Messaggio Urbi et Orbi di Natale 1953
24 dicembre 1953
« Il popolo, che abitava nelle tenebre, vide una gran luce ».
Con questa vivida immagine lo spirito profetico d'Isaia ( Is 9,1 ) preannunziò la venuta sulla terra del celeste Bambino, Padre del futuro secolo e Principe della pace.
Con questa medesima immagine, divenuta nella maturità dei tempi realtà confortatrice delle umane generazioni che si avvicendano in questo mondo pieno di caligine, Noi desideriamo, diletti figli e figlie dell'Orbe cattolico, esordire il Nostro Messaggio natalizio, e di essa servirCi per condurvi ancora una volta alla culla del neonato Salvatore, fulgida fonte di luce.
Luce che risplende nelle tenebre Luce che squarcia e vince le tenebre è, infatti, il Natale del Signore nel suo essenziale significato, che l'Apostolo Giovanni espose e compendiò nel sublime esordio del suo Vangelo, riecheggiante la solennità della prima pagina del Genesi all'apparire della prima luce.
« Il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi; e noi fummo spettatori della sua gloria, gloria, quale l'Unigenito ha dal Padre, pieno di grazia e di verità ». ( Gv 1,14 )
Egli, vita e lume in se stesso, risplende nelle tenebre e accorda a tutti coloro, che aprono a lui i loro occhi e il loro cuore, a quelli che lo ricevono e credono in lui, il potere di divenire figli di Dio. ( Cf. Gv 1,12 )
Ma, nonostante così generosa folgorazione di luce divina, promanante dall'umile presepe, è lasciata all'uomo la tremenda facoltà di immergersi nelle antiche tenebre, causate dal primo peccato, dove lo spirito inaridisce in opere di fango e di morte.
Per siffatti ciechi volontari, resi tali per aver perduto o indebolito la fede, il Natale stesso non serba altro fascino se non quello di una festa meramente umana, risolta in poveri sentimenti ed in ricordi puramente terrestri, spesso tuttavia dolcemente accarezzata, ma come involucro senza contenuto e guscio senza nocciolo.
Persistono dunque, intorno alla radiosa culla del Redentore, zone di tenebre, e si aggirano uomini dagli occhi spenti al fulgore celeste, non perché il Dio Incarnato non abbia, pur nel mistero, luce per illuminare ciascuno che viene in questo mondo, ma perché molti, abbagliati dall'effimero splendore degli ideali e delle opere umane, circoscrivono il loro sguardo nei confini del creato, incapaci come sono di sollevarlo al Creatore, principio, armonia e fine di ogni cosa esistente.
A questi uomini delle tenebre desideriamo additare la « gran luce » irradiata dal presepe, invitandoli, prima di ogni altra cosa, a riconoscere la causa odierna che li fa ciechi ed insensibili al divino.
Essa è la soverchia, talora esclusiva stima, del cosidetto « progresso tecnico ».
Questo, sognato dapprima quale mito onnipotente e dispensatore di felicità, poi promosso con ogni industria fino alle più ardite conquiste, si è imposto sulle comuni coscienze quale fine ultimo dell'uomo e della vita, sostituendosi pertanto a qualsiasi genere d'ideali religiosi e spirituali.
Oggi si vede con sempre maggior chiarezza che la sua indebita esaltazione ha accecato gli occhi degli uomini moderni, ha reso sorde le loro orecchie, tanto che si avvera in essi ciò che il Libro della Sapienza flagellava negli idolatri del suo tempo; ( Sap 13,1 ) essi sono incapaci d'intendere dal mondo visibile Colui che è, di scoprire il lavoratore dalla sua opera; e anche più oggi, per coloro che camminano nelle tenebre, il mondo del soprannaturale e l'opera della Redenzione, che trascende tutta la natura ed è stata compiuta da Gesù Cristo, restano avvolti in una totale oscurità.
Eppure non dovrebbe accadere siffatto traviamento, né le presenti Nostre rimostranze hanno da essere intese quale riprovazione del progresso tecnico in sé.
La Chiesa ama e favorisce i progressi umani.
