Messaggio Urbi et Orbi di Natale 1955
24 dicembre 1955
A tutto il mondo.
Col cuore aperto ad accogliere la tenera letizia che il Natale del Redentore effonderà ancora una volta nelle anime dei credenti, desideriamo di esprimere a voi, diletti figli e figlie della cristianità, e indistintamente a tutti gli uomini, i Nostri paterni auguri, traendone l'argomento, come negli anni scorsi, dall'inesauribile mistero di luce e di grazia, che rifulse dalla culla dell'Infante divino nella santa Notte di Betlemme, il cui bagliore mai non si estinguerà, finché risoneranno sulla terra i doloranti passi di chi cerca tra le spine il sentiero della vera vita.
Quanto vorremmo che gli uomini tutti, sparsi sui continenti, nelle città, nei borghi, nelle valli, nei deserti, nelle steppe, sulle distese dei ghiacci e dei mari, sull'intero globo, riascoltassero, come rivolta a ciascuno di essi in particolare, la voce dell'Angelo, annunziante il mistero della divina grandezza e dell'infinito amore, che, chiudendo un passato di tenebre e di condanna, diede principio al regno della verità e della salvezza!
« Non temete, poiché io vi do una buona novella di grande allegrezza per tutto il popolo.
Oggi nella città di David è nato per voi un Salvatore che è il Cristo Signore ». ( Lc 2,10-11 )
Vorremmo che, al pari dei semplici pastori, i quali per primi accolsero in silente adorazione il salvifico messaggio, gli uomini di oggi fossero soggiogati e rapiti dal medesimo senso di stupore, che soffoca ogni umana parola, e piega la mente alla meditativa adorazione, quando una sublime maestà si rivela ai loro occhi: quella del Dio Incarnato.
Vi è però da chiedersi con trepida ansia, se l'uomo moderno è ancora disposto a lasciarsi avvincere da tanta soprannaturale grandezza e penetrare dalla sua intima letizia:
quest'uomo, quasi convinto di un suo accresciuto potere, incline a misurare la propria statura dalla potenza dei suoi strumenti,
delle sue organizzazioni,
delle sue armi,
dalla precisione dei suoi calcoli,
dal numero dei suoi prodotti,
dalla distanza ove può giungere la sua parola, il suo sguardo, il suo influsso;
quest'uomo che ormai discorre con orgoglio di una età di facile benessere, quasi fosse a portata di mano;
che, come sicuro di sé e del suo avvenire, tutto osa, spinto da incontenibile ardimento a strappare alla natura l'ultimo suo segreto, a piegarne al suo volere le forze,
bramoso di penetrare con la propria presenza fisica anche negli spazi interplanetari.
In verità l'uomo moderno, appunto perché in possesso di tutto ciò che lo spirito e il lavoro umano hanno prodotto nel corso dei tempi, dovrebbe anche più riconoscere la infinita distanza fra la sua opera immediata e quella dell'immenso Dio.
Ma la realtà è ben diversa, perché le false o ristrette visioni del mondo e della vita accettate dagli uomini moderni non solo impediscono loro di trarre dalle opere di Dio, e in particolare dalla Incarnazione del Verbo, un senso di ammirazione e di gaudio, ma sottraggono loro la facoltà di riconoscervi l'indispensabile fondamento, che dà consistenza e armonia alle opere umane.
Non pochi infatti si lasciano come abbagliare dal limitato splendore che da queste promana, restii all'intimo stimolo di cercarne la fonte e il coronamento al di fuori e al di sopra del mondo della scienza e della tecnica.
A somiglianza dei costruttori della torre di Babele, essi sognano una inconsistente « divinizzazione dell'uomo », idonea e bastevole per ogni esigenza della vita fisica e spirituale.
In essi la Incarnazione di Dio e la sua « abitazione fra noi », ( Cf. Gv 1,14 ) non suscitano nessun profondo interesse, nessuna feconda commozione.
Il Natale non ha per essi altro contenuto né linguaggio se non quelli che può esprimere una culla: sentimenti più o meno vivi, ma soltanto umani, quando pure non sono sopraffatti da costumanze mondane e chiassose, le quali profanano anche il semplice valore estetico e familiare, che il Natale, a guisa di lontano riflesso, irradia dalla grandezza del suo mistero.
Altri invece, per vie opposte, giungono alla disistima delle opere di Dio, precludendosi in tal modo l'accesso all'arcana letizia del Natale.
Edotti dalla dura esperienza degli ultimi due decenni, che hanno dimostrato, come essi dicono, la brutalità in veste umana della presente società, denunciano aspramente l'esteriore lustro della sua facciata, negano ogni credito all'uomo e alle sue opere, né celano il profondo disgusto, che la soverchia sua esaltazione provoca nei loro animi.
