Messaggio Urbi et Orbi di Natale 1945
24 dicembre 1945
Negli ultimi anni, noi tutti, Venerabili Fratelli e diletti figli, dovemmo assaporare, in questa vigilia della Natività del Signore, l'amaro contrasto
fra i sentimenti di santa allegrezza, d'intima e fraterna unione nel servizio del Signore, che la cara ricorrenza natalizia infonde negli animi, e i tristi rancori e le brame di vendetta, imperanti nel mondo;
tra i soavi accenti del Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus, e le voci discordanti di odio nei fragori di una guerra fratricida;
tra la dolce chiarezza di Betlemme e il sinistro bagliore degli incendi;
tra il soave splendore irraggiante dal volto del celeste Infante, e il marchio di Caino, che rimarrà ancora a lungo impresso sulla fronte del nostro secolo.
Così, quale sospiro di sollievo uscì da tutti i nostri petti, alla notizia che il sanguinoso conflitto aveva avuto fine, prima in Europa, poi nell'Asia!
Quante fervide suppliche erano in quei lunghi anni di lotta salite al trono dell'Altissimo, affinché abbreviasse i giorni dell'afflizione e arrestasse la mano degli angeli che portano le fiale dell'ira di Dio per i peccati del mondo!
Ora, per la prima volta, l'umana famiglia celebrerà di nuovo per misericordia divina una festa natalizia, nella quale i terrori della guerra in terra, in mare e soprattutto nell'aria non empiranno più tanti cuori di timore e di angoscia mortale.
Per questo mutamento delle cose siano da noi tutti rese umili grazie all'Onnipotente Signore!
La pace della terra?
La vera pace?
No, ma solamente il « dopo-guerra » espressione dolorosa e fin troppo significativa!
Quanto tempo sarà necessario per guarire il malessere materiale e morale, quanti sforzi per cicatrizzare tante piaghe!
Ieri si sono seminate su territori immensi le distruzioni, le calamità, le miserie; ed oggi che si tratta di ricostruire, gli uomini cominciano appena a rendersi conto di quanta perspicacia e avvedutezza, di quanta rettitudine e buona volontà vi sia bisogno per ricondurre il mondo dalle devastazioni e dalle rovine fisiche e spirituali, al diritto, all'ordine e alla pace.
Così anche questo Natale rimane un tempo di aspettazione, di speranza e di preghiera al Figlio di Dio fatto uomo, affinché Egli, che è il « Rex pacificus, … cuius vultum desiderat universa terra »,1 doni al mondo la sua pace.
Come è già stato annunziato, per la prima volta, dacché il Signore, nonostante la Nostra indegnità, volle elevarCi al Supremo Pontificato, addiverremo, a Dio piacendo, alla creazione di nuovi membri del Sacro Collegio.
Nel Nostro discorso Natalizio del passato anno, accennammo alle gravi e molteplici difficoltà che Ci avevano purtroppo fino allora impedito di provvedere alle non poche vacanze dolorosamente prodottesi nella Curia Romana.
Quanto dunque Ci tornerà gradito di vederCi prossimamente qui circondati da un numero così considerevole di nuovi Cardinali, i quali per le loro insigni virtù e i loro segnalati meriti Ci sono sembrati particolarmente degni di essere elevati alla Sacra Porpora!
L'eccezionale avvenimento merita, a Nostro avviso, di essere illustrato con alcune speciali considerazioni.
Osserveremo innanzi tutto che con questa promozione il Sacro Collegio verrà ad essere al completo.
È noto che il Nostro Predecessore di f. m. Sisto V con la sua Costituzione Postquam verus del 3 dicembre 1586, dopo aver rilevato come nei tempi antichi fosse stato troppo ristretto il Sacro Collegio e nei più recenti invece troppo numeroso, fissò a settanta il numero dei Cardinali, a somiglianza dei settanta seniori di Israele ( Es 24,1.9 ), proibendo con severissime clausole che per qualsiasi motivo, anche urgentissimo, si oltrepassasse quel numero.
