Messaggio Urbi et Orbi di Natale 1951
24 dicembre 1951
Già per la decimaterza volta la grazia dell'Eterno e Sommo Sacerdote Ci concede, nella ricorrenza delle Feste natalizie, di rivolgere da questa augusta Sede la Nostra parola all'universo cattolico.
Ogni anno una così soave festività Ci offre l'occasione di esprimere a tutti i fedeli del mondo il Nostro paterno saluto col sentimento profondo del vincolo misterioso, che, ai piedi della culla del neonato Salvatore, unisce tra loro nella fede, nella speranza e nell'amore i redenti da Cristo.
Dinanzi al crollo di tante istituzioni terrene, al fallimento di tanti programmi caduchi, lo Spirito di Dio sostiene la sua Sposa, la Chiesa, la ricolma di una pienezza di vita, col vigore di una giovinezza incessantemente rinnovellantesi, le cui manifestazioni sempre più luminose ne rivelano il carattere soprannaturale: ineffabile conforto per ogni credente, indecifrabile enigma per i nemici della fede.
E nondimeno, per grande che possa essere la Nostra gioia di ritrovarCi in questo incontro natalizio congiunti coi fedeli di tutti i continenti, - ed anche con quanti sono a Noi uniti nella fede in Dio -, le dure realtà dell'ora gettano sulla lieta ricorrenza l'ombra rattristante delle nubi che gravano ancora minacciose sul mondo.
Noi ben sappiamo con quale intima soddisfazione e con quale incondizionata docilità i Nostri devoti figli ascoltano sempre la voce del Padre comune; ma non ignoriamo nemmeno con quale ansia essi attendono di nuovo una sua parola sul grande argomento della pace, che commuove e agita i cuori, una parola precisa e concreta specialmente sul contributo della Chiesa alla causa della pace stessa; vale a dire,
in che cosa un tale contributo non può consistere;
in che cosa esso può e deve consistere;
in che cosa realmente consiste.
Si degni il Padre celeste, che alla nascita del suo Figlio divino inviò i cori degli angeli a cantare la pace sulla terra, ispirare le Nostre parole!
La presente condizione di cose richiede da Noi un giudizio sui fatti franco e sincero.
Ma questi fatti sono giunti a un tal grado di acutezza da obbligarCi a vedere il mondo scisso in due campi opposti, l'umanità stessa divisa in due gruppi così nettamente separati, che sono difficilmente disposti a lasciare ad alcuno o in alcuna maniera la libertà di mantenere tra le parti avverse un atteggiamento di neutralità politica.
Ora quelli che a torto considerano la Chiesa quasi come una qualsiasi potenza terrena, come una sorta d'impero mondiale, sono facilmente indotti ad esigere anche da essa, come dagli altri, la rinunzia alla neutralità, la opzione definitiva in favore dell'una o dell'altra parte.
Tuttavia non può per la Chiesa trattarsi di rinunziare ad una neutralità politica per la semplice ragione che essa non può mettersi al servizio di interessi puramente politici.
Nè si pensi che ciò sia un puro giuoco di parole e di concetti.
Basta avere una nozione elementare del fondamento, su cui la Chiesa come società riposa, per comprenderCi senza bisogno di più ampie spiegazioni.
Il divin Redentore ha fondato la Chiesa, affine di comunicare mediante lei all'umanità la sua verità e la sua grazia sino alla fine dei tempi.
La Chiesa è il suo « corpo mistico ».
Essa è tutta di Cristo, Cristo poi di Dio ( cfr. 1 Cor 3,23 ).
Uomini politici, e talvolta perfino uomini di Chiesa, che intendessero fare della Sposa di Cristo la loro alleata o lo strumento delle loro combinazioni politiche nazionali o internazionali, lederebbero l'essenza stessa della Chiesa, arrecherebbero danno alla vita propria di lei; in una parola, l'abbasserebbero al medesimo piano, in cui si dibattono i conflitti d'interessi temporali.
E ciò è e rimane vero anche se avviene per fini ed interessi in sè legittimi.
Chi dunque volesse staccare la Chiesa dalla sua supposta neutralità, o premere su di lei nella questione della pace, o menomare il suo diritto di determinare liberamente se e quando e come voglia prendere partito nei vari conflitti, non faciliterebbe la sua cooperazione all'opera della pace, perchè una tale presa di partito da parte della Chiesa, anche nelle cose politiche, non può mai essere puramente politica, ma deve essere sempre « sub specie aeternitatis », nella luce della legge divina, del suo ordine, dei suoi valori, delle sue norme.