Pertanto essi auspicano che l'uomo rinunzi al febbrile esteriore dinamismo, soprattutto tecnico, che si chiuda in se stesso, ove troverà la ricchezza di una vita interiore tutta sua, esclusivamente umana, tale da soddisfare ogni possibile esigenza.
Tuttavia questa interiorità tutta umana è inabile a mantenere la promessa che le si attribuisce, di corrispondere cioè alla totale esigenza dell'uomo.
Essa è piuttosto una solitudine sdegnosa, quasi disperata, suggerita dal timore e dalla incapacità di darsi un ordine esterno, e non ha nulla in comune con la genuina interiorità completa, dinamica e feconda.
In questa, infatti, l'uomo non è solo, ma convive col Cristo, condividendone i pensieri e l'azione, a Lui si affianca da amico, discepolo e quasi collaboratore, e da Lui è sospinto e sostenuto nell'affrontare il mondo esterno secondo le divine norme, poiché Egli è « il pastore e custode delle anime nostre ». ( Cf. 1 Pt 2,25 )
Tra gli uni e gli altri, poi, che l'errata concezione dell'uomo e della vita sottrae al determinante e salutare influsso del Dio Incarnato, sta il vasto ceto di coloro, che né sentono orgoglio per l'esterno splendore della odierna umanità, né intendono di ritirarsi in se stessi per vivere solo di quanto può dare lo spirito.
Sono quelli che si dicono soddisfatti se riescono a vivere del momento, di null'altro interessati e bramosi se non che sia loro assicurata la massima disponibilità di beni esteriori, e che nel momento successivo non vi sia da temere alcuna menomazione nel loro tenore di vita.
Né la grandezza di Dio, né la dignità dell'uomo, ambedue mirabilmente e visibilmente esaltate nel mistero del Natale, fanno presa su questi poveri spiriti, divenuti insensibili e inetti a dare un senso alla loro vita.
Ignorata o rigettata in tal modo la presenza del Dio Incarnato, l'uomo moderno ha costruito un mondo, in cui le meraviglie si confondono con le miserie, ricolmo d'incoerenze, come una via senza sbocco, o come una casa fornita di tutto, ma che per la mancanza del tetto è incapace di dare la desiderata sicurezza ai suoi abitanti.
In alcune Nazioni, infatti, nonostante l'enorme sviluppo del progresso esteriore, e benché a tutte le classi del popolo sia assicurato il materiale mantenimento, serpeggia e si estende un senso d'indefinibile malessere, un'attesa ansiosa di qualche cosa che debba accadere.
Ritorna qui alla mente l'aspettazione dei semplici pastori delle campagne di Betlemme, i quali però con la loro sensibilità e prontezza possono insegnare ai superbi uomini del secolo ventesimo, dove occorre cercare ciò che manca: « Su, andiamo fino Betlemme - essi dicono - e vediamo questo avvenimento, che il Signore ci ha fatto conoscere ». ( Lc 2,15 )
L'avvenimento già da due millenni acquisito alla storia, ma la cui verità e il cui influsso debbono tornare a prendere il loro posto nelle coscienze, è la venuta di Dio nella sua casa e nella sua proprietà. ( Cf. Gv 1,11 )
Ora l'umanità non può impunemente respingere e dimenticare la venuta e l'abitazione di Dio sulla terra, perché essa è, nella economia della Provvidenza, essenziale per stabilire l'ordine e l'armonia tra l'uomo e le sue cose, e tra queste e Dio.
L'Apostolo S. Paolo descrisse la totalità di quest'ordine in una sintesi mirabile: « Tutto è vostro, voi poi siete di Cristo, e Cristo di Dio ». ( 1 Cor 3,23 )
Chi da questo indistruttibile ordinamento volesse lasciar cadere Dio e Cristo, ritenendo delle parole dell'Apostolo soltanto il diritto dell'uomo sulle cose, opererebbe una essenziale frattura nel disegno del Creatore.
S. Paolo stesso incalzerebbe col monito: « Nessuno si glorii negli uomini ». ( 1 Cor 3,22 )
Chi non vede quanto sia attuale questo ammonimento per gli uomini del nostro tempo, così orgogliosi dei loro inventori e scopritori, i quali non soffrono più, come una volta, così spesso la dura sorte dell'isolamento, ma al contrario occupano la fantasia delle folle, ed anche la vigile attenzione degli uomini di Stato?
Altra cosa però è tributare loro il giusto onore, ed altra attendere da essi e dalle loro scoperte la soluzione del fondamentale problema della vita.
Pertanto la ricchezza e le opere, i progetti e le invenzioni, vanto e tormento dell'età moderna, debbono essere considerati in rapporto all'uomo, immagine di Dio.
Se quindi ciò che si dice progresso non è conciliabile con le leggi divine dell'ordinamento mondiale, non è certamente bene, né progresso, ma via verso la rovina.