Senza dubbio i Romani Pontefici Successori di lui non sarebbero vincolati da tali disposizioni, qualora giudicassero opportuno di aumentarlo o di diminuirlo; tuttavia non consta che si sia mai da alcuno di loro derogato a quella legge, la quale ha avuto una esplicita conferma anche nel can. 349 del Codice di diritto canonico.
Il pieno del S. Collegio con settanta Cardinali si è avuto abbastanza spesso nei secoli XVII e XVIII; non si riscontra invece mai nel secolo XIX e, fino ad oggi, nel secolo XX.
Per citare un solo esempio, ricorderemo il Concistoro segreto del 17 maggio 1706, nel quale Clemente XI volle creare tanti Cardinali, ossia venti, quanti ne mancavano per compire il numero di settanta: « creare intendimus eos omnes, nempe viginti, qui ad septuagenarium Vestrum numerum complendum in praesens desunt, Cardinales »;3 ed anzi, avendo uno dei nuovi nominati, Gabriele Filippucci, rinunziato a quella eminente dignità, Clemente XI, nel susseguente Concistoro del 7 giugno dello stesso anno, mentre accettava tale rinunzia, nominò subito al posto rimasto così vacante Michelangelo Conti, che fu poi il suo immediato Successore col nome di Innocenzo XIII.4
Noi abbiamo voluto ritornare a quell'antico uso, che, mentre porta al completo il numero dei membri del S. Collegio, rispetta al tempo stesso il limite posto da Sisto V.
Siamo dolenti che l'osservanza di questo limite Ci abbia impedito di comprendere in questa Nostra prima creazione non pochi altri Prelati e Religiosi, specialmente della Curia e del Clero romano, i quali, massime per i lunghi servigi resi alla Santa Sede, ne sarebbero stati anch'essi ben degni.
E tanto più Ci è sembrato conveniente di non oltrepassare quel limite, in quanto che non fu mai creato un così gran numero di nuovi Cardinali, cioè trentadue, in un medesimo Concistoro.
Le due più grandi creazioni si erano avute finora sotto i Papi Leone X e Pio VII, i quali in un solo Concistoro crearono 31 Cardinali: vogliamo dire,
Leone X, il quale mentre nel Concistoro del 26 giugno 1517 aveva manifestato in proposito di nominare 27 Cardinali, nel successivo del 1° luglio di quello stesso anno ne creò invece 31;5 e
Pio VII, che dopo il suo ritorno nell'Urbe, avendo rivolto le sue cure al S. Collegio, molto diminuito di numero per gli acerbissimi eventi di quel tempo, nel Concistoro segreto dell'8 marzo 1816 creò parimente 31 Cardinali, dei quali però 21 furono da lui pubblicati e 10 riservati in petto.6
Un'altra caratteristica di questa creazione sarà la varietà delle nazioni a cui appartengono i futuri Cardinali, in quanto abbiamo voluto che vi sia rappresentato il maggior numero possibile di stirpi e di popoli, e sia quindi un'immagine viva della universalità della Chiesa.
In tal guisa, come abbiamo veduto negli anni trascorsi del Nostro Pontificato confluire nell'Eterna Città, nonostante la guerra, anzi come conseguenza della guerra, uomini di ogni nazione e delle più lontane regioni, così avremo ora, cessato il conflitto mondiale, la consolazione - piacendo al Signore - di veder affluire intorno a Noi nuovi membri del S. Collegio provenienti dalle cinque parti del mondo.
Roma apparirà in tal modo veramente come la Città eterna, la Città universale, la Città Caput mundi, l'Urbs per eccellenza, la Città di cui tutti sono cittadini, la Città sede del Vicario di Cristo, verso la quale si volgono gli sguardi di tutto il mondo cattolico; né l'Italia, terra benedetta che accoglie nel suo seno questa Roma, ne rimarrà diminuita, ché anzi splenderà agli occhi di tutti i popoli come partecipe di questa grandezza e di questa universalità.
La Chiesa cattolica, di cui l'Urbe è il centro, è soprannazionale per la sua stessa essenza.
