Messaggio Urbi et Orbi di Natale 1956
23 dicembre 1956
L'inesauribile mistero del Natale sta per essere annunziato ancora una volta agli uomini della terra, oggi, forse più che mai, assetati di verità e di sicurezza.
L'arcano fulgore, che irraggiò nella Notte santa dall'umile culla del Figlio di Maria, ed i cori angelici annunzianti la pace, fatti rivivere nelle anime dallo splendore e dalle melodie dei sacri riti, rinnovano alla presente umanità, delusa da tante fallite speranze, il divino invito a cercare nel mistero di Dio la chiarezza e nell'amore di Lui la vita.
Possano tutti gli uomini accogliere il celeste invito, e, con la sincerità fiduciosa dei pastori, cui per primi fu rivelato il mistero del Natale, dirsi reciprocamente: « Andiamo fino a Betlemme, e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere » ( Lc 2,15 ).
La presente generazione, come le altre che la precedettero e a cui non mancarono nè il tormento dell'ignorata verità, né le angosce di terribili eventi, tornerebbe dalla culla del Redentore glorificando e lodando Dio, poichè anche di essa Cristo è l'unico Salvatore.
Sia pertanto questo, diletti figli e figlie, l'augurio natalizio che il Nostro cuore di Padre, amareggiato ma non depresso, intende di esprimervi quest'anno, in cui minacciose procelle sono tornate a sconvolgere gli orizzonti della pace.
Agli uomini nuovamente atterriti, che scrutano nella notte un lembo di luce e di sereno, tale che acquieti il loro spirito angosciato dalle profonde contraddizioni del presente secolo, Noi additiamo la divina culla di Betlemme, donde riecheggia ancora il vaticinio della sicura speranza: « Erunt prava in directa, et aspera in vias planas ».
« Le vie tortuose diventino diritte e le scabrose diventino piane » ( Lc 3,3 ).
Senza dubbio il peso di una flagrante contraddizione grava sulla umanità del ventesimo secolo, quasi ferendola nell'orgoglio: da una parte, è la fiduciosa aspettazione dell'uomo moderno, artefice e testimone della « seconda rivoluzione tecnica » di poter creare un mondo di pienezza in beni e in opere, affrancato dalla povertà e dall'incertezza; dall'altra, è l'amara realtà dei lunghi anni di lutti e di rovine col conseguente timore, in questi ultimi mesi aggravatosi, di non riuscire a fondare anche soltanto un modesto inizio di durevole armonia e pacificazione.
Qualche cosa, dunque, non procede rettamente nell'intero sistema della vita moderna, un essenziale errore deve corrodere la sua radice.
Ma dove esso si nasconde? come e da chi può essere corretto?
In una parola, riuscirà l'uomo moderno a superare, anzitutto interiormente, l'angosciosa contraddizione, di cui è autore e vittima?
I cristiani sono convinti di poterla vincere, rimanendo saldi sul terreno della natura e della fede, mediante una coraggiosa quanto prudente revisione dei valori in questione, e primariamente di quelli interiori.
Il loro realismo, che si estende sull'intero universo e non trascura le esperienze del passato, li persuade che essi non si trovano in condizioni più sfavorevoli dei loro antenati, i quali egualmente con la fede riuscirono a sormontare interiormente le contraddizioni del loro tempo.
Essi sono convinti che la stessa odierna contraddizione costituisce la prova della profonda frattura tra la vita e la fede cristiana, e che questo male occorre innanzi tutto sanare.
Ben diversa è invece l'opinione di non pochi altri, che, esasperati dalla contraddizione, ma refrattari a rinunziare al sogno della onnipotenza dell'uomo, vorrebbero sottoporre a revisione anche quei valori che non sono in loro potere, che sfuggono al dominio dell'umana libertà, quali la religione e i diritti naturali.
In sostanza, essi stimano ed insegnano che la fondamentale contraddizione del nostro tempo può essere rimossa dall'uomo stesso senza Dio e senza religione.
Essa - dicono - non potrà escludersi, finchè l'uomo moderno, creatore ed insieme creatura dell'epoca tecnica, non andrà fino in fondo sulla sua nuova strada.
E - aggiungono - egli deve persistere nell'opera iniziata di tendere il suo potere sull'essere, senza imporsi limiti e senza riguardo alla religione e all'idea, che da questa deriva, dell'uomo e del mondo.
Nel fermarsi in qualche modo a mezza strada, nella ricerca di un qualsiasi compromesso tra religione e mentalità tecnica, essi indicano l'erronea base e la radice della odierna contraddizione.