Dall'ineluttabile epilogo non preserveranno né l'arte perfezionata dell'organizzazione, né i metodi sviluppati del calcolo, i quali non valgono a creare l'intima saldezza dell'uomo, e tanto meno a sostituirla.
Soltanto Gesù Cristo dà all'uomo quella intima saldezza.
« Quando venne la pienezza del tempo », ( Gal 4,4 ) il Verbo di Dio discese in questa vita terrena, assumendo una vera natura umana, e in tal guisa entrò anche nella vita storica e sociale della umanità, anche qui « fatto simile agli uomini », ( Fil 2,7 ) sebbene Dio dalla eternità.
La sua venuta indica pertanto che Cristo intese di porsi guida degli uomini e loro sostegno nella storia e nella società.
L'aver l'uomo guadagnato nella presente era tecnica e industriale un mirabile potere sulle cose organiche ed inorganiche del mondo, non costituisce un titolo di emancipazione dal dovere di sottostare a Cristo, Re della storia, né diminuisce la necessità che l'uomo ha di essere da Lui sostenuto.
Ed infatti l'ansia della sicurezza è divenuta sempre più forte.
L'esperienza odierna dimostra appunto che la dimenticanza o trascuranza della presenza di Cristo nel mondo ha provocato il senso di smarrimento e il difetto di sicurezza e di stabilità, proprî dell'era tecnica.
L'oblio di Cristo ha condotto a trascurare anche la realtà della natura umana, da Dio posta come fondamento della convivenza nello spazio e nel tempo.
In quale direzione allora si deve cercare la sicurezza e la intima saldezza della convivenza, se non riconducendo le menti a conservare e risvegliare i principî della vera natura umana voluta da Dio?
Vi è, cioè, un ordine naturale, anche se le sue forme mutano con gli sviluppi storici e sociali; ma le linee essenziali furono e sono tuttora le medesime: la famiglia e la proprietà, come base di provvedimento personale; poi, come fattori complementari di sicurezza, gli enti locali e le unioni professionali, e finalmente lo Stato.
A questi principî e norme s'ispiravano fin qui, nella teoria e nella pratica, gli uomini fortificati dal Cristianesimo, per attuare, in quanto era in loro potere, l'ordine che garantisce la sicurezza.
Ma, a differenza dei moderni, i nostri antenati sapevano - anche per gli errori di cui non furono esenti le loro concrete applicazioni - che le forze umane, nello stabilire la sicurezza, sono intrinsecamente limitate, e pertanto ricorrevano alla preghiera, per ottenere che un ben più alto potere supplisse la loro insufficienza.
La desuetudine invece della preghiera nella cosiddetta era industriale è il sintomo più rilevante della pretesa autosufficienza, di cui si gloria l'uomo moderno.
Troppi sono coloro che oggi non pregano più per la sicurezza, ritenendo superata dalla tecnica la domanda che il Signore pose sulle labbra degli uomini: « Dacci oggi il nostro pane quotidiano », ( Mt 6,11 ) oppure la ripetono a fior di labbra, senza un'intima persuasione della sua perenne necessità.
Ma si può veramente affermare che l'uomo abbia conquistato o sia per acquistare la piena autosufficienza?
Le moderne conquiste, certamente ammirabili, dello sviluppo scientifico e tecnico, potranno bensì dare all'uomo un vasto dominio sulle forze della natura, sulle malattie e perfino sul principio e sulla fine della vita umana; ma è anche certo che tale padronanza non potrà trasformare la terra in un paradiso di sicuro godimento.
Come dunque si potrà ragionevolmente attendere tutto dalle forze dell'uomo, se già i fatti di nuovi falsi sviluppi, e anche di nuove infermità, mostrano il carattere unilaterale di un pensiero, che vorrebbe dominare la vita esclusivamente sulla base dell'analisi e della sintesi quantitativa?
La sua applicazione alla vita sociale è non soltanto falsa, ma anche una semplificazione praticamente pericolosa di processi molto complicati.
In tali condizioni di cose anche l'uomo moderno ha bisogno di pregare e, se è assennato, è altresì pronto a pregare per la sicurezza.
Questo però non significa che l'uomo debba rinunziare a nuove forme, vale a dire ad adattare alle condizioni presenti, per la sua sicurezza, l'ordine testé indicato, che rispecchia la vera natura umana.
Nulla vieta che si stabilisca la sicurezza, utilizzando anche i risultati della tecnica e della industria; occorre però resistere alla tentazione di far sorreggere l'ordine e la sicurezza dal suaccennato metodo puramente quantitativo, che non tiene in alcun conto l'ordine della natura, come vorrebbero coloro che confidano tutto il destino dell'uomo all'immenso potere industriale della presente epoca.
Essi credono di fondare ogni sicurezza sulla sempre crescente produttività e sull'ininterrotto corso della sempre maggiore e feconda produzione della economia nazionale.