Ciò ha un duplice senso, uno negativo ed uno positivo.
La Chiesa è madre, Sancta Mater Ecclesia, una vera madre, la madre di tutte le nazioni e di tutti i popoli, non meno che di tutti i singoli uomini, e precisamente perché madre, non appartiene né può appartenere esclusivamente a questo o a quel popolo, e neanche ad un popolo più e ad un altro meno, ma a tutti egualmente.
È madre, e quindi non è né può essere straniera in alcun luogo; essa vive, o almeno per la sua natura deve vivere, in tutti i popoli.
Inoltre, mentre la madre, col suo sposo e i suoi figli, forma una famiglia, la Chiesa, in virtù di una unione incomparabilmente più stretta, costituisce, più e meglio che una famiglia, il corpo mistico di Cristo.
La Chiesa è dunque soprannazionale, perché è un tutto indivisibile e universale.
La Chiesa è un tutto indivisibile, perché Cristo, con la sua Chiesa, è indiviso e indivisibile.
Cristo, come Capo della Chiesa, è, per adoperare un profondo pensiero di S. Agostino ( Serm. 341 c. 1 ), totus Christus, il Cristo intero.
Questa interezza di Cristo, secondo il S. Dottore, significa la indivisibile unità del Capo e del corpo « in plenitudine Ecclesiae », in quella pienezza di vita della Chiesa, che congiunge tutte le zone e tutti i tempi della umanità redenta, senza eccezione.
Saldamente stabilita con sì profonda radice, la Chiesa, posta com'è nel mezzo di tutta la storia del genere umano, nel campo agitato e sconvolto di energie divergenti e di contrastanti tendenze, quantunque esposta a tutti gli assalti diretti contro la sua indivisibile interezza, è così lontana dall'esserne scossa, che dalla sua propria vita di interezza e di unità irradia e diffonde sempre nuove forze sanatrici e unificatrici nella umanità lacerata e divisa, forze di unificante grazia divina, forze dello Spirito unificante, di cui tutti sono affamati, verità che sempre e dappertutto valgono, ideali che sempre e dappertutto ardono.
Da ciò apparisce che era ed è un sacrilego attentato contro il totus Christus, il Cristo nella sua integrità, e in pari tempo un colpo nefasto contro la unità del genere umano, ogniqualvolta si è tentato e si tenta di far la Chiesa quasi prigioniera e schiava di questo o di quel popolo particolare, di confinarla negli angusti limiti di una nazione, od anche di metterla al bando.
Tale smembramento della interezza della Chiesa ha sminuito e sminuisce - tanto più, quanto più a lungo - nei popoli, che ne sono le vittime, il bene della loro reale e piena vita.
Ma l'individualismo nazionale e statale degli ultimi secoli non ha soltanto cercato di vulnerare l'interezza della Chiesa, d'indebolire e di ostacolare le sue forze unitrici e unificatrici, quelle forze che pure ebbero un tempo una parte essenziale nella formazione dell'unità dell'Occidente europeo.
Un vieto liberalismo volle, senza e contro la Chiesa, creare la unità mediante la cultura laica e un umanesimo secolarizzato.
Qua e là, come frutto della sua azione dissolvente e al tempo stesso come nemico, gli succedette il totalitarismo.
In una parola, quale fu dopo poco più di un secolo il risultato di tutti quegli sforzi senza e spesso contro la Chiesa?
La tomba della sana libertà umana; le organizzazioni forzate; un mondo, che per brutalità e barbarie, per istruzioni e rovine, soprattutto però per funesta disunione e per mancanza di sicurezza, non aveva conosciuto l'eguale.
In un tempo turbato, qual è ancora il nostro, la Chiesa, per il bene proprio e per quello della umanità, deve fare del tutto per mettere in valore la sua indivisibile e indivisa interezza.
Essa ha da essere oggi più che mai soprannazionale.
Questo spirito deve penetrare e pervadere il suo Capo visibile, il Sacro Collegio, tutta l'azione della Santa Sede, su cui specialmente ora gravano importanti doveri riguardanti non solo il presente, ma anche più il futuro.