È innegabile che il progresso tecnico viene da Dio, dunque può e deve condurre a Dio.
Accade infatti spessissimo che il credente, nell'ammirare le conquiste della tecnica, nel servirsene per penetrare più profondamente nella conoscenza della creazione e delle forze della natura e per meglio dominarle mediante le macchine e gli apparecchi, al fine di ridurle al servizio dell'uomo e all'arricchimento della vita terrena, si senta come trascinato ad adorare il Datore di quei beni che egli ammira ed utilizza, ben sapendo che il Figlio eterno di Dio è il « primogenito di tutte le creature, poiché in lui sono state fatte tutte le cose nei cieli e in terra, le visibili e le invisibili ». ( Col 1,15-16 )
Ben lontano dunque dal sentirsi mosso a sconfessare le maraviglie della tecnica ed il suo legittimo impiego, il credente si trova forse più pronto a piegare il ginocchio davanti al celeste Bambino del presepe, più consapevole del suo debito di gratitudine a Chi diede intelligenza e cose, più disposto ad inserire le stesse opere della tecnica a far coro con gli angeli nell'inno di Betlemme: « Gloria a Dio nel più alto dei cieli ». ( Lc 2,14 )
Egli troverà perfino naturale di porre accanto all'oro, all'incenso, alla mirra, offerti dai Magi al Dio bambino, altresì le conquiste moderne della tecnica: macchine e numeri, laboratori e scoperte, potenza e risorse.
Anzi, tale offerta è come il presentargli l'opera già da Lui stesso comandata, ed ora felicemente eseguita, seppure non terminata.
« Popolate la terra e sottomettetela »: ( Gen 1,28 ) disse Iddio all'uomo nel consegnarli la creazione in provvisorio retaggio.
Quale lungo ed aspro cammino da allora fino ai tempi presenti, nei quali gli uomini possono in qualche modo dire d'aver adempiuto il divino comando!
La tecnica infatti conduce l'uomo odierno verso una perfezione non mai raggiunta nella dominazione del mondo materiale.
La macchina moderna permette un modo di produzione, che sostituisce ed ingigantisce l'energia umana di lavoro, che si libera intieramente dall'apporto delle forze organiche ed assicura un massimo di potenziale estensivo e intensivo e al tempo stesso di precisione.
Abbracciando con uno sguardo i risultati di questa evoluzione, par di cogliere nella natura stessa il consenso di soddisfazione per quanto l'uomo ha in essa operato e l'incitamento a procedere ulteriormente nella indagine e nella utilizzazione delle sue straordinarie possibilità.
Ora, è chiaro che ogni ricerca e scoperta delle forze della natura, effettuate dalla tecnica, si risolvono in ricerca e scoperta della grandezza, della sapienza, dell'armonia di Dio.
Considerata in tal modo la tecnica, chi potrebbe disapprovarla e condannarla?
Tuttavia sembra innegabile che la stessa tecnica, giunta nel nostro secolo all'apogeo dello splendore e del rendimento, si tramuti per circostanze di fatto in un grave pericolo spirituale.
Essa sembra comunicare all'uomo moderno, prono davanti al suo altare, un senso di autosufficienza e di appagamento delle sue aspirazioni di conoscenza e di potenza sconfinate.
Con il suo molteplice impiego, con l'assoluta fiducia che riscuote, con le inesauribili possibilità che promette, la tecnica moderna dispiega intorno all'uomo contemporaneo una visione così vasta da esser confusa da molti con l'infinito stesso.
Le si attribuisce per conseguenza una impossibile autonomia, la quale alla sua volta si trasforma nel pensiero di alcuni in una errata concezione della vita e del mondo, designata col nome di « spirito tecnico ».
Ma in che cosa questo esattamente consiste?
In ciò, che si considera come il più alto valore umano e della vita trarre il maggior profitto dalle forze e dagli elementi della natura; che si fissano come scopo, a preferenza di tutte le altre attività umane, i metodi tecnicamente possibili di produzione meccanica, e che si vede in essi la perfezione della coltura e della felicità terrena.