Questa, essi dicono, sulla base di un pieno e sempre più perfetto sistema automatico della produzione, e appoggiata sui migliori metodi della organizzazione e del calcolo, assicurerà a tutti gli operosi un continuo e progressivo reddito del lavoro.
In una fase successiva questo diverrà così grande, che, mediante i provvedimenti della comunità, potrà bastare alla sicurezza anche di coloro che non sono ancora o non sono più abili al lavoro, bambini, vecchi, malati.
Per stabilire la sicurezza, essi concludono, non sarà perciò più necessario il ricorso alla proprietà, sia privata che collettiva, sia in natura che in capitali.
Orbene, questo modo di ordinare la sicurezza non è una di quelle forme di adattamento dei principî naturali ai nuovi sviluppi, ma quasi un attentato all'essenza dei rapporti naturali dell'uomo coi propri simili, col lavoro, con la società.
In questo troppo artificiale sistema la sicurezza dell'uomo per la sua vita è pericolosamente separata dalle disposizioni e dalle energie per l'ordinamento della comunità, inerenti alla stessa vera natura umana, e le quali soltanto rendono possibile una unione solidale degli uomini.
In qualche modo, sebbene col necessario adattamento ai tempi, la famiglia e la proprietà debbono restare tra i fondamenti della libera sistemazione personale.
In qualche modo le comunità minori e lo Stato debbono poter intervenire come fattori complementari di sicurezza.
Pertanto risulta di nuovo vero che un metodo quantitativo, per quanto perfezionato, non può né deve dominare la realtà sociale e storica della vita umana.
Il sempre crescente tenore di vita, la sempre moltiplicantesi produttività tecnica, non sono criteri che per sé stessi autorizzano ad affermare che vi è un genuino miglioramento della vita economica di un popolo.
Soltanto una visione unilaterale del presente, e forse anche del prossimo futuro, può appagarsi di un tale criterio, ma non oltre.
Da qui deriva, talvolta per lungo tempo, uno sconsiderato consumo delle riserve e dei tesori della natura, pur troppo anche della disponibile energia umana del lavoro; poi anche, a poco a poco, una sempre più grande sproporzione tra la necessità di mantenere la colonizzazione del suolo nazionale in un ragionevole adattamento a tutte le sue possibilità produttive ed un eccessivo agglomeramento dei lavoratori.
Si aggiungano la decomposizione della società, e specialmente della famiglia, in singoli e separati soggetti del lavoro e del consumo, il crescente pericolo dell'assicurazione della vita basata sul provento della proprietà in ogni forma, tanto esposta ad ogni svalutazione della moneta, e il rischio nel riporre quella sicurezza unicamente sul corrente reddito del lavoro.
Chi, in questa epoca industriale, con diritto accusa il comunismo di aver privato della libertà i popoli su cui domina, non dovrebbe omettere di notare che anche nell'altra parte del mondo la libertà sarà un ben dubbio possesso, se la sicurezza dell'uomo non sarà più derivata da strutture che corrispondano alla sua vera natura.
La errata credenza che fa riporre la salvezza nel sempre crescente processo della produzione sociale, è una superstizione, forse l'unica del nostro razionalistico tempo industriale, ma è anche la più pericolosa, perché sembra stimare impossibili le crisi economiche, che sempre portano in sé il rischio di un ritorno alla dittatura.
Inoltre quella superstizione non è neppure atta ad erigere un saldo baluardo contro il comunismo, perché essa è condivisa dalla parte comunista ed anche da non pochi della non comunista.
In questa errata credenza le due parti s'incontrano, stabilendo in tal modo una tacita intesa, tale, da poter indurre gli apparenti realisti dell'Ovest al sogno di una possibile vera coesistenza.
Nel Radiomessaggio natalizio dello scorso anno esponemmo il pensiero della Chiesa su questo argomento, ed ora intendiamo ancora una volta di confermarlo.
Noi respingiamo il comunismo come sistema sociale in virtù della dottrina cristiana, e dobbiamo affermare particolarmente i fondamenti del diritto naturale.
Per la medesima ragione rigettiamo altresì l'opinione che il cristiano debba oggi vedere il comunismo come un fenomeno o una tappa nel corso della storia, quasi necessario « momento » evolutivo di essa, e quindi accettarlo quasi come decretato dalla Provvidenza divina.
Ma Noi, al tempo stesso, ammoniamo i cristiani dell'era industriale, nuovamente e nello spirito dei Nostri ultimi Predecessori nel supremo ufficio pastorale e di magistero, di non contentarsi di un anticomunismo fondato sul motto e sulla difesa di una libertà vuota di contenuto; ma li esortiamo piuttosto a edificare una società in cui la sicurezza dell'uomo riposi su quell'ordine morale, del quale abbiamo già più volte esposto la necessità e i riflessi e che rispecchia la vera natura umana.