Si tratta qui principalmente di un fatto dello spirito, di avere il senso giusto di questa soprannazionalità, e non di misurarla o determinarla secondo proporzioni matematiche o su basi statistiche rigorose circa la nazionalità delle singole persone.
Nei lunghi periodi di tempo, in cui, per disposizione della Provvidenza, la nazione italiana, più delle altre, ha dato alla Chiesa il suo Capo e molti collaboratori al governo centrale della Santa Sede, la Chiesa nel suo complesso ha sempre conservato intatto il suo carattere soprannazionale.
Che anzi non poche circostanze hanno contribuito, precisamente per questa via, a preservarla da pericoli, che altrimenti avrebbero potuto farsi più sensibili.
Si pensi, per citare un esempio, alle lotte per la egemonia degli Stati nazionali europei e delle grandi dinastie nei secoli passati.
Anche dopo la Conciliazione fra la Chiesa e lo Stato coi Patti Lateranensi, il clero italiano, nel suo insieme, pur senza alcun pregiudizio del naturale e legittimo amore di patria, ha continuato ad essere un fedele sostegno e un patrocinatore della soprannazionalità della Chiesa.
Noi Ci auguriamo e preghiamo che tale rimanga, specialmente il giovane clero, in Italia e in tutto l'orbe cattolico; ad ogni modo le delicate condizioni presenti esigono una particolare cura e tutela di quella soprannazionalità e indivisibile unità della Chiesa.
Soprannazionale perché abbraccia con un medesimo amore tutte le nazioni e tutti i popoli, essa è anche tale, come abbiamo già accennato, perché in nessun luogo è straniera.
Essa vive e si sviluppa in tutti i paesi del mondo, e tutti i paesi del mondo contribuiscono alla sua vita e al suo sviluppo.
Un tempo la vita ecclesiastica, in quanto è visibile, si svolgeva rigogliosa a preferenza nei paesi della vecchia Europa, donde si diffondeva, come fiume maestoso, a quella che poteva dirsi la periferia del mondo; oggi apparisce invece come uno scambio di vita e di energie fra tutti i membri del corpo mistico di Cristo sulla terra.
Non poche regioni in altri continenti hanno da molto tempo sorpassato il periodo della forma missionaria della loro organizzazione ecclesiastica, sono rette da una propria gerarchia e danno a tutta la Chiesa beni spirituali e materiali, mentre prima soltanto li ricevevano.
Non si svela forse in questo progresso e arricchimento della vita soprannaturale, ed anche naturale, della umanità il vero senso della soprannaturalità della Chiesa?
Essa non sta, a causa di questa soprannazionalità, quasi sospesa, in una inaccessibile e intangibile lontananza, al di sopra delle nazioni; ma, come Cristo fu in mezzo agli uomini, così anche la Chiesa, in cui Egli continua a vivere, si trova in mezzo ai popoli.
Come il Figlio di Dio assunse una vera natura umana, così anche la Chiesa prende in sé la pienezza di tutto ciò che è genuinamente umano e lo eleva a sorgente di forza soprannaturale, dovunque e comunque lo trova.
Si compie così sempre più nella Chiesa di oggi ciò che S. Agostino magnificava nella sua « Città di Dio »: La Chiesa, egli scriveva, « chiama da tutte le genti i suoi cittadini, e in tutte le lingue aduna la sua comunità peregrina sulla terra; non cura ciò che è diverso nei costumi, nelle leggi, nelle istituzioni; nulla di ciò essa rescinde o distrugge, ma piuttosto conserva e segue.
Anche quel che è diverso nelle diverse nazioni, è tuttavia indirizzato all'unico e medesimo fine della pace terrena, se non impedisce la religione dell'unico sommo e vero Dio » ( De civit. Dei, 1. 19, c. 17 ).
Come un faro potente, la Chiesa, nella sua universale interezza, getta il suo fascio di luce in questi giorni oscuri, per i quali passiamo.
