Giovedì, 29 gennaio 2015
Dio ci salva « personalmente », ci salva « con nome e cognome » ma sempre inseriti in un « popolo ».
Nella messa celebrata a Santa Marta giovedì 29 gennaio, Papa Francesco ha messo in guardia dal rischio di « privatizzare la salvezza »: infatti « ci sono forme, ci sono condotte che sono sbagliate e modelli sbagliati di condurre la vita cristiana ».
Rileggendo il brano della Lettera agli Ebrei proposto dalla liturgia ( Eb 10,19-25 ), il Pontefice ha messo in evidenza che se è vero che Gesù « ha inaugurato una via nuova e viva » e « noi dobbiamo seguirla », è anche vero che « dobbiamo seguirla come il Signore vuole, secondo la forma che lui vuole ».
E un modello sbagliato è proprio quello di chi tende a « privatizzare la salvezza ».
Gesù infatti, ha spiegato il Papa, « ci ha salvati tutti, ma non genericamente.
Tutti, ognuno, con nome e cognome.
E questa è la salvezza personale »: ognuno di noi può dire « per me », perché « il Signore mi ha guardato, ha dato la sua vita per me, ha aperto questa porta, questa via nuova per me ».
C'è tuttavia il « pericolo di dimenticare che lui ci ha salvato singolarmente, ma in un popolo », perché « sempre il Signore salva nel popolo ».
Quando il Signore « chiama Abramo, gli promette di fare un popolo ».
E per questo nella Lettera agli Ebrei si legge: « Prestiamo attenzione gli uni agli altri ».
Se, ha ribadito Francesco, io interpreto la salvezza come « salvezza soltanto per me » allora « sbaglio strada: la privatizzazione della salvezza è una strada sbagliata ».
Ma allora « quali sono i criteri per non privatizzare la salvezza? ».
Si ritrovano proprio nel brano della lettera.
« Prima di tutto, il criterio della fede » ha spiegato il Papa.
« La fede in Gesù ci purifica »; e allora « accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza ».
Il primo criterio è dunque « il segno della fede, il cammino della fede ».
C'è poi un altro criterio che risiede in « una virtù tanto dimenticata: la speranza ».
Dobbiamo infatti mantenere « senza vacillare la professione della nostra speranza », che è « come l'ancella: è quella che ci porta avanti, ci fa guardare le promesse e andare avanti ».
Infine, un terzo criterio è quello della « carità »: dobbiamo cioè verificare se « prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone ».
Un esempio concreto, ha detto il Pontefice, può venire dalla vita in una parrocchia o in una comunità: quando « io sono lì, io posso privatizzare la salvezza » ed « essere lì un po' socialmente soltanto ».
Per evitare questo rischio, « devo chiedere a me stesso se io parlo, comunico la fede; parlo, comunico la speranza; parlo, faccio e comunico la carità ».
Perché « se in una comunità non si parla, non si dà coraggio l'uno l'altro in queste tre virtù, i componenti di quella comunità hanno privatizzato la fede ».
Ecco l'errore: « Ognuno cerca la sua propria salvezza, non la salvezza di tutti, la salvezza del popolo ».
Eppure « Gesù ha salvato ognuno, ma in un popolo, in una Chiesa ».
A quel punto accade che « tu sei salvo, ma non come il Signore ti ha salvato »-
Al riguardo l'autore della Lettera agli Ebrei « dà un consiglio tanto importante: non disertiamo le nostre riunioni ».
Un consiglio « pratico » che il Papa si è soffermato a spiegare: succede infatti che « quando noi siamo in una riunione - nella parrocchia, nel gruppo - e giudichiamo gli altri » dicendo: « Questo non mi piace … io vengo perché devo venire, ma non mi piace … », finisce che « disertiamo ».
Emerge cioè « una sorta di disprezzo verso gli altri.
E questa non è la porta, la via nuova e vivente che il Signore ha aperto, ha inaugurato ».
Ciò avveniva anche nei primi anni di vita della Chiesa.
Paolo, per esempio, « rimprovera quelli che vanno alle riunioni per servire l'Eucaristia e pure portano il pranzo, ma fra loro, e lasciano gli altri lì.
Disprezzano gli altri; disertano dalla comunità totale; disertano dal popolo di Dio ».
In pratica « hanno privatizzato la salvezza » pensando: « la salvezza è per me e per il mio gruppetto, ma non per tutto il popolo di Dio ».
Questo, ha ricordato il Pontefice, « è uno sbaglio molto grande.
È quello che chiamiamo e che vediamo: le elite ecclesiali ».
Accade quando « nel popolo di Dio si creano questi gruppetti » che « pensano di essere buoni cristiani » e forse hanno anche « buona volontà, ma sono gruppetti che hanno privatizzato la salvezza ».
Perciò, ha sintetizzato Francesco, i criteri per riconoscere « se io sono nella mia parrocchia, nel mio gruppo, nella mia famiglia, se sono un vero figlio della Chiesa, figlio di Dio, salvato da Gesù, nel suo popolo sono: se parlo della fede, se parlo della speranza, se parlo della carità ».
Ma attenzione: « Quando in un gruppo si parla di tante cose e non ci si dà forza mutuamente, non si fanno le opere buone, si finisce per disertare dal gruppo grande per fare dei piccoli gruppetti di elite ».
Invece Dio « ci salva in un popolo, non nelle elite, che noi con le nostre filosofie o il nostro modo di capire la fede abbiamo fatto ».
Dobbiamo perciò chiederci: « Ho la tendenza a privatizzare la salvezza per me, per il mio gruppetto, per la mia elite o non diserto da tutto il popolo di Dio, non mi allontano dal popolo di Dio e sempre sono in comunità, in famiglia, con il linguaggio della fede, della speranza e il linguaggio delle opere di carità? ».
Il Papa ha concluso con l'auspicio « che il Signore ci dia la grazia di sentirci sempre popolo di Dio, salvati personalmente ».
Perché la verità è che « lui ci salva con nome e cognome », ma « in un popolo, non nel gruppetto che io faccio per me ».