In altre parole, essi rinunziano all'invito del cielo di recarsi a Betlemme, dove l'uomo, soltanto là, può apprendere « ciò ch'è accaduto e che cosa il Signore ci ha fatto conoscere », ossia, la totale ed obiettiva nostra realtà.
Ma l'uomo della « seconda rivoluzione tecnica » non può respingere la chiamata di Dio senza inasprire la contraddizione e le sue conseguenze.
L'invito alla verità e la promessa della « pace in terra » vale anche per lui.
Chinato in adorazione davanti alla culla dell'Uomo-Dio, egli vedrà la totale verità, e quindi l'armonia del suo universo.
Nel Figlio di Dio fatto uomo riconoscerà bensì la dignità della natura umana, ma altresì i suoi limiti; egli riconoscerà che il senso profondo della vita umana e del mondo non riposa su calcolate formule e leggi, ma sul libero fatto del Creatore; egli si persuaderà che soltanto allora possederà veramente « luce » e « vita », quando si legherà alla verità come a qualche cosa di assoluto, che sfavillò per la prima volta nella sua pienezza a Betlemme.
Intorno a questo triplice riconoscimento intendiamo ora d'intrattenervi.
Il primo passo verso il superamento interiore della odierna contraddizione muove dalla conoscenza e accettazione della realtà umana in tutta la sua ampiezza.
Sulla strada verso la conquista di questa verità, in cui con pena si cimentò l'antico pensiero, il credente si muove più speditamente, poichè la fede gli spiana il cammino, rimuovendo i pregiudizi e le remore, quali sono la sfiducia dello scettico o il breve respiro del razionalista, che impediscono ogni avanzamento verso la luce.
Con la mente libera ed aperta ad ogni possibile grandezza, il cristiano non ha che da chinarsi alla culla di Betlemme per apprendere la verità sulla natura umana, raccolta, come in una visibile sintesi, nel neonato Figlio di Dio.
L'origine, l'essenza, il destino e la storia dell'uomo sono legati a quell'Infante, al fatto stesso della sua nascita tra noi.
I vagiti di Lui sono come il racconto della nostra storia, senza la cui cognizione la natura dell'uomo resterebbe un impenetrabile enigma.
Infatti, dinanzi alla culla del Redentore, il credente conosce la primigenia bontà e la forza dell'uomo, donata per grazia, non dovuta, nella felicità del Paradiso; medita però anche sulla sua debolezza, che si palesò dapprima nel peccato dei progenitori, e fu poi la dolorosa eredità che lo accompagnò, col flusso incessante di altre colpe, in tutto il successivo cammino in una terra divenuta a lui quasi ostile.
Soffermandosi a indagare intorno al suo potere, il cristiano sa che il dominio dell'uomo sopra le cose e le forze della natura, ancora per divina grazia, sarebbe stato esercitato per sè soltanto a beneficio e non a pericolo della umana società, la cui storia, di nuovo per grazia, si sarebbe iniziata senza oppressione di angustia e di miseria, ma nel libero sviluppo delle forze, tra condizioni favorevoli al più ampio ed alto progresso.
Tuttavia l'adoratore del neonato Figlio di Dio sa anche che la colpa originale e le sue conseguenze privarono l'uomo non del dominio sulla terra, bensì della sicurezza nell'esercitarlo, e sa altresì che col decadimento seguìto alla prima colpa non andarono distrutte la capacità né la destinazione dell'uomo di formare la storia, ma che il suo cammino si sarebbe trascinato con penoso avanzamento tra una mescolanza di fiducia e di angustia, di ricchezza e di miseria, di ascesa e di declino, di vita e di morte, di sicurezza e di incertezza, fino all'ultima decisione alle porte dell'eternità.
Presso la culla del neonato Figlio di Dio il credente non soltanto scopre il suo passato e le condizioni presenti della sua natura, bensì apprende il suo nuovo destino, opera di un amore infinito, e in che modo egli può riguadagnare le perdute altezze.
Egli sa infatti che in quella culla giace l'umano e divino Salvatore, il suo Redentore, venuto tra gli uomini per sanare le ferite mortali inflitte dal peccato alle loro anime, restituire la dignità della figliolanza divina e conferire le forze della grazia, affinchè superino, se non sempre esteriormente, almeno interiormente, il generale disordine provocato dal peccato d'origine ed aggravato dalle colpe personali.