Non meno tenebrosi erano quelli, in cui il gran Dottore d'Ippona vedeva quel mondo, che egli amava tanto, cominciare a sommergersi.
Quella luce allora lo confortava e al suo chiarore salutava, come in una visione profetica, la novella aurora di un giorno più bello.
Il suo amore verso la Chiesa, il quale non era altro che il suo amore di Cristo, fu la sua beatificante consolazione.
Possano tutti coloro, che oggi, nei dolori e nei pericoli della loro patria, soffrono pene simili a quelle di Agostino, trovare, come lui, nell'amore della Chiesa, di questa casa universale, che, secondo la divina promessa rimarrà sino alla fine dei tempi, ristoro e sostegno!
Da parte Nostra, Noi bramiamo di rendere questa casa medesima sempre più solida, sempre più abitabile per tutti, senza eccezione.
Perciò nulla vogliamo omettere, che possa esprimere visibilmente la soprannazionalità della Chiesa, quale segno del suo amore verso Cristo, Che essa vede e a Cui serve nella ricchezza dei suoi membri sparsi per il mondo intiero.
In quest'ora, in cui celebriamo la nascita di Colui, che venne per riconciliare gli uomini con Dio e fra loro stessi, Noi non possiamo omettere di dire una parola sull'opera di pace, che le classi dirigenti nello Stato, nella politica e nell'economia si sono accinti ad edificare.
Con una dovizia, finora forse non mai avutasi, di esperienza, di buon volere, di saggezza politica e di potenza organizzatrice, sono stati iniziati i preparativi per l'ordinamento della pace mondiale.
Giammai, forse, da che mondo è mondo, i reggitori della cosa pubblica non si sono trovati dinanzi ad un'impresa così vasta e complessa per il numero, la grandezza e la difficoltà delle questioni da risolvere, né così grave per i suoi effetti in larghezza e in profondità, per il bene o per il male, come quella di ridare oggi all'umanità - dopo tre decenni di guerre mondiali, di catastrofi economiche e di smisurato impoverimento, - ordine, pace e prosperità.
Altissima, formidabile è la responsabilità di coloro che si apprestano a portare a compimento un'opera così gigantesca.
Non è Nostra intenzione di entrare nell'esame delle soluzioni pratiche che essi potranno dare a così ardui problemi; crediamo però proprio del Nostro ufficio, in continuazione dei Nostri precedenti Messaggi Natalizi durante la guerra, di additare i presupposti morali fondamentali di una vera e durevole pace; ciò che ridurremo a tre brevi considerazioni:
1° L'ora presente richiede imperiosamente la collaborazione, la buona volontà, la reciproca fiducia di tutti i popoli.
I motivi di odio, di vendetta, di rivalità, di antagonismo, di sleale e disonesta concorrenza, debbono essere tenuti lontano dai dibattiti e dalle risoluzioni politiche ed economiche.
« Chi può dire - aggiungeremo con la Sacra Scrittura ( Pr 20,9-10 ) -: Ho la coscienza netta, sono puro di colpa?
Doppio peso e doppia misura, ambedue sono abominevoli presso Dio ».
Chi dunque esige la espiazione delle colpe con la giusta punizione dei criminali in ragione dei loro delitti, deve avere ogni cura di non fare egli stesso ciò che rimprovera ad altri come colpa o delitto.
Chi vuole riparazioni, deve chiederle sulla base dell'ordine morale, del rispetto a quegl'inviolabili diritti di natura, che rimangono anche in coloro, che si soni arresi incondizionatamente al vincitore.
Chi domanda sicurezza per il futuro, non deve dimenticare che la sola vera garanzia consiste nella propria forza interna, vale a dire nella tutela della famiglia, dei figli, del lavoro, nell'amore fraterno, nell'abbandono di ogni odio, di ogni persecuzione o ingiusta vessazione di onesti cittadini, nella leale concordia fra Stato e Stato, fra popolo e popolo
2° A tal fine è necessario che dappertutto si rinunzi a creare artificiosamente, con la potenza del danaro, di una arbitraria censura, di giudizi unilaterali, di false affermazioni, una cosiddetta pubblica opinione, che muove il pensiero e il volere degli elettori come canne agitate dal vento.