Non è raro il caso, in cui potenze e istituti puramente terreni si vedono uscire dalla loro neutralità, per schierarsi oggi in un campo, domani forse nell'altro.
È un giuoco di combinazioni, che può spiegarsi col fluttuare incessante degl'interessi temporali.
Ma la Chiesa si tiene lontana da simili mutevoli combinazioni.
Se giudica, non è per essa uscire da una neutralità fino allora osservata, perchè Dio non è mai neutrale verso le cose umane, dinanzi al corso della storia, e perciò non può esser tale neppure la sua Chiesa.
Se parla, è in virtù della sua divina missione voluta da Dio.
Se parla e giudica sui problemi del giorno, è con la chiara coscienza di anticipare, nella virtù dello Spirito Santo, la sentenza che alla fine dei tempi il suo Signore e Capo, Giudice dell'universo, confermerà e sanzionerà.
Tale è la funzione propria e sovrumana della Chiesa riguardo alle cose politiche.
Che cosa vuol dire dunque quella vuota frase circa una neutralità a cui la Chiesa dovrebbe rinunziare?
Altri, al contrario, vogliono la neutralità della Chiesa nell'interesse della pace.
Ma anche questi non hanno una giusta idea del posto che ha la Chiesa nel corso dei grandi avvenimenti mondiali.
Essa non può discendere dall'alta sfera soprannaturale che non conosce neutralità politica, - nel senso in cui questo concetto si applica alle Potenze terrene -; il che non esclude, anzi approfondisce la parte che essa prende alle angosce e ai travagli dei suoi membri divisi nell'uno e nell'altro campo, e l'affanno che essa prova per il contrasto di opinioni e di desideri nelle sue proprie file.
La Chiesa non può consentire a giudicare secondo criteri esclusivamente politici;
non può legare gl'interessi della religione a indirizzi determinati da scopi puramente terreni;
non può esporsi al pericolo che si dubiti fondatamente del suo carattere religioso;
non può dimenticare, neppure per un momento, che la sua qualità di rappresentante di Dio sulla terra non le permette di rimanere indifferente, anche un solo istante, fra il « bene » e il « male » nelle cose umane.
Se ciò le venisse chiesto, essa dovrebbe rifiutarsi, e i fedeli dell'una e dell'altra parte dovrebbero, in virtù della loro soprannaturale fede e speranza, comprendere e rispettare tale suo atteggiamento.
Poichè, infine, se questo contributo non può essere esclusivamente politico; se la Chiesa non ha il suo posto normale e la sua missione essenziale là ove gli Stati, amici, avversari o neutrali, continuamente s'incontrano, apportando seco le loro idee e le loro tendenze politiche concrete; quale dovrà dunque essere il suo contributo alla pace?
Quale sarà il titolo giuridico, quale la natura particolare di questo contributo?
Il suo titolo giuridico?
Guardate.
In nessun luogo lo troverete così perspicuo e quasi palpabile come dinanzi alla culla di Betlemme.
Il Bambino, che ivi giace, è il Figlio eterno di Dio fatto Uomo, e il suo nome é « Princeps pacis », Principe della pace.
Principe e fondatore della pace, tale è il carattere del Salvatore e Redentore di tutto il genere umano.
La sua alta divina missione è di stabilire la pace fra ciascuno degli uomini e Dio, fra gli uomini stessi e fra i popoli.
Questa missione, però, e questa volontà di pace non nascono già da pusillanimità e da debolezza, atte ad opporre al male e ai maligni unicamente rassegnazione e pazienza.
Tutto nella fralezza del Bambino di Betlemme è occulta maestà e contenuta forza, che soltanto l'amore rattiene, per dare ai cuori degli uomini la capacità di far germinare e mantenere la pace, e il vigore per vincere e dissipare tutto ciò che potrebbe comprometterne la sicurezza.
Ma il Salvatore divino è anche il Capo invisibile della Chiesa; perciò la sua missione di pace continua a sussistere e a valere nella Chiesa.
Ogni anno il ritorno del Natale ravviva in lei l'intima consapevolezza del suo titolo a contribuire all'opera della pace, titolo unico, che trascende ogni cosa terrena e promana immediatamente da Dio, elemento essenziale della sua natura e della sua potestà religiosa.