Ora i cristiani, ai quali qui più particolarmente Ci rivolgiamo, dovrebbero sapere meglio degli altri che il Figlio di Dio fatto uomo è l'unico saldo sostegno della umanità anche nella vita sociale e storica, e che Egli, assumendo la natura umana, ne ha confermato la dignità come fondamento e regola di quell'ordine morale.
È dunque loro precipuo ufficio di far sì che la moderna società ritorni nelle sue strutture alle sorgenti consacrate dal Verbo di Dio fatto carne.
Se mai i cristiani trascurassero questo loro ufficio, lasciando inerte, per quanto è da loro, la forza ordinatrice della fede nella vita pubblica, commetterebbero un tradimento verso l'Uomo-Dio, apparso visibile tra noi nella culla di Betlemme.
E valga ciò a testimoniare la serietà e il profondo motivo dell'azione cristiana nel mondo, ed insieme a fugare ogni sospetto di pretese mire di potenza terrena da parte della Chiesa.
Se dunque i cristiani si uniscono a tal fine in varie istituzioni ed organizzazioni, essi non si propongono altro scopo che il servizio voluto da Dio a vantaggio del mondo.
Per questo motivo, e non per debolezza, i cristiani si collegano fra di loro.
Ma essi - ed essi soprattutto - rimangono aperti ad ogni sana intrapresa e ad ogni genuino progresso, né si ritirano in un chiuso recinto, quasi per preservarsi dal mondo.
Dediti a promuovere il comune vantaggio, non disprezzano gli altri, i quali, del resto, se sono docili al lume della ragione, potrebbero e dovrebbero accettare della dottrina del cristianesimo almeno ciò che è fondato sul diritto di natura.
Guardatevi da coloro che disprezzano quel servizio cristiano al mondo e gli oppongono un cosiddetto « puro », « spirituale » cristianesimo.
Essi non hanno compreso questa divina istituzione, a cominciare dal suo fondamento: Cristo, vero Dio, ma anche vero uomo.
L'Apostolo Paolo ci fa conoscere il pieno, integrale volere dell'Uomo-Dio, che mira ad ordinare anche questo mondo terreno; tributandoGli, ad onore, due titoli eloquenti: il « mediatore » e l'uomo. ( 1 Tm 2,5 )
Sì, l'uomo, com'è ciascuno dei suoi redenti.
Gesù Cristo non è soltanto il saldo-sostegno della umanità nella vita sociale e storica, ma anche in quella del singolo cristiano, di guisa che, come « tutte le cose furono fatte per mezzo di Lui e nulla senza di Lui », ( Gv 1,3 ) così nessuno potrà mai compiere opere degne della sapienza e della gloria divina senza di Lui.
Il concetto della necessaria integrazione e stabilità di ogni vita in Cristo fu inculcato ai fedeli fin dagli albori della Chiesa: dall'Apostolo Pietro, allorché nel portico del tempio di Gerusalemme, proclamò Cristo « τόν άρχηγόυ τής ζωής », ( At 3,15 ) cioè « autore della vita », e dell'Apostolo delle Genti, che indicava spesso quale debba essere il fondamento della nuova vita ricevuta nel battesimo: Voi - egli scriveva - fondate la vostra esistenza non sulla carne, ma sullo spirito, se veramente lo spirito di Dio abita in voi.
Che se alcuno non ha lo spirito di Cristo, non appartiene a Dio. ( Cf. Rm 8,9 )
Ogni redento pertanto, come « rinasce » in Cristo, così trovasi per Lui « al sicuro nella fede ». ( Cf. Gv 3,3; 1 Pt 1,5 )
Come potrebbe, del resto, l'individuo anche non cristiano, abbandonato a se stesso, credere ragionevolmente alla propria autonomia, completezza e saldezza, se la realtà gli presenta da ogni lato i limiti, nei quali la natura lo costringe, e che potranno bensì essere ampliati, ma non del tutto abbattuti?
La legge della limitatezza è propria della vita sulla terra, né dal suo impero si sottrasse Gesù Cristo stesso, in quanto Uomo, alla cui azione erano fissati limiti dagl'imperscrutabili consigli di Dio e conforme al misterioso congiunto operare della grazia divina e della umana libertà.
Tuttavia, mentre il Cristo-Uomo, limitato nella sua dimora terrena, ci conforta e conferma nella nostra limitatezza, il Cristo-Dio ci infonde un superiore ardimento, poiché ha la pienezza della sapienza e del potere.
Sul fondamento di questa realtà il cristiano, che si accinge animosamente e con tutti i mezzi naturali e soprannaturali a edificare un mondo secondo l'ordine naturale e soprannaturale voluto da Dio, innalzerà costantemente lo sguardo a Cristo e conterrà la sua azione entro i confini fissati da Dio.