Anche quest'intimo superamento, cui è indispensabile la divina grazia, il cristiano lo compie mediante la conoscenza della vera natura umana redenta da Cristo, della sua dignità e dei suoi limiti.
Guardatelo all'opera e in che modo egli sa avvalersi di questa conoscenza a guisa di « verità che fa gli uomini liberi » ( cfr. Gv 8,32 ), e come sostegno della vita, ancorchè circostanze difficili od anche mortali impediscano il loro esterno superamento.
Un cristiano posto in simili condizioni, che sogliono spesso indurre altri a ribellarsi contro la stessa vita, non chiederà, nè desidererà da Dio nulla che non sottoponga all'assoluta sapienza e bontà del volere divino.
E, mentre trova ragionevole e giusto che Dio non sia obbligato a creare il migliore di tutti i mondi, trae conforto dal pensiero che lo stesso Dio, quale Padre amorevole, non si lascia prescrivere la misura della grazia e degli altri aiuti agli uomini, se non dall'infinita santità e giustizia della sua sempre benevola volontà, la cui mira è che tutti gli uomini possano in libertà conseguire il loro eterno fine.
Come, allora, dovrà comportarsi il credente dinanzi alla penosa contraddizione, che grava sul mondo moderno e di cui testè parlavamo?
Benché egli sia nel felice possesso di tutti gli elementi atti a dominarla nel proprio interno, non potrebbe nè dovrebbe esimersi dal contribuire a risolverla anche esteriormente.
Pertanto primo dovere del cristiano sarà di persuadere l'uomo moderno a non considerare la natura umana né con sistematico pessimismo, né con gratuito ottimismo, bensì a riconoscere le reali dimensioni del suo potere.
Egli inoltre si adopererà di far comprendere ai contemporanei della « seconda rivoluzione tecnica » che essi non hanno bisogno di liberarsi dal peso della religione, per superare la contraddizione, ed anzi per non sentirla più affatto.
Al contrario, proprio la religione cristiana pone la contraddizione sotto quella luce, che sa separare il vero dal falso ed offrire, a quanti ne soffrono la stretta, l'unico varco per uscirne senza scosse nè rovine.
Per adempire questo dovere con illuminata carità, è opportuno che il cristiano conosca più concretamente il modo di pensare dell'uomo detto moderno, tutt'altro che realistico, riguardo al peccato.
Coloro, infatti, che non tollerano negli schemi del loro mondo il concetto della colpa originale e dei peccati personali con le loro conseguenze; non potendo, d'altra parte, trascurare l'esperienza che l'uomo è predisposto anche moralmente a cadere; ascrivono le perverse inclinazioni soltanto a morbosità, a debolezza funzionale, per sè sanabili.
Ed assicurano che, non appena saranno conosciute pienamente le leggi, alle quali l'uomo è sottoposto nei suoi rapporti col mondo circostante e fin nelle profondità della sua anima, si giungerà al completo risanamento delle presenti deficienze.
Occorrerà perciò - essi soggiungono - attendere il giorno, in cui dalla piena conoscenza del meccanismo interiore dell'uomo sorgerà l'arte terapeutica atta a guarire le sue morali disposizioni morbose.
Come il moderno potere sulla natura esteriore, frutto della conoscenza approfondita delle leggi che la governano, rende possibile ogni costruzione tecnica, così non vi è ragione di dubitare che altrettanto successo sarà ottenuto nel regolare il complesso morale dell'uomo.
Perchè mai - essi si domandano - soltanto l'uomo dovrebbe rimanere la sola costruzione invincibilmente falsa e irriducibile?
Di tal modo di falsare la realtà, già fin da ora si raccolgono le deplorevoli conseguenze.
La mollezza generalmente lamentata nell'educazione, la eccessiva indulgenza di fronte al delitto, il silenzio sulla colpa e l'avversione all'idea della pena anche giusta, sono le immediate conseguenze di una concezione dell'uomo, nella quale tutto è in sè buono, e tutte le mancanze si afferma - derivano dal non saper adattare rettamente l'uomo nell'ingranaggio di funzioni, a cui egli col suo mondo circostante è soggetto.
Il medesimo schema viene dagli stessi fautori applicato altresì alle questioni della vita sociale.
Nei problemi angosciosi della moderna democrazia non occorre - a loro avviso - chiamare in causa la coscienza ed il senso morale degli uomini, bensì la loro temporanea incapacità costruttiva, a sua volta frutto della ignoranza e del rifiuto di prendere in seria considerazione la bontà dell'uomo, che è alla fin fine propria di tutti.