Vi è innanzi tutto un inganno fondamentale in questa distorta visione del mondo, offerta dallo « spirito tecnico ».
Il panorama, a prima vista sconfinato, che la tecnica dispiega agli occhi dell'uomo moderno, per quanto esteso esso sia, rimane tuttavia una proiezione parziale della vita sulla realtà, non esprimendo se non i rapporti di questa con la materia.
È un panorama perciò allucinante, che finisce per rinchiudere l'uomo, troppo credulo nella immensità e nella onnipotenza della tecnica, in una prigione, vasta sì, ma circoscritta, e pertanto insopportabile, a lungo andare, al genuino suo spirito.
Il suo sguardo, ben lungi dal prolungarsi sulla infinita realtà, che non è solo materia, si sentirà mortificato dalle barriere che questa necessariamente gli oppone.
Da qui la recondita angoscia dell'uomo contemporaneo, divenuto cieco per essersi volontariamente circondato di tenebre.
Ben più gravi sono i danni che derivano dallo « spirito tecnico » all'uomo, che se ne lascia inebriare, nel settore delle verità propriamente religiose e nei suoi rapporti col soprannaturale.
Sono anche queste le tenebre a cui allude l'Evangelista S. Giovanni, che l'Incarnato Verbo di Dio è venuto a dissipare e che impediscono la comprensione spirituale dei misteri di Dio.
Non che la tecnica in se stessa esiga il rinnegamento dei valori religiosi in virtù della logica - la quale, come abbiamo detto, conduce anzi alla loro scoperta, - ma è quello « spirito tecnico » che pone l'uomo in una condizione sfavorevole per ricercare, vedere, accettare le verità e i beni soprannaturali.
La mente, che si lascia sedurre dalla concezione di vita effigiata dallo « spirito tecnico », resta insensibile, disinteressata, quindi cieca dinanzi a quelle opere di Dio, di natura del tutto diversa dalla tecnica, quali sono i misteri della fede cristiana.
Il rimedio stesso, che consisterebbe in un raddoppiato sforzo per estendere lo sguardo oltre la barriera di tenebre e per stimolare nell'anima l'interesse per le realtà soprannaturali, è reso inefficace già in partenza dal medesimo « spirito tecnico », poiché esso priva gli uomini del senso critico a riguardo della singolare irrequietezza e superficialità del nostro tempo; difetto che anche coloro, i quali approvano veramente e sinceramente il progresso tecnico, debbono pur troppo riconoscere come una delle sue conseguenze.
Gli uomini impregnati dello « spirito tecnico » difficilmente trovano la calma, la serenità e interiorità richieste per poter riconoscere il cammino che conduce al Figlio di Dio fatto uomo.
Essi arriveranno fino a denigrare il Creatore e la sua opera, dichiarando la natura umana una costruzione difettosa, se la capacità d'azione del cervello e degli altri organi umani, necessariamente limitata, impedisce l'attuazione di calcoli e di progetti tecnologici.
Ancor meno sono atti a comprendere e stimare gli altissimi misteri della vita e dell'economia divina, quale, ad esempio, il mistero del Natale, in cui l'unione del Verbo Eterno con la natura umana attua ben altre realtà e grandezze che quelle considerate dalla tecnica.
Il loro pensiero segue altri cammini ed altri metodi sotto la unilaterale suggestione di quello « spirito tecnico » che non riconosce e non apprezza come realtà se non ciò che può esprimersi in rapporti numerici e in calcoli utilitari.
Credono così di scomporre la realtà nei suoi elementi, ma la loro conoscenza rimane alla superficie e non si muove che in una sola direzione.
È evidente che chi adotta il metodo tecnico come unico strumento di ricerca della verità deve rinunziare a penetrare, ad esempio, le profonde realtà della vita organica, e ancor più quelle della vita spirituale, le realtà viventi dell'individuo e della umana società, perché non possono scomporsi in rapporti quantitativi.
Come si potrà pretendere da una mente così conformata assenso ed ammirazione dinanzi alla imponente realtà, alla quale noi siamo stati elevati da Gesù Cristo, mediante la sua Incarnazione e Redenzione, la sua Rivelazione e la sua grazia?