Anche quest'anno la Chiesa si prostra dinanzi al presepio, e dal divino Infante assume la missione del Principe della pace.
Vicina a lui, essa respira il soffio della vera umanità, vera nel senso più pieno della parola, perchè è la umanità stessa di Dio, suo Creatore, suo Redentore e suo Restauratore.
Con gli occhi amorosamente fissi sul volto del Principe infinitamente amabile della pace, essa sente i battiti del suo cuore annunziante l'amore che abbraccia tutti gli uomini, e s'infiamma di ardente zelo per la missione pacificatrice del suo Signore e Capo, che è anche la sua.
Sempre viva ed efficacemente operante si è rivelata nella Chiesa, e specialmente nei Romani Pontefici, suoi Capi visibili, la coscienza di questa missione di pace; onde a buon diritto il Nostro grande Predecessore Leone XIII richiamò alla memoria dei popoli quella azione pacificatrice dei Papi, quando nel 1899, alla vigilia della prima Conferenza per la pace, pronunziava queste parole: « E chi li mosse ( i romani Pastori ) fu la coscienza di un ministero altissimo, fu l'impulso di una spirituale paternità che affratella e salva » ( Allocuzione al S. Collegio dei Cardinali, II aprile 1899 - Leonis XIII P. M. Acta, vol. XIX, Romae 1900, p. 271 ).
Ed anche oggi è lo stesso, come già abbiamo detto.
Quando però dalla dolce intimità, pacifica e calda al cuore, del Bambino di Betlemme la Chiesa e il suo supremo Pastore passano al mondo che vive lontano da Cristo, si sentono come colpiti da una corrente di aria glaciale.
Quel mondo non parla che di pace, ma pace non ha; rivendica a sè tutti i possibili ed impossibili titoli giuridici per stabilire la pace, ma non conosce o non riconosce quella missione pacificatrice che emana immediatamente da Dio, la missione di pace dell'autorità religiosa della Chiesa.
Poveri miopi, il cui ristretto campo visivo non si estende oltre le possibilità riscontrabili dell'ora presente, oltre le cifre delle potenzialità militari ed economiche!
Come potrebbero essi farsi la minima idea del peso e della importanza dell'autorità religiosa per la soluzione del problema della pace?
Spiriti superficiali, incapaci di vedere in tutta la sua verità ed ampiezza il valore e la forza creatrice del Cristianesimo, come potrebbero non rimanere scettici e sprezzanti verso la potenza pacificatrice della Chiesa?
Ma gli altri - e voglia Dio che siano la maggioranza! - si accorgeranno, più o meno consapevolmente, che, sottraendo all'autorità religiosa della Chiesa i presupposti per un'azione efficace in pro della pace, è stata resa più profonda la tragica condizione del perturbato mondo moderno.
A questo quasi intollerabile eccesso ha spinto la defezione di non pochi dalla fede cristiana.
E al delitto dell'allontanamento da Cristo si direbbe che Dio ha risposto col flagello di una minaccia permanente alla pace e dell'incubo angoscioso della guerra.
Incomparabilmente come il suo titolo giuridico per l'opera della pace, è anche il valore del contributo che la Chiesa le apporta.
La Chiesa non è una società politica, ma religiosa; ciò però non le impedisce di essere con gli Stati in rapporti non solo esterni, ma anche interni e vitali.
La Chiesa infatti è stata fondata da Cristo come società visibile, e, come tale, s'incontra con gli Stati sullo stesso territorio, abbraccia nella sua sollecitudine gli stessi uomini, e in molteplici forme e sotto vari aspetti usa i medesimi beni e le medesime istituzioni.
A questi rapporti esterni e quasi naturali per causa della convivenza umana se ne aggiungono altri, interni e vitali, che hanno il loro principio e la loro origine nella persona di Gesù Cristo, in quanto Capo della Chiesa.
Poichè il Figlio di Dio, facendosi Uomo e vero uomo, entrò per ciò stesso in un nuovo rapporto veramente vitale col corpo sociale della umanità, col genere umano, nella sua unità implicante la eguale dignità personale di tutti gli uomini, e nelle molteplici società particolari, in quelle soprattutto che, nel seno di questa unità, sono necessarie per assicurarne l'ordine esterno e la buona organizzazione, o che almeno le danno un maggior naturale perfezionamento.