Pertanto - essi aggiungono - approfondendo sempre più la conoscenza delle norme naturali che dominano l'uomo e il suo mondo, le buone qualità di tutti saranno realmente messe in valore e l'autorità e la responsabilità distribuite su molti, anzi propriamente su tutti.
Ciò nondimeno, come comportarsi di fronte alle deficienze che la vita sociale e statale presenta, quali l'anonimità del potere, l'assorbimento dell'individuo nella massa, l'incerto equilibrio tra le forze in giuoco nella società?
I seguaci del cosiddetto realismo assicurano che, per escludere tali inconvenienti, basterà inserire il principio della responsabilità personale e dell'equilibrio delle energie nel complesso in certo modo macchinale e puramente funzionale della vita associata.
E ripetono: come la più diffusa conoscenza delle leggi e delle funzioni della natura esteriore ha conseguito le più ardite attuazioni tecniche, così, nel campo delle strutture sociali, sarà sufficiente un'accresciuta cognizione delle leggi, che regolano il loro meccanismo, per venire a capo di una perfetta società.
Ma possono veramente giustificarsi le aspettative fondate sopra una concezione che, mentre si vanta d'essere realistica, dimostra di ignorare la vera natura dell'uomo?
È proprio vero che le sue cosiddette predisposizioni al male non sono più che sanabili difetti di un corso normale, non altro che guasti di una macchina o di un apparecchio, che si rimuovono mediante un accresciuto sapere tecnologico?
Anche ammettendo, come è vera, che l'uomo risente l'impulso di molti svolgimenti naturali e di complessi funzionali, egli resta tuttavia, ben altrimenti che la materia, la pianta e l'animale, al di sopra di essi, e, pur riconoscendone il senso e l'importanza, sarà sempre il loro signore, che in libera causalità in un modo o in altro li inserisce nel corso degli eventi.
L'uomo domina quegli svolgimenti e complessi, perchè è soprattutto una sostanza spirituale, una persona, un soggetto di libera azione ed omissione, e non soltanto il punto d'intreccio nello svolgersi di quei processi naturali.
In ciò consiste la sua dignità, ma anche il suo limite.
Perciò egli è capace di fare il bene, ma anche il male; capace di attuare tutte le possibilità e disposizioni positive del suo essere, ma anche di metterle in pericolo.
Orbene, appunto questo cimento, che, a causa dei grandi valori in giuoco, ha assunto nel ventesimo secolo proporzioni molto ampie, crea e spiega l'angosciosa contraddizione avvertita dai contemporanei.
Non vi è altro rimedio per superarla che il ritorno al vero realismo, al realismo cristiano, che abbraccia con la medesima certezza la dignità dell'uomo, ma anche i suoi limiti, la capacità di superarsi, ma anche la realtà del peccato.
Non così quel falso realismo, di cui desideriamo di accennare qualcuna delle infauste applicazioni.
È cosa chiara che esso mina alla radice la privata e pubblica moralità, svuotando di ogni loro valore positivo i concetti di coscienza e di responsabilità, e indebolendo quello del libero arbitrio.
Parimente dannose le conseguenze nel campo dell'educazione, come già fin d'ora si può rilevare là ove questa risente l'influsso, più o meno larvato, del falso realismo: scuole che non si propongono affatto, o soltanto subordinatamente, l'intento pedagogico; genitori ridotti all'incapacità morale di educare rettamente i figli con l'esempio e con la guida; tutto ciò è anche maggiormente causa del fallimento, oggi apertamente deplorato, nella educazione, che i difetti e gli sbagli, egualmente non trascurabili, dei figli stessi.
Come l'uomo maturo, così gli educatori e i fanciulli nella preparazione alla vita, dovrebbero tornare a confessare la realtà del peccato e della grazia, non prestando l'orecchio alle parole di pure e semplici predisposizioni, da cui guarirebbero la medicina e la psicologia. …
Una più larga applicazione trova il falso realismo nella odierna struttura democratica, la cui insufficienza, come accennammo, dipenderebbe da semplici difetti delle istituzioni, da attribuirsi alla ancora manchevole conoscenza dei processi naturali e del complesso delle funzioni del meccanismo sociale.
Ora anche lo Stato e la sua forma dipendono dal carattere morale dei cittadini, specialmente oggi che lo Stato moderno, nell'alto sentimento delle possibilità tecniche e organizzative, è pur troppo inclinato a sottrarre al singolo, mediante pubbliche istituzioni, il pensiero e la responsabilità per la sua vita.