Disconoscere ciò sarebbe volere un mondo contro la disposizione divina, e quindi pernicioso per la stessa vita sociale.
Abbiamo or ora indicato le dannose conseguenze che derivano dalla erronea sopravalutazione del potere umano e dal deprezzamento della obiettiva realtà, la quale, con un complesso di principî e di norme - religiose, morali, economiche, sociali - stabilisce limiti e mostra la giusta direzione delle umane azioni.
Ora i medesimi errori con simili conseguenze si ripetono nel campo del lavoro umano, e precisamente dell'operare e produrre nella economia.
Dinanzi al sorprendente sviluppo della tecnica, e più spesso per suggestioni ricevute, il lavoratore si sente assoluto padrone e maestro della sua esistenza, capace semplicemente di perseguire tutti gli scopi, di attuare tutti i sogni.
Chiudendo nella natura tangibile tutta la realtà, egli ravvisa nella vitalità del produrre la via per divenire uomo sempre più perfetto.
La società produttrice, che si presenta al lavoratore durevolmente come la viva ed unica realtà e come la potenza che tutti sostiene, dà la misura a tutta la sua vita; essa è pertanto l'unico suo saldo appoggio per il presente e per l'avvenire.
In essa egli vive, in essa si muove, in essa è; essa diventa alla fine per lui un surrogato della religione.
In tal guisa - si pensa - sorgerà un nuovo tipo di uomo, quello cioè che circonda il lavoro con la aureola del più alto valore etico e venera la società lavoratrice con una specie di fervore religioso.
Si domanda ora se la forza creatrice del lavoro costituisca veramente il saldo sostegno dell'uomo indipendentemente da altri valori non puramente tecnici e se quindi meriti di essere quasi divinizzata dagli uomini moderni.
No certamente; come non può esserlo qualsiasi altro potere o altra attività di natura economica.
Anche nell'epoca della tecnica la persona umana, creata da Dio e redenta da Cristo, resta elevata nel suo essere e nella sua dignità, e quindi la sua forza creatrice e l'opera sua hanno una ben superiore saldezza.
Così consolidato, anche il lavoro umano è un alto valore morale, e la umanità lavoratrice una società, che non soltanto produce oggetti, ma glorifica Dio.
L'uomo può considerare il suo lavoro come un vero strumento della propria santificazione, perché lavorando perfeziona in sé l'immagine di Dio, adempie il dovere e il diritto di procurare a sé e ai suoi il necessario sostentamento e si rende elemento utile alla società.
L'attuazione di quest'ordine gli procurerà la sicurezza ed insieme la « pace in terra » annunziata dagli angeli.
Eppure proprio a lui, uomo religioso, cristiano, si rimprovera da taluni di essere un ostacolo alla pace, di contrariare la pacifica convivenza degli uomini, dei popoli, dei diversi sistemi, perché non ritiene silenziosamente nell'intimo della coscienza le sue convinzioni religiose, ma le fa valere anche in organizzazioni tradizionali e potenti, in tutte le attività della vita, privata e pubblica.
Si afferma che un tale cristianesimo rende l'uomo prepotente, parziale, troppo sicuro e contento di sé; che lo induce a difendere posizioni, le quali non hanno più alcun senso, invece di essere aperto a tutto e a tutti, e di aver fiducia che in una generale coesistenza la intima viva fede come « spirito e amore » almeno nella croce e nel sacrificio, arrecherebbe alla comune causa un risoluto contributo.
In questo erroneo concetto della religione e del cristianesimo non abbiamo forse di nuovo dinanzi a noi quel falso culto del soggetto umano e della sua concreta vitalità, trasportato nella vita soprannaturale?
L'uomo di fronte a opinioni e a sistemi opposti alla vera religione è pur sempre legato dai limiti stabiliti da Dio nell'ordine naturale e soprannaturale.
In ossequio a questo principio il Nostro programma di pace non può approvare una indiscriminata coesistenza con tutti ad ogni costo, - certamente non a costo della verità e della giustizia.
Quegli irremovibili confini esigono infatti piena osservanza.
Ove questa si ha, anche oggi nella questione della pace la religione è in modo sicuro protetta contro l'abuso da parte della politica, mentre là ove viene ristretta alla vita puramente interna, la religione stessa è più esposta a quel pericolo.
Questo pensiero Ci conduce spontaneamente alla sempre acuta questione della pace, che forma l'incessante ansia del Nostro cuore, e di cui un parziale problema richiede in questo momento una speciale considerazione.
Intendiamo di riferirCi a una recente proposta che mira a sospendere mediante intesa internazionale gli esperimenti delle armi nucleari.
Si è parlato altresì di giungere con ulteriori passi a Convenzioni, in virtù delle quali si rinunzierebbe all'uso di quelle armi, e si sottoporrebbero tutti gli Stati a un effettivo controllo degli armamenti.