A queste società appartengono in primo luogo la famiglia, lo Stato ed anche la Società degli Stati, perchè il bene comune, fine essenziale di ognuno di essi, non può nè esistere, nè essere concepito, senza la loro relazione intrinseca con la unità del genere umano.
Sotto questo aspetto l'unione indissolubile degli Stati è un postulato naturale, è un fatto che loro s'impone ed a cui essi, sebbene talora esitanti, si sottomettono come alla voce della natura, sforzandosi altresì di dare alla loro unione un regolamento esteriore stabile, una organizzazione.
Lo Stato, la Società degli Stati con la sua organizzazione sono dunque - per loro natura, secondo l'indole sociale dell'uomo, e nonostante tutte le ombre, come attesta l'esperienza storica -, forme dell'unità e dell'ordine fra gli uomini, necessarie alla vita umana e cooperanti al suo perfezionamento.
Il loro concetto stesso dice la tranquillità nell'ordine, quella « tranquillitas ordinis », che è la definizione che S. Agostino dà della pace: esse sono essenzialmente un ordinamento di pace.
Con esse, come ordinamento di pace, Gesù Cristo, Principe della pace, - e con Lui la Chiesa, nella quale continua a vivere, - è entrato in un nuovo intimo rapporto di vitale elevazione e conferma.
Tale è il fondamento del singolare contributo che la Chiesa dà alla pace per natura sua, vale a dire quando la sua esistenza e la sua azione fra gli uomini hanno il posto che loro compete.
E come si effettua tutto ciò se non mediante il continuo, Illuminante e confortante influsso della grazia di Cristo sull'intelletto e sulla volontà dei cittadini e dei loro Capi, affinché essi riconoscano e perseguano gli scopi assegnati dal Creatore in tutti i campi della convivenza umana, si studino di dirigere verso questi fini la collaborazione degl'individui e dei popoli, ed esercitino la giustizia e la carità sociale nell'interno degli Stati e fra loro?
Se la umanità, conformandosi alla volontà divina, applicherà quel sicuro mezzo di salvezza che è il perfetto ordine cristiano nel mondo, vedrà ben presto praticamente dileguarsi fin la possibilità della stessa guerra giusta, che non avrà più alcuna ragione di essere dal momento che sarà garantita l'attività della Società degli Stati come genuino ordinamento di pace.
Le ultime Nostre parole mostrano chiaramente il Nostro pensiero su questo problema.
Anche oggi, come già altre volte, dinanzi al presepio del divino Principe della pace, Ci vediamo nella necessità di dichiarare: il mondo è ben lontano da quell'ordine voluto da Dio in Cristo, che garantisce una pace reale e durevole.
Si dirà forse che in questo caso non metteva conto di tracciare le grandi linee di quell'ordine e di porre in esso il contributo fondamentale della Chiesa all'opera della pace.
Si obietterà che in tal modo Noi non facciamo se non stimolare il cinismo degli scettici e aggravare lo scoraggiamento degli amici della pace, se questa non può essere difesa che col ricorso ai valori eterni dell'uomo e della umanità.
Ci si opporrà infine che diamo effettivamente ragione a chi nella « pace armata » veda l'ultima e definitiva parola nella causa della pace, dunque in una soluzione deprimente per le forze economiche dei popoli, esasperante per i loro nervi.
Noi stimiamo nondimeno indispensabile di fissare lo sguardo sull'ordine cristiano, oggi da troppi perduto di vista, se si vuol vedere il nodo del problema quale ora si presenta, se si vuole non solo teoricamente, ma anche praticamente, rendersi conto del contributo che tutti, e in primo luogo la Chiesa, possono veramente prestare, anche in circostanze sfavorevoli e a dispetto degli scettici e dei pessimisti.
Innanzi tutto quello sguardo convincerà ogni osservatore imparziale che il nodo del problema della pace è al presente di ordine spirituale, è manchevolezza o difetto spirituale.
Troppo scarso è nel mondo di oggi il senso profondamente cristiano, troppo pochi sono i veri e perfetti cristiani.
In tal guisa gli uomini stessi mettono ostacolo all'attuazione dell'ordine voluto da Dio.
Bisogna che ciascuno si persuada di questo carattere spirituale inerente al pericolo di guerra.
Ispirare tale persuasione è in primo luogo ufficio della Chiesa, è oggi il suo primo contributo alla pace.
Anche Noi - e più di chiunque altro - deploriamo la mostruosa crudeltà delle armi moderne.