Anche a prescindere dalla cecità religiosa che deriva dallo « spirito tecnico », l'uomo che n'è posseduto resta menomato nel suo pensiero, precisamente in quanto per esso è immagine di Dio.
Dio è la intelligenza infinitamente comprensiva, mentre lo « spirito tecnico » fa di tutto per coartare nell'uomo la libera espansione del suo intelletto.
Al tecnico, maestro o discepolo, che vuole salvarsi da questa menomazione, non occorre soltanto augurare una educazione della mente informata a profondità, ma soprattutto una formazione religiosa, la quale, contrariamente a quanto si è talora affermato, è la più atta a proteggere il suo pensiero da influssi unilaterali.
Allora la ristrettezza della sua conoscenza sarà spezzata; allora la creazione gli apparirà illuminata in tutte le dimensioni, specialmente quando dinanzi al presepe si sforzerà di comprendere « quale sia la larghezza, la lunghezza, e l'altezza, e la profondità, e la conoscenza della carità di Cristo ». ( Cf. Ef 3,18-19 )
In caso contrario l'era tecnica compirà il suo mostruoso capolavoro di trasformare l'uomo in un gigante del mondo fisico a spese del suo spirito ridotto a pigmeo del mondo soprannaturale ed eterno.
Ma non si arresta qui l'influsso esercitato dal progresso tecnico, accolto che sia nella coscienza come qualche cosa di autonomo e di fine a se stesso.
A nessuno sfugge il pericolo di un « concetto tecnico della vita », cioè il considerare la vita esclusivamente per i suoi valori tecnici, come elemento e fattore tecnico.
Il suo influsso si ripercuote sia sul modo di vivere degli uomini moderni, sia sulle loro reciproche relazioni.
Guardatelo per un momento, in atto nel popolo, tra cui già si diffonde, e particolarmente riflettete come ha alterato il concetto umano e cristiano del lavoro, e quale influsso esercita nella legislazione e nell'amministrazione.
Il popolo ha accolto, a buon diritto, con favore il progresso tecnico, perché allevia il peso della fatica e accresce la produttività.
Ma bisogna pur confessare che se tale sentimento non è mantenuto nei retti limiti, il concetto umano e cristiano del lavoro soffre necessariamente danno.
Parimente, dal non equo concetto tecnico della vita, e quindi del lavoro, deriva il considerare il tempo libero come fine a se stesso, anziché riguardarlo e utilizzarlo come giusto sollievo e ristoro, legato essenzialmente al ritmo di una vita ordinata, in cui riposo e fatica si alternano in un unico tessuto e si integrano in una sola armonia.
Più visibile è l'influsso dello « spirito tecnico » applicato al lavoro, quando si toglie alla domenica la sua dignità singolare come giorno del culto divino e del riposo fisico e spirituale per gl'individui e la famiglia, e diviene invece soltanto uno dei giorni liberi nel corso della settimana, che possono essere altresì differenti per ciascun membro della famiglia, secondo il maggior rendimento che si spera di ricavare da tale distribuzione tecnica dell'energia materiale e umana; ovvero quando il lavoro professionale viene talmente condizionato e assoggettato al « funzionamento » della macchina e degli apparecchi, da logorare rapidamente il lavoratore, come se un anno di esercizio della professione gli avesse esaurito la forza di due o più anni di vita normale.
Rinunziamo ad esporre più distesamente come questo sistema, ispirato esclusivamente da vedute tecniche, cagioni, in contraddizione alla aspettativa, uno sperpero di risorse materiali, non meno che delle principali fonti di energia - tra le quali bisogna certo includere l'uomo stesso, - e come per conseguenza deve a lungo andare rivelarsi quale un peso dispendioso per l'economia globale.
Non possiamo tuttavia omettere di attirare l'attenzione sulla nuova forma di materialismo che lo « spirito tecnico » introduce nella vita.
Basterà accennare che esso la svuota del suo contenuto, poiché la tecnica è ordinata all'uomo e al complesso dei valori spirituali e materiali che spettano alla sua natura e alla sua dignità personale.
