Venerdì, 31 gennaio 2014
Liberarsi dal pericolo di essere cristiani « troppo sicuri », di perdere il « senso del peccato », restando irretiti da « una visione antropologica superpotente » e mondana capace di portare l'uomo a ritenere di poter fare tutto da solo.
È questa l'esortazione di Papa Francesco che - nella messa di venerdì mattina 31 gennaio nella cappella della Casa Santa Marta - ha fatto riferimento all'episodio biblico della tentazione di Davide che invaghito di Betsabea, moglie del suo fedele soldato Urìa, la prende con sé e invia il marito in battaglia provocandone così la morte.
La perdita del senso del peccato, ha detto il Pontefice, è il segno di come venga sminuito il significato del regno di Dio.
Fa dimenticare che la salvezza viene da lui « e non dalle astuzie » degli uomini.
Prendendo spunto dalla liturgia del giorno, il Papa ha così centrato la sua omelia sul regno di Dio.
Il passo di Marco ( Mc 4,26-34 ), ha detto il Pontefice, « ci parla del regno di Dio », di come cresce.
In realtà, si legge nel Vangelo, « non lo sa neppure il seminatore » come questo avvenga.
Ma in un altro passo, ha poi spiegato, Gesù dice che è proprio Dio a far crescere il suo regno in noi.
« E questa crescita - ha precisato - è un dono di Dio che dobbiamo chiedere ».
E lo chiediamo ogni giorno quando recitiamo « il Padre nostro: venga il tuo regno! ».
Un'invocazione, ha notato, che « vuol dire: cresca il tuo regno dentro di noi, nella società.
Cresca il regno di Dio! ».
Ma « così come cresce - ha ammonito - il regno di Dio può anche diminuire ».
Ed è « di questo che ci parla la prima lettura », tratta dal secondo libro di Samuele ( 2 Sam 11,1-4a.5-10a.13-17 ), il racconto della tentazione di Davide.
Per spiegare il brano Papa Francesco si è ricollegato alle letture del giorno precedente, in particolare alla « bella preghiera di Davide al Signore: la preghiera per il suo popolo ».
È « il re che prega per il suo popolo, è la preghiera di un santo ».
Ma « l'anno successivo », ha evidenziato, « succede quello che abbiamo sentito » nel secondo libro di Samuele: la tentazione di Davide, appunto.
Ed è ciò che sconvolge un regno tutto sommato tranquillo, nonostante piccole guerre per il controllo dei confini.
Anche « Davide è tranquillo », fa « una vita normale ».
Ma un giorno « dopo pranzo fa la siesta; poi si alza, va a passeggiare e gli viene una tentazione.
E Davide cade nella tentazione » vedendo Betsabea, la moglie di Urìa.
« A tutti noi - ha commentato il Papa - può accadere questa cosa » perché « tutti siamo peccatori e tutti siamo tentati.
E la tentazione è il pane nostro di ogni giorno ».
Tanto che, ha notato, « se qualcuno di noi dicesse: io mai ho avuto tentazioni », la risposta giusta sarebbe: « o sei un cherubino o sei un po' scemo! ».
Infatti « è normale nella vita la lotta: il diavolo non sta tranquillo e vuole la sua vittoria ».
In realtà « il problema più grave in questo brano - ha precisato - non è tanto la tentazione o il peccato contro il nono comandamento; è come agisce Davide ».
Infatti egli in questo frangente perde la consapevolezza del peccato e parla semplicemente di « un problema » da risolvere.
E questo suo atteggiamento « è un segno », perché « quando il regno di Dio diminuisce, uno dei segni è che si perde il senso del peccato ».
Davide, ha spiegato il Papa, commette « un grosso peccato », eppure « non lo sente » tale.
Per lui è solo un « problema ».
Perciò « non gli viene in mente di chiedere perdono ».
Si preoccupa solo di risolvere il problema - dopo il suo rapporto con Betsabea la donna resta incinta - e si chiede: « Come copro l'adulterio? ».
Così mette in atto una strategia e la porta avanti in modo tale da far pensare ad Urìa che il bimbo che sua moglie porta nel grembo sia effettivamente suo figlio.
Urìa, ha spiegato ancora il Pontefice, « era un bravo israelita, pensava ai suoi compagni e non voleva fare festa mentre l'esercito di Israele lottava ».
Ma Davide, dopo aver provato inutilmente a convincerlo « con il banchetto, con il vino », da « uomo deciso, uomo di governo, prende la decisione » e scrive una lettera a Iaob, il capitano dell'esercito, ordinandogli di mandare Urìa nel posto più difficile della battaglia in modo da farlo morire.
« E così è accaduto. Urìa cade.
E cade perché è messo proprio lì perché cadesse »: si tratta di « un omicidio ».
Eppure « quando il re Davide conosce com'è finita la storia, rimane tranquillo e continua la sua vita ».
La ragione? Davide « aveva perso il senso del peccato e in quel momento il regno di Dio cominciava a calare » dal suo orizzonte.
Lo dimostra il fatto che Davide non fa « riferimento a Dio », non dice: « Signore, guarda cosa ho fatto: come facciamo? ».
In lui invece prende il sopravvento « questa visione antropologica superpotente: io posso tutto! ».
È l'atteggiamento della « mondanità ».
Lo stesso, ha detto il Pontefice, « può succedere a noi quando perdiamo il senso del regno di Dio e conseguentemente il senso del peccato ».
E in proposito ha ricordato le parole di Pio XII, che ha indicato proprio nell'« aver perso il senso del peccato il male di questa civilizzazione: tutto si può, tutto risolviamo noi!
La potenza dell'uomo al posto della gloria di Dio! ».
Un modo di pensare questo, ha notato il Papa, che « è il pane di ogni giorno ».
Di qui la nostra « preghiera di tutti i giorni a Dio: Venga il tuo regno!
Cresca il tuo regno! ».
Perché « la salvezza non verrà dalle nostre furbizie, dalle nostre astuzie, dalla nostra intelligenza nel fare gli affari ».
No, « la salvezza verrà per la grazia di Dio e dall'allenamento quotidiano che noi facciamo di questa grazia », cioè « la vita cristiana ».
Papa Francesco ha poi elencato « i tanti personaggi » nominati nel brano biblico: Davide, Betsabea, Ioab ma anche « i cortigiani » che erano tutti intorno a Davide e « sapevano tutto: un vero scandalo ma non si scandalizzavano », perché anche loro avevano « perso il senso del peccato ».
E poi c'è « il povero Urìa che paga il conto del banchetto ».
Proprio la figura di Urìa suscita la riflessione conclusiva del Santo Padre: « Io vi confesso che quando vedo queste ingiustizie, questa superbia umana » o « avverto il pericolo, che io stesso » posso rischiare, « di perdere il senso del peccato - ha ammesso - penso che fa bene pensare ai tanti Urìa della storia, ai tanti Urìa che anche oggi soffrono la nostra mediocrità cristiana ».
Una mediocrità che prevale quando « perdiamo il senso del peccato e lasciamo che il regno di Dio cada ».
Le persone come Urìa, ha detto, « sono i martiri non riconosciuti dei nostri peccati ».
Così, ha aggiunto il Pontefice, « ci farà bene oggi pregare per noi, perché il Signore ci dia sempre la grazia di non perdere il senso del peccato e perché il regno non cali in noi ».
E ha concluso invitando « anche a portare un fiore spirituale alla tomba di questi Urìa contemporanei, che pagano il conto del banchetto dei sicuri, di quei cristiani che si sentono sicuri.
E che, senza volerlo, o volendolo, fanno gli omicidi del prossimo ».