Si dia il debito valore alla vera e grande maggioranza, formata da tutti quelli che onestamente e tranquillamente vivono del loro lavoro in mezzo alle loro famiglie e vogliono fare la volontà di Dio.
Ai loro occhi le contese per più favorevoli confini, la lotta per i tesori della terra, anche se non sono necessariamente e a priori immorali in se stesse, costituiscono pur sempre un giuoco pericoloso, che non si può affrontare se non a rischio di cagionare un cumulo di rovine e di morte.
È la vasta maggioranza dei buoni padri e madri di famiglia, che vorrebbero proteggere e difendere l'avvenire dei propri figli contro la pretesa di ogni politica di pura forza, contro gli arbitri del totalitarismo dello Stato forte.
3° La forza dello Stato totalitario!
Crudele e sanguinante ironia!
Tutta la superficie del globo, rossa del sangue versato in questi anni terribili, proclama altamente la tirannia di un tale Stato.
L'edificio della pace riposerebbe sopra una base crollante e sempre minacciosa, se non ponesse fine a un siffatto totalitarismo, il quale riduce l'uomo a non essere più che una pedina nel giuoco politico, un numero nei calcoli economici.
Con un tratto di penna esso muta i confini degli Stati; con una decisione perentoria sottrae l'economia di un popolo, che pure è sempre una parte di tutta la vita nazionale, alle sue naturali possibilità; con una mal dissimulata crudeltà scaccia anch'esso milioni di uomini, centinaia di migliaia di famiglie, nella più squallida miseria, dalle loro case e dalle loro terre, e le sradica e le strappa da una civiltà e una cultura, alla cui formazione avevano lavorato intiere generazioni.
Anch'esso pone arbitrari limiti alla necessità, e al diritto di migrazione e al desiderio di colonizzazione.
Tutto ciò costituisce un sistema contrario alla dignità e al bene del genere umano.
Eppure, secondo l'ordinamento divino, non è la volontà e la potenza di fortuiti e mutevoli gruppi d'interesse, ma l'uomo nel mezzo della famiglia e della società col suo lavoro, il signore del mondo.
Così quel totalitarismo fallisce in ciò che è l'unica misura del progresso, vale a dire nel creare sempre maggiori e migliori condizioni pubbliche, affinché la famiglia possa esistere e svilupparsi, come unità economica, giuridica, morale e religiosa.
Nei confini di ciascuna Nazione particolare, come in seno alla grande famiglia dei popoli, il totalitarismo dello Stato forte è incompatibile con una vera e sana democrazia.
Come un pericoloso bacillo, esso avvelena la comunità delle Nazioni e la rende incapace di essere la garante della sicurezza dei singoli popoli.
Esso rappresenta un continuo pericolo di guerra.
La futura opera di pace vuol bandire dal mondo ogni uso aggressivo della forza, ogni guerra offensiva.
Chi potrebbe non salutare di cuore un tale proposito, e specialmente la sua efficace attuazione?
Se però questo non deve essere soltanto un bel gesto, occorre escludere ogni oppressione e ogni arbitrio dal di dentro e dal di fuori.
Di fronte a questo incontestabile stato di cose, un'unica soluzione rimane: il ritorno a Dio e all'ordine stabilito da Dio.
Quanto più si sollevano i veli circa il sorgere ed il crescere delle forze che hanno scatenato la guerra, tanto più chiaro appare che esse erano le eredi, le portatrici e le continuatrici di errori, dei quali un elemento essenziale era la noncuranza, il sovvertimento, la negazione e il disprezzo del pensiero e dei principi cristiani.
Se dunque qui giace la radice del male, non vi è che un solo rimedio: tornare all'ordine fissato da Dio anche nelle relazioni fra gli Stati e i popoli; tornare a un vero cristianesimo nello Stato e fra gli Stati.
Né si dica che questa non è politica realistica.