Dove la tecnica dominasse autonoma, la società umana si trasformerebbe in una folla incolore, in qualche cosa di impersonale e schematico, contrario pertanto a ciò che la natura ed il suo Creatore dimostrano di volere.
Senza dubbio grandi parti della umanità non sono state ancora toccate da sifatto « concetto tecnico della vita »; ma è da temere che dovunque penetri senza cautele il progresso tecnico, non tardi a manifestarsi il pericolo delle denunziate deformazioni.
E pensiamo con ansia particolare al pericolo incombente sulla famiglia, che nella vita sociale è il più saldo principio di ordine, in quanto sa suscitare tra i suoi membri innumeri servigi personali quotidianamente rinnovantisi, li lega con vincoli d'affetto alla casa e al focolare, e desta in ciascuno di essi l'amore della tradizione familiare nella produzione e nella conservazione dei beni di uso.
Là invece ove penetra il concetto tecnico della vita, la famiglia smarrisce il legame personale della sua unità, perde il suo calore e la sua stabilità.
Essa non rimane unita se non nella misura che sarà imposta dalle esigenze della produzione di massa, verso la quale sempre più insistentemente si corre.
Non più la famiglia opera dell'amore e rifugio di anime, ma desolato deposito, secondo le circostanze, o di mano d'opera per quella produzione, o di consumatori dei beni materiali prodotti.
Il « concetto tecnico della vita » non è dunque altro che una forma particolare del materialismo, in quanto offre come ultima risposta alla questione dell'esistenza una formula matematica e di calcolo utilitario.
Per questo l'odierno sviluppo tecnico, quasi conscio d'essere avvolto da tenebre, manifesta inquietudine ed angoscia, avvertite specialmente da coloro che si adoperano nella febbrile ricerca di sistemi sempre più complessi, sempre più rischiosi.
Un mondo così guidato non può dirsi illuminato da quella luce, né animato da quella vita, che il Verbo, splendore della gloria di Dio, ( Eb 1,3 ) facendosi uomo, è venuto a comunicare agli uomini.
Ed ecco che al Nostro sguardo, costantemente ansioso di scoprire all'orizzonte segni di stabile schiarita, ( se non di quella luce piena di cui parlò il Profeta ), si offre invece la grigia visione di un'Europa tuttora inquieta, ove quel materialismo, di cui abbiamo discorso, non che risolvere, esaspera i suoi fondamentali problemi, strettamente legati con la pace e con l'ordine dell'intiero mondo.
In verità esso non minaccia questo continente più seriamente che le altre regioni della terra; crediamo anzi che siano maggiormente esposti agli accennati pericoli, e particolarmente scossi nell'equilibrio morale e psicologico, i popoli che vengono raggiunti tardivamente e all'improvviso dal rapido progredire della tecnica, giacché l'importata evoluzione, non scorrendo con moto costante, ma saltando con balzi discontinui, non incontra valide dighe di resistenza, di correzione, di adeguamento, né nella maturità dei singoli, né nella tradizionale cultura.
Tuttavia le Nostre gravi apprensioni a riguardo dell'Europa sono motivate dalle incessanti delusioni in cui vanno a naufragare, ormai da anni, i sinceri desideri di pace e di distensione accarezzati da questi popoli, anche per colpa della impostazione materialistica del problema della pace.
Noi pensiamo in modo particolare a coloro che giudicano la questione della pace come di natura tecnica, e guardano la vita degli individui e delle nazioni sotto l'aspetto tecnico-economico.
Questa concezione materialistica della vita minaccia di divenire la regola di condotta di affaccendati agenti di pace e la ricetta della loro politica pacifista.
Essi stimano che il segreto della soluzione stia nel dare a tutti i popoli la prosperità materiale mediante il costante incremento della produttività del lavoro e del tenore di vita così come, cento anni or sono, un'altra simile formula riscoteva l'assoluta fiducia degli Statisti: Col libero commercio la eterna pace.
Ma nessun materialismo è stato mai un mezzo idoneo per instaurare la pace, essendo questa innanzi tutto un atteggiamento dello spirito, e, soltanto in second'ordine, un equilibrio armonico di forze esterne.
