono servire.

Proprio questo errore di ordine pratico ha colpito prima di tutto il lavoro umano, l'uomo del lavoro, e ha causato la reazione sociale, eticamente giusta, della quale si è già parlato.

Lo stesso errore, che ormai ha il suo determinato aspetto storico, legato col periodo del primitivo capitalismo e liberalismo, può però ripetersi in altre circostanze di tempo e di luogo, se si parte, nel ragionamento, dalle stesse premesse sia teoriche che pratiche.

Non si vede altra possibilità di un superamento radicale di questo errore, se non intervengono adeguati cambiamenti sia nel campo della teoria, come in quello della pratica, cambiamenti che procedano su una linea di decisa convinzione del primato della persona sulle cose, del lavoro dell'uomo sul capitale come insieme dei mezzi di produzione.

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