Si tratterebbe dunque di tre provvedimenti: rinunzia agli esperimenti con armi nucleari, rinunzia all'impiego di tali armi, generale controllo degli armamenti.
La somma importanza di queste proposte appare in tragica luce, se si prende a considerare quel che la scienza crede di poter dire su eventi così gravi, e che stimiamo utile di qui riepilogare brevemente.
Quanto agli esperimenti di scoppi atomici, sembra che trovi sempre maggior credito l'opinione di coloro i quali sono in apprensione per gli effetti che produrrebbe il loro moltiplicarsi.
Esso infatti con l'andare del tempo potrebbe cagionare una densità di prodotti radioattivi nell'atmosfera, la cui distribuzione dipende da cause che sfuggono al potere dell'uomo, e generare così condizioni assai pericolose per la vita di tanti esseri.
Circa l'uso: in una esplosione nucleare si sviluppa in un tempo estremamente breve una enorme quantità di energia, pari a vari miliardi di Kilovattore; essa è costituita da radiazioni di natura elettromagnetica di densità elevatissima, distribuite entro una vasta estensione di lunghezze d'onda fino ai raggi più penetranti e da corpuscoli lanciati a velocità prossime a quella della luce, provenienti da processi di disintegrazione nucleare.
Questa energia si trasmette all'atmosfera, e nel giro di millesimi di secondo eleva di centinaia di gradi la temperatura delle masse d'aria circostanti, producendo un loro spostamento violento, che si propaga con la velocità del suono.
Si hanno sulla superficie della terra, nella estensione di molti chilometri quadrati, processi di inimmaginabile violenza, con la volatilizzazione di materiali e distruzioni totali dovute all'irraggiamento diretto, alla temperatura, all'azione meccanica, mentre una enorme quantità di materiali radioattivi di vita media diversa completano e continuano la rovina con la loro attività.
Ecco pertanto lo spettacolo che si offrirebbe allo sguardo atterrito in conseguenza di tale uso:
intere città, anche fra le più grandi e ricche di storia e di arte, annientate;
una nera coltre di morte sulle polverizzate materie, che coprono innumerevoli vittime dalle membra bruciate, contorte, disperse, mentre altre gemono negli spasimi dell'agonia.
Frattanto lo spettro della nube radioattiva impedisce ogni pietoso soccorso ai sopravvissuti e si avanza inesorabile a sopprimere le superstiti vite.
Non vi sarà alcun grido di vittoria, ma soltanto l'inconsolabile pianto della umanità, che desolatamente contemplerà la catastrofe dovuta alla sua stessa follia.
Relativamente al controllo: vi è chi ha suggerito le ispezioni con aerei appositamente attrezzati allo scopo di sorvegliare grandi territori per rispetto alle esplosioni atomiche.
Altri potrebbero forse pensare alla possibilità di una rete mondiale di centri d'osservazione, tenuti ciascuno da studiosi di diversi Paesi e garantiti da solenni impegni internazionali.
Tali centri dovrebbero essere forniti di strumenti delicati e precisi di osservazione metereologica, sismica, di analisi chimiche, di spettrografie di massa, e simili, e renderebbero possibile il reale controllo su molte delle attività - pur troppo non su tutte, - che fossero state precedentemente interdette nel campo degli esperimenti mediante esplosioni atomiche.
Noi non esitiamo ad affermare, anche nel senso di Nostre anteriori Allocuzioni, che l'insieme di quei tre provvedimenti, come oggetto di una intesa internazionale, è un dovere di coscienza dei popoli e di loro governanti.
Abbiamo detto: l'insieme di quei provvedimenti, poiché il motivo del suo obbligo morale è anche lo stabilimento di una eguale sicurezza per tutti i popoli.
Se invece fosse portato ad esecuzione soltanto il primo punto, si avrebbe uno stato di cose che non attuerebbe quella condizione, tanto più che si darebbe sufficiente ragione di dubitare che si voglia realmente addivenire alla conclusione delle altre due Convenzioni.
Noi parliamo così apertamente perché il pericolo d'insufficienti proposte nella questione della pace dipende in gran parte dal reciproco sospetto che turba sovente i rapporti delle Potenze interessate, accusandosi esse vicendevolmente, sebbene in diverso grado, di pura tattica, anzi di mancanza di lealtà in una causa fondamentale per la sorte di tutto il genere umano.
Del resto, gli sforzi per la pace debbono consistere non solo nei provvedimenti miranti a restringere la possibilità di condurre una guerra; ma anche più nel prevenire o eliminare o mitigare a tempo i contrasti fra i popoli, che potrebbero provocarla.
A questa specie di pacificazione preventiva è necessario che si dedichino con perspicua vigilanza gli Uomini di Stato, penetrati da spirito di imparziale giustizia ed anche di generosità, pur nei limiti di un sano realismo.