È dunque un errore di principio affidare la pace al materialismo moderno, che corrompe l'uomo alle sue radici e soffoca la sua vita personale e spirituale.
Alla medesima sfiducia conduce, del resto, l'esperienza, la quale dimostra, anche ai nostri giorni, che il dispendioso potenziale di forze tecniche ed economiche, quando sia distribuito più o meno egualmente tra le due parti, impone un reciproco intimorimento.
Ne risulterebbe quindi soltanto una pace della paura; non la pace, che è sicurezza dell'avvenire.
Occorre ripetere e senza stancarsi, e persuaderne coloro, tra il popolo, i quali si lasciano facilmente allucinare dal miraggio che la pace consiste nell'abbondanza dei beni, mentre essa, la sicura e stabile pace, è soprattutto un problema di unità spirituale e di disposizioni morali.
Essa esige, sotto pena di rinnovata catastrofe per l'umanità, che si rinunzi alla fallace autonomia delle forze materiali, le quali, ai nostri tempi, non si distinguono gran che dalle armi propriamente belliche.
La presente condizione di cose, non migliorerà, se tutti i popoli non riconosceranno i comuni fini spirituali e morali della umanità, se non si aiuteranno ad attuarli, e per conseguenza se non s'intenderanno mutuamente per opporsi alla dissolvente discrepanza che domina fra di loro riguardo al tenore di vita e alla produttività del lavoro.
Tutto ciò può esser fatto, ed è anzi impellente che si faccia nell'Europa, producendo quella unione continentale tra i suoi popoli, differenti bensì, ma geograficamente e storicamente l'uno all'altro legati.
Un valido incoraggiamento per tale unione è il manifesto fallimento della contraria politica e il fatto che i popoli stessi, nei ceti più umili, ne attendono l'attuazione, stimandola necessaria e praticamente possibile.
Il tempo sembra dunque maturo a che l'idea divenga realtà.
Pertanto Noi esortiamo all'azione innanzi tutto gli uomini politici cristiani, ai quali basterà ricordare che ogni sorta d'unione pacifica di popoli fu sempre un impegno del Cristianesimo.
Perché ancora esitare?
Il fine è chiaro; i bisogni dei popoli sono sotto gli occhi di tutti.
A chi chiedesse in anticipazione l'assoluta garanzia del felice successo, dovrebbe rispondersi che si tratta, bensì, di un'alea, ma necessaria; di un'alea, ma adatta alle possibilità presenti; di un'alea ragionevole.
Occorre senza dubbio procedere cautamente; avanzare con ben calcolati passi; ma perché diffidare proprio ora dell'alto grado conseguito dalla scienza e dalla prassi politica, le quali sanno bastevolmente prevedere gli ostacoli e approntare i rimedi?
Induca soprattutto all'azione il grave momento in cui l'Europa si dibatte: per essa non vi è sicurezza senza rischio.
Chi esige un'assoluta certezza, non dimostra buona volontà verso l'Europa.
Sempre in vista di questo scopo, Noi esortiamo altresì gli uomini politici cristiani all'azione nell'interno dei loro Paesi.
Se l'ordine non regna nella vita interna dei popoli, è vano attendere l'unione dell'Europa e la sicurezza di pace nel mondo.
In un tempo come il nostro, in cui gli errori si mutano facilmente in catastrofi, un uomo politico cristiano non può - oggi meno che mai - accrescere le tensioni sociali interne, drammatizzandole, trascurando ciò che è positivo, e lasciando smarrire la retta visione di quel che è ragionevolmente possibile.
A lui si chiede tenacia nell'attuazione della dottrina sociale cristiana, tenacia e fiducia, più di quanto ne dimostrano gli avversari verso i loro errori.
Se la dottrina sociale cristiana, da oltre cento anni, si è sviluppata ed è stata resa feconda nella pratica politica di molti popoli - purtroppo non di tutti, - coloro che sono troppo tardi arrivati non hanno oggi motivo di lamentare che il Cristianesimo lascia nel campo sociale una lacuna, che, secondo essi, è da colmare mediante una cosiddetta rivoluzione delle coscienze cristiane.