Una democrazia moderna così costituita dovrà dunque fallire dovunque essa non si rivolge più, o non può più rivolgersi, alle singole responsabilità morali dei cittadini.
Ma anche se volesse, non sarebbe in grado di farlo con positivo successo, poiché non troverebbe risposta dovunque il senso della vera realtà dell'uomo, la coscienza della dignità della natura umana e dei suoi limiti, non sono più vivi nel popolo.
Si cerca di riparare con l'intraprendere grandi riforme istituzionali, non di rado dalle dimensioni troppo ampie o poste su falsi fondamenti; ma la riforma delle istituzioni non è così urgente come quella dei costumi.
La quale, a sua volta, non può essere compiuta che sulla base della vera realtà dell'uomo, quale si apprende con religiosa umiltà dinanzi alla culla di Betlemme.
Anche nella vita degli Stati la forza e la debolezza morale degli uomini, i peccati e la grazia, hanno una parte definitiva.
La politica del secolo ventesimo non può ignorarlo, né tollerare che s'insista nell'errore di voler separato lo Stato dalla religione, in nome di un laicismo che non ha potuto essere giustificato dai fatti.
Il secondo errore del pensiero cosidetto realistico, che sta alla base della odierna contraddizione, consiste nella pretesa di creare una società completamente nuova, senza preoccuparsi della realtà storica dell'uomo, non che del suo libero atto che la determina, nè della religione che questa libertà nutre e sanziona.
È impossibile di prevedere tutte le conseguenze di questo errore; ma la più immediata sarà la distruzione di quella sicurezza, già tanto labile, che il mondo ardentemente brama.
Il rigetto dei tre valori - realtà storica, atto libero e religione -, quasi zavorra che rallenta o inceppa nel suo corso la nave del moderno progresso, è una conseguenza dell'accennato atteggiamento di quel pensiero realistico, che non ammette limiti al potere dell'uomo, tratta ogni cosa con metodo tecnico, nutre intiera fiducia nel sapere tecnologico.
La prerogativa della umanità della presente epoca tecnica - così si afferma - consiste nel poter costruire sempre di nuovo la società con quel progressivo sapere tecnologico e senza il bisogno di prendere lezioni dal passato.
Questo anzi, con i pregiudizi d'ogni genere, ma specialmente religiosi, indebolirebbe la fiducia e ne raffredderebbe l'impulso costruttivo.
L'uomo moderno, consapevole e orgoglioso di vivere in questo mondo come in una casa che egli, ed egli solo, costruisce, si aggiudica la funzione di creatore.
Ciò che una volta fu, non l'interessa, nè l'arresta.
Tutto il mondo diviene per lui un laboratorio, ove egli collega con stretta concatenazione matematica le forze della natura, le distribuisce dosandole, forma e preordina gli eventi.
Senza dubbio vi sono ancora reazioni; vi sono ancora fatti, in cui la natura sembra resistere alla volontà e ai piani dell'uomo, e addita un tutto, che soltanto a costo di serie conseguenze, se non proprio di cataclismi, può essere scomposto negli ultimi elementi.
Quindi non è da meravigliare che l'uomo moderno, nell'accostarsi alla vita sociale, lo faccia col gesto del tecnico che, dopo di aver decomposto una macchina nei suoi primissimi elementi, si accinge a ricostruirla secondo un modello suo proprio.
Ma trattandosi di realtà sociali, la sua brama di creare cose del tutto nuove s'imbatte in un ostacolo insormontabile, ossia, nella stessa società umana con i suoi ordinamenti consacrati dalla storia.
La vita sociale infatti è qualche cosa venuta all'essere lentamente con molti travagli, e quasi per successive stratificazioni dei contributi positivi arrecati dalle precedenti generazioni.
Solo appoggiando le nuove fondamenta sopra questi solidi strati, è possibile costruire ancora qualche cosa di nuovo.
Il dominio della storia sopra le realtà sociali del presente e del futuro è dunque incontestabile, nè può essere negletto da chi voglia porvi mano per migliorarle o adattarle ai nuovi tempi.
Ma i pretesi realisti, nell'intento di superare ad ogni costo la resistenza della realtà storica, rivolgono il loro zelo di distruzione alla religione, colpevole, secondo loro, di aver creato e di voler mantenere in vita tutto il passato, e particolarmente le sue forme più scadenti; rea soprattutto di consolidare le idee sociali dell'uomo entro schemi assoluti, quindi immutabili.
Essa costituisce dunque un ingombro sul cammino del futuro, ed è perciò da rimuovere.