Le deploriamo e non cessiamo di pregare che non vengano giammai adoperate.
Ma, d'altra parte, non è forse una specie di materialismo pratico, di sentimentalismo superficiale, il considerare nel problema della pace unicamente o principalmente l'esistenza e la minaccia di quelle armi, mentre si mette in non cale l'essenza dell'ordine cristiano, che è il vero garante della pace?
Da qui, tra gli altri motivi, le discrepanze e anche le inesattezze sulla liceità o la illiceità della guerra moderna; da qui parimente la illusione di uomini politici, che contano troppo sulla esistenza o sulla scomparsa di quelle armi.
Il terrore, che esse ispirano, viene perdendo a lungo andare la sua efficacia, come ogni altra causa di spavento; o almeno non basterebbe, all'occorrenza, a frenare lo scatenamento di una guerra, specialmente là ove i sentimenti dei cittadini non hanno un peso sufficiente sulle determinazioni dei loro Governi.
D'altra parte, il disarmo, ossia la riduzione simultanea e reciproca degli armamenti, da Noi sempre desiderata e invocata, è una poco solida garanzia di pace durevole, se non è accompagnata dall'abolizione delle armi dell'odio, della cupidigia e della smodata brama di prestigio.
In altri termini, chi unisce troppo strettamente la questione delle armi materiali con quella della pace, ha il torto di trascurare l'aspetto primario e spirituale di ogni pericolo di guerra.
Il suo sguardo non va al di là delle cifre, ed inoltre è necessariamente limitato al momento, in cui il conflitto minaccia di scoppiare.
Amico della pace, egli arriverà sempre troppo tardi per salvarla.
Se si vuole veramente impedire la guerra, si deve innanzi tutto cercare di sovvenire all'anemia spirituale dei popoli, alla inconsapevolezza della propria responsabilità, dinanzi a Dio e agli uomini, per la mancanza dell'ordine cristiano, che solo vale ad assicurare la pace.
A ciò sono rivolti ora gli sforzi della Chiesa.
Ma essa urta qui in una difficoltà particolare, dovuta alla forma delle presenti condizioni sociali: la sua esortazione in favore dell'ordine cristiano, in quanto fattore principale di pacificazione, è al tempo stesso uno stimolo alla giusta concezione della vera libertà.
Perchè infine l'ordine cristiano, in quanto ordinamento di pace, è essenzialmente ordine di libertà.
Esso è il concorso solidale di uomini e di popoli liberi per la progressiva attuazione, in tutti i campi della vita, degli scopi assegnati da Dio all'umanità.
È però un fatto doloroso che oggi non si stima o non si possiede più la vera libertà.
In queste condizioni la convivenza umana, come ordinamento di pace, è interiormente snervata ed esangue, esteriormente esposta ogni istante a pericoli.
Coloro, per esempio, che nel campo economico o sociale vorrebbero tutto riversare sulla società, anche la direzione e la sicurezza della loro esistenza; o che attendono oggi il loro unico nutrimento spirituale quotidiano, sempre meno da loro stessi, - vale a dire dalle loro proprie convinzioni e conoscenze, - e sempre più, già preparato, dalla stampa, dalla radio, dal cinema, dalla televisione;
come potrebbero concepire la vera libertà,
come potrebbero stimarla e desiderarla, se non ha più posto nella loro vita?
Essi cioè non sono più che semplici ruote nei diversi organismi sociali; non più uomini liberi, capaci di assumere e di accettare una parte di responsabilità nelle cose pubbliche.
Perciò, se oggi gridano: Mai più la guerra!, come sarebbe possibile fidarsi di loro?
Non è infatti la loro voce; è la voce anonima del gruppo sociale, nel quale si trovano impegnati.
Questa è la condizione dolorosa, la quale inceppa anche la Chiesa nei suoi sforzi di pacificazione, nei suoi richiami alla consapevolezza della vera libertà umana, elemento indispensabile, secondo la concezione cristiana, dell'ordine sociale, considerato come organizzazione di pace.
Invano essa moltiplicherebbe i suoi inviti a uomini privi di quella consapevolezza, ed anche più inutilmente li rivolgerebbe ad una società ridotta a puro automatismo.
Tale è la pur troppo diffusa debolezza di un mondo, che ama di chiamarsi con enfasi « il mondo libero ».
Esso s'illude o non conosce sè stesso: nella vera libertà non risiede la sua forza.
