Spe Salvi |
13. Nel corso della loro storia, i cristiani hanno cercato di tradurre questo sapere che non sa in figure rappresentabili, sviluppando immagini del « cielo » che restano sempre lontane da ciò che, appunto, conosciamo solo negativamente, mediante una non-conoscenza.
Tutti questi tentativi di raffigurazione della speranza hanno dato a molti, nel corso dei secoli, lo slancio di vivere in base alla fede e di abbandonare per questo anche i loro « hyparchonta », le sostanze materiali per la loro esistenza.
L'autore della Lettera agli Ebrei, nell'undicesimo capitolo ha tracciato una specie di storia di coloro che vivono nella speranza e del loro essere in cammino, una storia che da Abele giunge fino all'epoca sua.
Di questo tipo di speranza si è accesa nel tempo moderno una critica sempre più dura: si tratterebbe di puro individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua miseria e si sarebbe rifugiato in una salvezza eterna soltanto privata.
Henri de Lubac, nell'introduzione alla sua opera fondamentale « Catholicisme. Aspects sociaux du dogme », ha raccolto alcune voci caratteristiche di questo genere di cui una merita di essere citata: « Ho trovato la gioia? No … Ho trovato la mia gioia.
E ciò è una cosa terribilmente diversa … La gioia di Gesù può essere individuale.
Può appartenere ad una sola persona, ed essa è salva.
È nella pace …, per ora e per sempre, ma lei sola.
Questa solitudine nella gioia non la turba.
Al contrario: lei è, appunto, l'eletta! Nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano ».10
14. Rispetto a ciò, de Lubac, sulla base della teologia dei Padri in tutta la sua vastità, ha potuto mostrare che la salvezza è stata sempre considerata come una realtà comunitaria.
La stessa Lettera agli Ebrei parla di una « città » ( Eb 11,10.16; Eb 12,22; Eb 13,14 ) e quindi di una salvezza comunitaria.
Coerentemente, il peccato viene compreso dai Padri come distruzione dell'unità del genere umano, come frazionamento e divisione.
Babele, il luogo della confusione delle lingue e della separazione, si rivela come espressione di ciò che in radice è il peccato.
E così la « redenzione » appare proprio come il ristabilimento dell'unità, in cui ci ritroviamo di nuovo insieme in un'unione che si delinea nella comunità mondiale dei credenti.
Non è necessario che ci occupiamo qui di tutti i testi, in cui appare il carattere comunitario della speranza.
Rimaniamo con la Lettera a Proba in cui Agostino tenta di illustrare un po' questa sconosciuta conosciuta realtà di cui siamo alla ricerca.
Lo spunto da cui parte è semplicemente l'espressione « vita beata [ felice ] ».
Poi cita il Salmo 144,15: « Beato il popolo il cui Dio è il Signore ».
E continua: « Per poter appartenere a questo popolo e giungere [ … ] alla vita perenne con Dio, "il fine del precetto è l'amore che viene da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera" ( 1 Tm 1,5 ) ».11
Questa vita vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, è legata all'essere nell'unione esistenziale con un « popolo » e può realizzarsi per ogni singolo solo all'interno di questo « noi ».
Essa presuppone, appunto, l'esodo dalla prigionia del proprio « io », perché solo nell'apertura di questo soggetto universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull'amore stesso - su Dio.
15. Questa visione della « vita beata » orientata verso la comunità ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo - in forme molto diverse, secondo il contesto storico e le possibilità da esso offerte o escluse.
Al tempo di Agostino, quando l'irruzione dei nuovi popoli minacciava la coesione del mondo, nella quale era data una certa garanzia di diritto e di vita in una comunità giuridica, si trattava di fortificare i fondamenti veramente portanti di questa comunità di vita e di pace, per poter sopravvivere nel mutamento del mondo.
Cerchiamo di gettare, piuttosto a caso, uno sguardo su un momento del medioevo sotto certi aspetti emblematico.
Nella coscienza comune, i monasteri apparivano come i luoghi della fuga dal mondo ( « contemptus mundi » ) e del sottrarsi alla responsabilità per il mondo nella ricerca della salvezza privata.
Bernardo di Chiaravalle, che con il suo Ordine riformato portò una moltitudine di giovani nei monasteri, aveva su questo una visione ben diversa.
Secondo lui, i monaci hanno un compito per tutta la Chiesa e di conseguenza anche per il mondo.
Con molte immagini egli illustra la responsabilità dei monaci per l'intero organismo della Chiesa, anzi, per l'umanità; a loro egli applica la parola dello Pseudo-Rufino: « Il genere umano vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe … ».12
I contemplativi - contemplantes - devono diventare lavoratori agricoli - laborantes -, ci dice.
La nobiltà del lavoro, che il cristianesimo ha ereditato dal giudaismo, era emersa già nelle regole monastiche di Agostino e di Benedetto.
Bernardo riprende nuovamente questo concetto.
I giovani nobili che affluivano ai suoi monasteri dovevano piegarsi al lavoro manuale.
Per la verità, Bernardo dice esplicitamente che neppure il monastero può ripristinare il Paradiso; sostiene però che esso deve, quasi luogo di dissodamento pratico e spirituale, preparare il nuovo Paradiso.
Un appezzamento selvatico di bosco viene reso fertile - proprio mentre vengono allo stesso tempo abbattuti gli alberi della superbia, estirpato ciò che di selvatico cresce nelle anime e preparato così il terreno, sul quale può prosperare pane per il corpo e per l'anima.13
Non ci è dato forse di costatare nuovamente, proprio di fronte alla storia attuale, che nessuna positiva strutturazione del mondo può riuscire là dove le anime inselvatichiscono?
Indice |
10 | Jean Giono, Les vraies richesses (1936), Préface, Paris 1992, pp. 18-20, in: Henri de Lubac, Catholicisme. Aspects sociaux du dogme, Paris 1983, p. VII |
11 | Ep. 130 Ad Probam 13,24 |
12 | Sententiae III, 118: CCL 6/2, 215 |
13 | ibid. III, 71: CCL 6/2, 107-108 |