La esperienza dovrebbe aver insegnato a tutti che la politica orientata verso le eterne verità e le leggi di Dio è la più reale e concreta delle politiche.
I politici realisti, che altrimenti pensano, non creano che rovine.
Ed ora infine il Nostro sguardo, dopo che è andato osservando, per quanto fugacemente, le condizioni presenti del mondo, non può non soffermarsi ancora una volta sulle schiere, tuttora ingenti, dei prigionieri di guerra.
Nell'apprestarci, infatti, a trascorrere in raccolta ed interiore letizia e in fervorosa preghiera la santa festività del Natale, che riafferma e nobilita con secolare e non mai spenta armonia i vincoli della famiglia umana e richiama al focolare domestico, quasi a sacro convegno, anche chi ne vive abitualmente lontano, Noi pensiamo con profonda tristezza a tutti coloro che, nonostante la proclamata fine della guerra, dovranno passare anche quest'anno in terra straniera la dolce ricorrenza e sentire nella notte del gaudio e della pace il tormento della loro incerta situazione e della loro lontananza dai genitori, dalle spose, dai figli, dai fratelli, dalle sorelle, da quanti sono loro cari.
E mentre vogliamo tributare un giusto riconoscimento ed elogio a quelle Autorità e a quelle opere e persone, che hanno cercato e cercano di render meno dura e meno lunga la pesante loro condizione, non possiamo tacere la Nostra pena,
quando, oltre alle sofferenze inevitabilmente portate dalla guerra, abbiamo saputo di quelle quasi volutamente inflitte ai prigionieri e ai deportati;
quando, in alcuni casi, abbiamo veduto prolungarsi senza ragione sufficiente la durata della loro cattività;
quando il giogo, già per se stesso opprimente della prigionia, è stato aggravato dal peso di faticosi e non debiti lavori,
o quando, in facile disprezzo delle norme sancite da convenzioni internazionali e di quelle anche più inviolabili della coscienza cristiana e civile, si è negato con modi disumani il trattamento dovuto anche ai vinti.
A questi figli, tuttora costretti in prigionia, vada sulle ali degli angeli del Natale il Nostro paterno Messaggio, e giunga loro, apportatore di conforto, di speranza e di luce, il Nostro voto, condiviso da quanti hanno vivo il senso della fratellanza umana, di vederli ordinatamente e sollecitamente restituiti alle loro ansiose famiglie e alle loro normali occupazioni di pace.
E noi siamo certi d'interpretare l'aspirazione di tutti i benpensanti, se estendiamo questo Nostro voto a quegli uomini, a quelle donne e a quegli adolescenti, detenuti politici, esposti talvolta ad aspre sofferenze, ai quali non può, se mai, rimproverarsi altro che il loro passato atteggiamento politico, ma nessuna attività delittuosa, nessuna violazione della legge.
Noi menzioneremo qui anche, con commossa sollecitudine, i missionari e i civili, nel lontano Oriente, che per effetto di gravi recenti avvenimenti vivono nell'afflizione e nel pericolo.
È un manifesto dovere di natura che tutti questi infelici siano trattati umanamente; ed anzi stimiamo che l'auspicata pacificazione e concordia nei popoli e fra i popoli non potrebbe meglio iniziarsi che con la loro liberazione e, in quanto sia del caso, con la loro dovuta conveniente ed equa riabilitazione.
Con tali sentimenti ed auguri sul labbro e nel cuore, Noi invochiamo su di voi, Venerabili Fratelli e diletti figli, come anche su tutti i Nostri amati figli e figlie sparsi sulla terra, l'abbondanza delle grazie del Salvatore divino, della quale è pegno l'Apostolica Benedizione, che con paterno affetto v'impartiamo.
1 | Antiph. I, in I Vesp. Nativ. Domini |
3 | Clem. XI P. M., Orationes consistor., Romae 1722, p. 32 |
4 | Op. cit., p. 38 |
5 | Arch. Consist. Acta Vicecancell. 2, fogli 39 e 40 |
6 | Cf. Pii VII, Allocutio habita in Cons. Secr. die 8 Martii 1816 |