Senza dubbio la religione cristiana riconosce e rispetta il dominio della storia sul presente e l'avvenire della umana società, perchè tutto ciò che è vera realtà, il credente non può ignorarlo nè respingerlo.
Egli sa che non un evento svolgentesi secondo necessità meccaniche è a fondamento della umana realtà e società, ma la libera e sempre benevola azione di Dio, e la libera azione degli uomini, un'azione animata da amore e da fedeltà dovunque essi seguono l'ordinamento di Dio.
Così nella culla di Betlemme il senso profondo della storia dell'uomo, passato e futuro, diviene realmente corporeo ed abbraccia il quantunque triste, presente, che il cristiano affronta con la consolante convinzione della sicurezza.
La sicurezza!
La più viva aspirazione dei contemporanei!
Essi la chiedono alla società e ai suoi ordinamenti.
Ma i pretesi realisti di questo secolo hanno dimostrato di non essere in grado di darla, proprio perché si vogliono sostituire al Creatore e farsi arbitri dell'ordinamento della creazione.
La religione e la realtà del passato insegnano invece che le strutture sociali, come il matrimonio e la famiglia, la comunità e le comunanze professionali, l'unione sociale nella proprietà personale, sono cellule essenziali, che assicurano la libertà dell'uomo, e con ciò il suo ufficio nella storia.
Sono pertanto intangibili, e la loro sostanza non può essere soggetta ad arbitraria revisione.
Chi davvero cerca libertà e sicurezza, deve restituire la società al suo vero e supremo Ordinatore, persuadendosi che soltanto il concetto di società derivante da Dio lo protegge nelle sue più importanti imprese.
L'ateismo teorico od anche pratico di coloro che idolatrano la tecnologia e il processo meccanico degli eventi, finiscono necessariamente per diventare nemici della vera libertà umana, poichè essi trattano con l'uomo come con le cose inanimate in un laboratorio.
Queste considerazioni sono meno estranee e lontane dalla concretezza di quanto possano sembrare.
Ci auguriamo pertanto che vengano accolte là, ove si pensa all'elevamento dei territori poco sviluppati, delle cosidette aree depresse.
È certamente lodevole la sollecitudine per migliorare le strutture sociali esistenti e suscettive di miglioramento; ma sarebbe un errore svellere l'uomo, sotto l'influsso della tecnica e della organizzazione moderna, da tutte le tradizioni.
Quasi piante strappate al loro ambiente e trasferite in clima ostile, questi uomini si troverebbero crudelmente isolati, per poi cadere forse vittime di idee e di tendenze che, in sostanza nessuno può volere.
In tal modo il rispetto verso quanto la storia ha prodotto è il segno della genuina volontà di riforme e la garanzia del loro felice successo.
Esso vale per la storia, come quel regno di umana realtà, in cui l'uomo sociale deve occuparsi non solo con le forze della natura, ma anche con se stesso.
Responsabile, com'esso è, dinanzi a quelli che furono e che saranno, è stato dato a lui l'incarico di modellare incessantemente la vita comune, ove è sempre una evoluzione dinamica per mezzo dell'azione personale e libera, ma senza togliere la sicurezza che si ha nella società e con la società, e ove, d'altra parte, è sempre un certo fondo di tradizione e di statica per salvaguardare la sicurezza, senza però togliere da parte della società l'azione libera e personale dell'individuo.
In tal modo l'uomo tesse la sua storia, ossia coopera con Dio nell'attuazione di una realtà degna del suo soggetto ed insieme del disegno del Creatore.
È un ufficio altrettanto elevato quanto arduo, che soltanto colui, che comprende ciò che è storia e libertà, potrà adempiere felicemente, armonizzando il dinamismo delle riforme con la statica delle tradizioni, l'atto libero con la comune sicurezza.
Il cristiano, che si prostra dinanzi alla culla di Betlemme, ne comprende pienamente la necessità e la gravità, ma dalla medesima culla trae la luce e la forza per assolvere degnamente l'alto incarico.
La libertà e la responsabilità personale, la socievolezza e l'ordinamento sociale, il beninteso progresso sono dunque valori umani, perché l'uomo li attua e ne trae vantaggio, ma anche religiosi e divini, se si guarda la loro sorgente.
Ora l'intimo fondamento di questi valori si è voluto infrangere e far dimenticare nei tempi moderni dalla società, anche in Occidente, in nome del laicismo, della vana autosufficienza dell'uomo.