La lacuna non è nel Cristianesimo, ma nella mente dei suoi accusatori.
Essendo così, l'uomo politico cristiano non serve la pace interna, né, per conseguenza, la pace esterna, quando abbandona la base solida della esperienza oggettiva e dei chiari principî e si trasforma quasi in un banditore carismatico di una nuova terra sociale, contribuendo ad aggravare il disorientamento delle menti già incerte.
Di ciò si rende colpevole chi crede di poter fare esperimenti sull'ordine sociale, e specialmente chi non è risoluto a far prevalere in tutti i gruppi la legittima autorità dello Stato e l'osservanza delle giuste leggi.
Occorre forse dimostrare che la debolezza dell'autorità scalza la solidità d'un Paese più che tutte le altre difficoltà, e che la debolezza d'un Paese porta con sé l'indebolimento dell'Europa e mette in pericolo la pace generale?
Occorre dunque reagire all'errata opinione, secondo cui il giusto prevalere dell'autorità e delle leggi apra necessariamente la strada alla tirannia.
Noi stessi, alcuni anni or sono, in questa stessa ricorrenza, ( 24 dicembre 1944 ) parlando della democrazia, abbiamo notato che in uno Stato democratico, non meno che in ogni altro bene ordinato, l'autorità deve essere vera ed effettiva.
Senza dubbio la democrazia vuole attuare l'ideale della libertà; ma ideale è soltanto quella libertà che si allontana da ogni sfrenatezza, quella libertà che congiunge con la consapevolezza del proprio diritto il rispetto verso la libertà, la dignità e il diritto degli altri, ed è cosciente della propria responsabilità verso il bene generale.
Naturalmente questa genuina democrazia non può vivere e prosperare che nell'atmosfera del rispetto verso Dio e della osservanza dei suoi comandamenti, non meno che della solidarietà o fraternità cristiana.
In tal guisa, diletti figli e figlie, l'opera della pace, promessa agli uomini nello splendore della notte di Betlemme, si compirà infine con la buona volontà di ciascuno, ma essa s'inizia nella pienezza della Verità che fuga le tenebre delle menti.
Come nella creazione « al principio era il Verbo », e non le cose, non le loro leggi, non la loro potenza e abbondanza, così, nella esecuzione della misteriosa impresa affidata dal Creatore all'umanità, deve porsi al principio il medesimo Verbo, la sua verità, la sua carità e la sua grazia; e soltanto dopo la scienza e la tecnica.
Quest'ordine abbiamo voluto esporvi, e vi esortiamo a tutelare validamente.
Ci sta a fianco la storia, che voi sapete essere buona maestra.
Sembra tuttavia che dinanzi al suo insegnamento coloro che non lo intendono, inclinati perciò a tentare nuove avventure, siano più numerosi degli altri, sacrificati dalla loro follia.
Noi abbiamo parlato in nome di queste vittime, che piangono ancora per tombe vicine e lontane, e già debbono temere che se ne aprano altre; che abitano ancora fra le rovine, e già vedono approssimarsi nuove distruzioni; che attendono ancora prigionieri e dispersi, e già temono per la loro propria libertà.
Il pericolo è così grande che, dalla culla del Principe eterno della pace Noi abbiamo dovuto proferire parole gravi, anche a rischio di provocare timori ancor più vivi.
Ma si può sempre confidare che, con la grazia di Dio, sarà un timore salutare ed efficace, che conduca verso l'unione dei popoli, rafforzando così la pace.
Ascolti queste Nostre ansie e voti la Madre di Dio e Madre degli uomini, l'Immacolata Maria, ai cui altari si prostrano quest'anno in modo speciale i popoli della terra, affinché interponga tra questa ed il Trono di Dio la sua materna intercessione.
Con tale augurio sulle labbra e nel cuore, impartiamo a voi tutti, diletti figli e figlie, alle vostre famiglie, e specialmente agli umili, ai poveri, agli oppressi, ai perseguitati per la loro fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, con effusione di cuore la Nostra paterna Apostolica Benedizione.