È un nuovo pericolo, che minaccia la pace e che occorre denunziare alla luce dell'ordine sociale cristiano.
Di là deriva altresì in non pochi uomini autorevoli del cosiddetto « mondo libero » una avversione contro la Chiesa, contro questa ammonitrice importuna di qualche cosa che non si ha, ma si pretende di avere, e che, per uno strano invertimento di idee, si nega ingiustamente proprio a lei: vogliamo dire la stima e il rispetto della genuina libertà.
Ma l'invito della Chiesa trova anche minor risonanza nel campo opposto.
Qui infatti si pretende di essere in possesso della vera libertà, perchè la vita sociale non ondeggia sospesa sulla inconsistente chimera dell'individuo autonomo, nè rende l'ordine pubblico il più possibile indifferente a valori presentati come assoluti, ma tutto è strettamente legato e diretto alla esistenza e allo sviluppo di una determinata collettività.
Il risultato però del sistema di cui ora parliamo non è stato felice, nè è divenuta più facile l'azione della Chiesa, perchè qui è anche meno tutelato il vero concetto della libertà e della responsabilità personale.
E come potrebbe essere diversamente, mentre Dio non vi tiene il suo posto sovrano, la vita e l'attività del mondo non gravitano intorno a Lui, non hanno in Lui il suo centro?
La società non è che una enorme macchina, il cui ordine non è che apparente, perchè non è più l'ordine della vita, dello spirito, della libertà, della pace.
Come in una macchina, la sua attività si esercita materialmente, distruggitrice della dignità e della libertà umana.
In una tale società il contributo della Chiesa alla pace e la sua esortazione all'ordine vero nella vera libertà si trovano in condizioni assai sfavorevoli.
I pretesi valori sociali assoluti possono, tuttavia, entusiasmare una certa gioventù in un momento importante della vita, mentre nell'altro campo non di rado un'altra gioventù, prematuramente delusa per amare esperienze è divenuta scettica, stanca e incapace d'interessarsi alla vita pubblica e sociale.
La pace - come abbiamo detto - non può essere assicurata se Dio non regna nell'ordine dell'universo da Lui stabilito, nella società debitamente organizzata degli Stati, in cui ciascuno di essi attua all'interno l'ordinamento di pace degli uomini liberi e delle loro famiglie, e all'esterno quello dei popoli, di cui la Chiesa, nel suo campo di azione e secondo il suo ufficio, si fa garante.
Tale è stato sempre il desiderio di uomini grandi e sapienti, anche fuori di essa, e ultimamente ancora in occasione del Concilio Vaticano ( Conc. Vat. Postulata Patrum, de re militari et bello - Coll. Lac. t. 7 n. 9 p. 861-866 ).
Intanto la Chiesa apporta il suo contributo alla pace destando e stimolando la pratica intelligenza del nodo spirituale del problema; fedele allo spirito del suo divino Fondatore e alla sua missione di carità, essa si studia, secondo le sue possibilità, di offrire i suoi buoni uffici, dovunque vede sorgere una minaccia di conflitto fra i popoli.
Questa Sede Apostolica soprattutto non si è mai sottratta, nè mai si sottrarrà, a un tale dovere.
Noi ben sappiamo e deploriamo con cuore profondamente afflitto che il Nostro invito alla pace, in vaste regioni del mondo, non giunge che ammortito ad una « Chiesa del silenzio ».
Milioni di uomini non possono professare apertamente la loro responsabilità dinanzi a Dio per la pace.
Nei loro stessi focolari, nelle loro chiese, perfino l'antica tradizione del presepe, così intima e familiare, è stata sterminata dal dispotico arbitrio di potenti.
Milioni di uomini non sono in grado di esercitare il loro influsso cristiano in favore della libertà morale, in favore della pace, perchè queste parole - libertà e pace - sono divenute l'usurpato monopolio di perturbatori di professione e di adoratori della forza.
Nondimeno, pure con le braccia legate, con le labbra chiuse, la « Chiesa del silenzio » risponde eccelsamente al Nostro invito.
Essa addita con lo sguardo i sepolcri ancora freschi dei suoi martiri, le catene dei suoi confessori, nella fiducia che il suo muto olocausto e le sue sofferenze siano il più valido sussidio alla causa della pace, perchè sono la più alta invocazione e il più potente titolo per ottenere dal Principe divino della pace grazia e misericordia nel compimento della sua missione.
Da pacem Domine, in diebus nostris!