Si è così pervenuti a questa singolare condizione, eh non pochi uomini della vita pubblica, privi essi stessi di vivo sentimento religioso, per il bene comune vogliono e debbono difendere quei valori fondamentali, che tuttavia soltanto nella religione e in Dio hanno la loro sussistenza.
I pretesi realisti non amano riconoscere tale affermazione, ed anzi tanto più incolpano la religione di tramutare in lotta religiosa ciò che non sarebbe se non un contrasto nel campo politico economico.
Essi dipingono vivamente il terrore e la crudeltà delle antiche guerre di religione, per far credere che gli odierni conflitti fra l'Occidente e l'Oriente sono invece inoffensivi, e che basterebbe soltanto da ambedue le parti un poco più di senso pratico per ottenere l'acquietamento di interessi economici e di concreti rapporti di potenza politica.
Il richiamarsi a valori assoluti falsifica - essi dicono - infaustamente il reale stato di cose, attizza le passioni e rende più difficile il cammino verso una pratica e ragionevole unione.
Noi da parte Nostra, come Capo della Chiesa, abbiamo evitato al presente, come in casi precedenti, di chiamare la Cristianità ad una crociata.
Possiamo però richiedere piena comprensione del fatto che, dove la religione è un vivo retaggio degli antenati, gli uomini concepiscano la lotta, che viene loro dal nemico ingiustamente imposta, anche come una crociata.
Ma ciò che per tutti affermiamo, di fronte al tentativo di far apparire inoffensive alcune tendenze nocive, è che si tratta di questioni concernenti i valori assoluti dell'uomo e della società.
Per la Nostra grave responsabilità non possiamo lasciare che questo si nasconda nella nebbia degli equivoci.
Con profondo rammarico dobbiamo a tal proposito lamentare l'appoggio prestato da alcuni cattolici, ecclesiastici e laici, alla tattica dell'annebbiamento, per ottenere un effetto da essi stessi non voluto.
Come si può ancora non vedere che questo è lo scopo di tutto quell'insincero agitarsi, che va sotto il nome di « colloqui » ed « incontri »?
A che scopo, del resto, ragionare senza un comune linguaggio, o com'è possibile d'incontrarsi, se le vie divergono, se cioè da una delle parti ostinatamente si spingono e si negano i comuni valori assoluti, rendendo quindi rinattuabile ogni « coesistenza nella verità »?
Già per il rispetto del nome cristiano si deve desistere dal prestarsi a quelle tattiche, poichè, come ammonisce l'Apostolo, è inconciliabile il volersi assidere alla mensa di Dio e a quella dei suoi nemici ( cfr. 1 Cor 10,21 ).
E se ancora si dessero spiriti irresoluti, nonostante la dolorosa testimonianza di un decennio di crudeltà, il sangue testè versato e la immolazione di molte vite offerte da un popolo martoriato, dovrebbe finalmente persuaderli.
Occorre tuttavia - si osserva - non tagliare i ponti, bensì mantenere le mutue relazioni.
Ma per questo basta pienamente ciò che gli uomini responsabili dello Stato e della politica credono di dover fare in contatti e rapporti per la pace della umanità, e non per particolari interessi.
Basta quel che la competente Autorità ecclesiastica stima di dover compiere, per ottenere il riconoscimento dei diritti e della libertà della Chiesa.
Se la triste realtà Ci costringe a stabilire con chiaro linguaggio i termini della lotta, nessuno può onestamente muoverCi il rimprovero quasi di favorire l'irrigidimento dei fronti opposti, e ancor meno di esserCi in qualche modo allontanati da quella missione di pace che deriva dal Nostro Apostolico Officio.
Se tacessimo, ben più dovremmo temere il giudizio di Dio.
Rimaniamo fermamente legati alla causa della pace, e Dio solo sa quanto brameremmo di poterla annunziare pienamente e lietamente con gli Angeli del Natale.
Ma appunto per salvarla dalle presenti minacce, dobbiamo indicare dove si cela il pericolo, quali sono le tattiche dei suoi nemici e ciò che li addita per tali.
Non altrimenti il neonato Figlio di Dio, bontà infinita Egli stesso, non esitò a tracciare chiare linee di separazione e ad affrontare la morte per la verità.
Noi siamo persuasi che anche oggi, di fronte ad un nemico risoluto ad imporre, in un modo o nell'altro, a tutti i popoli una particolare e intollerabile forma di vita, soltanto l'unanime e forte contegno di tutti gli amanti della verità e del bene può salvare la pace, e la salverà.