Nel Messaggio natalizio dello scorso anno abbiamo già accennato ai focolai di contrasti che si avvertono nei rapporti fra popoli europei e quegli estraeuropei che aspirano alla piena indipendenza politica.
Si può forse lasciare che i contrasti facciano, per così dire, il loro corso, il quale facilmente porterebbe ad acuirne la gravità, a scavare negli animi solchi di odio e a creare le cosidette inimicizie tradizionali?
E non verrebbe forse un terzo a trarne vantaggio, un terzo che ambedue gli altri gruppi in fondo non vogliono e non possono volere?
In ogni modo una giusta e progressiva libertà politica non sia a quei popoli negata ed ostacolata.
All'Europa tuttavia essi riconosceranno il merito del loro avanzamento; all'Europa, senza il cui influsso, esteso in tutti i campi, essi potrebbero essere trascinati da un cieco nazionalismo a precipitare nel caos o nella schiavitù.
D'altra parte, i popoli dell'Occidente, specialmente dell'Europa, non dovrebbero nel complesso delle questioni accennate rimanere passivi in un inutile rimpianto del passato o nel mutuo rimprovero di colonialismo.
Essi dovrebbero invece porsi costruttivamente all'opera, per estendere, là ove non si sia ancora fatto, quei genuini valori dell'Europa e dell'Occidente, che tanti buoni frutti hanno arrecato in altri continenti.
Quanto più essi a ciò soltanto tenderanno, tanto più saranno di aiuto alle giuste libertà dei popoli giovani, ed essi stessi rimarranno preservati dalle seduzioni del falso Nazionalismo.
Questo è in realtà il loro vero nemico, che li ecciterebbe un giorno gli uni contro gli altri, con profitto di terzi.
Tale non infondata previsione non dovrebbe essere trascurata né dimenticata da coloro che trattano i loro problemi in Congressi, ove pur troppo riluce lo splendore di una esteriore e prevalentemente negativa unità.
In tali considerazioni e in tale modo di procedere Ci sembra che si abbia una preziosa assicurazione della pace, sotto certi aspetti anche più importante di un immediato impedimento della guerra.
Diletti figli e figlie!
Se anche oggi il Natale di Cristo irraggia nel mondo splendori di letizia e suscita nei cuori profonde emozioni, è perché nell'umile culla dell'Incarnato Figlio di Dio sono racchiuse le immense speranze delle umane generazioni.
In Lui, con Lui e per Lui la salute, la sicurezza, il destino temporale ed eterno della umanità.
A tutti e a ciascuno è aperta la via per accedere a quella culla, per attingere dagli insegnamenti, dagli esempi, dalla liberalità dell'Uomo-Dio la loro parte di grazie e di beni necessari alla presente e alla futura vita.
Ove ciò non si facesse per propria indolenza o per altrui impedimento, sarebbe vano di cercarla altrove, perché dappertutto grava la notte dell'errore e dell'egoismo, del vuoto e della colpa, della delusione e della incertezza.
Le fallite esperienze dei popoli, dei sistemi, dei singoli esseri umani, che non hanno voluto chiedere a Cristo la via, la verità, la vita, dovrebbero essere seriamente considerate e meditate da quanti credono di poter fare tutto da sé.
L'umanità di oggi colta, potente, dinamica, ha forse un maggior titolo alla terrena felicità nella sicurezza e nella pace; ma essa non varrà a tramutarla in realtà, fino a quando nei suoi calcoli, nei suoi disegni e nelle sue discussioni non inserirà il più alto e risolutivo fattore: Dio e il suo Cristo.
Ritorni il Dio-Uomo tra gli uomini, Re riconosciuto e obbedito, come spiritualmente torna ogni Natale ad adagiarsi nella culla per offrirsi a tutti.
Ecco l'augurio che Noi oggi esprimiamo alla grande famiglia umana, certi d'indicarle il cammino della sua salvezza e della sua felicità.
Si degni il divino Infante di accogliere la Nostra fervida preghiera, affinché la sua presenza sia avvertita quasi sensibilmente, come nei giorni della sua terrena dimora, nel mondo di oggi.
Vivo in mezzo agli uomini,
illumini le menti e corrobori le volontà di coloro che reggono i popoli, a questi assicuri la giustizia e la pace,
incoraggi i volonterosi apostoli del suo eterno messaggio,
sostenga i buoni,
tragga a sé gli sbandati,
conforti coloro che soffrono persecuzioni per il suo Nome e per la sua Chiesa,
soccorra i poveri e gli oppressi,
lenisca le pene ai malati, ai prigionieri, ai profughi,
dia a tutti una scintilla del suo amore divino,
affinché trionfi in ogni luogo sulla terra il suo pacifico regno.
Così sia.