Sarebbe un fatale errore ripetere ciò che in una simile contingenza avvenne negli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale, quando ognuna delle nazioni minacciate, e non soltanto le più piccole, cercò di salvarsi a spese delle altre, quasi facendosene scudo, e anzi cercando di trarre dalla altrui angustia vantaggi economici e politici assai discutibili.
L'epilogo fu che tutte insieme vennero travolte nella conflagrazione.
Pertanto una concreta esigenza di quest'ora, uno dei mezzi per assicurare a tutto il mondo la pace e un fruttuoso retaggio di bene, una forza che abbracci altresì i popoli dell'Asia e dell'Africa, il Medio Oriente e la Palestina coi Luoghi Santi, è rinsaldare la solidarietà dell'Europa.
Questa però non si convalida, finché non tutte le nazioni associate comprendano che le sconfitte politiche ed economiche delle une, a lungo andare, in nessuna parte del mondo possono risultare veri guadagni per le altre.
Non si convalida, riguardo alla formazione dell'opinione pubblica, se, nell'ora del comune pericolo, la critica dell'azione degli uni, anche quando è in sè giustificata, viene espressa dagli altri con tali vedute unilaterali da far dubitare che esista ancora un qualsiasi vincolo di solidarietà.
Giammai non può farsi una buona politica col solo sentimento; tanto meno la vera politica di oggi coi sentimenti di ieri e di ieri l'altro.
Sotto un simile influsso non sarebbe possibile di giudicare rettamente su talune considerevoli questioni, come il servizio militare, le armi, la guerra.
La condizione odierna, che non ha riscontri nel passato, dovrebbe pur essere chiara a tutti.
Non vi è ormai più luogo a dubitare circa le mire e i metodi che stanno dietro ai carri armati, quando questi irrompono fragorosamente da seminatori di morte oltre i confini, per costringere popoli civili ad una forma di vita da essi esplicitamente aborrita; quando, bruciando, per cosi dire, le tappe di possibili trattative e mediazioni, si minaccia l'uso delle armi atomiche per il conseguimento di concrete esigenze, siano esse giustificate o no.
È manifesto che nelle presenti circostanze può verificarsi in una Nazione il caso, in cui, risultato vano ogni sforzo per scongiurarla, la guerra, per difendersi efficacemente e con speranza di favorevole successo da ingiusti attacchi, non potrebbe essere considerata illecita.
Se dunque una rappresentanza popolare e un Governo eletti con libero suffragio, in estremo bisogno, coi legittimi mezzi di politica estera ed interna, stabiliscono provvedimenti di difesa ed eseguiscono le disposizioni a loro giudizio necessarie, essi si comportano egualmente in maniera non immorale, di guisa che un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutar di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge.
In ciò Ci sentiamo pienamente in armonia coi Nostri Predecessori Leone XIII e Benedetto XV, i quali mai non negarono quell'obbligo, ma profondamente lamentarono la sfrenata corsa agli armamenti e i pericoli morali della vita nelle caserme, e additarono quale efficace rimedio, come anche Noi facciamo, il disarmo generale ( cfr. Leonis XIII Acta vol. XIV, Romae 1895, pag. 210; Arch. degli Affari Eccl. Straord., Nota del Card. Gasparri, Segr. di Stato di Benedetto XV al Primo Ministro del Regno Unito della Gran Bret. e d'Irlanda, 28 Settembre 1917 ).
Vi sono dunque casi e momenti nella vita delle nazioni, in cui soltanto il ricorso a principi superiori può stabilire chiaramente i confini tra il diritto e il torto, tra il lecito e l'immorale, ed acquietare le coscienze di fronte a gravi risoluzioni.
È pertanto consolante che in parecchi Paesi, negli odierni dibattiti, gli uomini parlino della coscienza e delle sue esigenze.
Essi mostrano di non aver dimenticato che la vita sociale in tanto si salva dal caos, in quanto si lascia sorreggere da norme assolute e da un fine assoluto; essi implicitamente condannano coloro che credono di poter risolvere le questioni di convivenza umana sulla base di buone forme esteriori e con uno sguardo pratico che mira ad agire secondo che nei singoli casi si trova l'interesse e la potenza.
Benchè il programma, che è alla base delle Nazioni Unite, si prefigga il conseguimento dei valori assoluti nella convivenza dei popoli, il recente passato ha però mostrato che il falso realismo riesce a prevalere in non pochi suoi membri anche quando si tratta di ristabilire il rispetto a quei medesimi valori, apertamente calpestati, della umana società.
Lo sguardo unilaterale, che tende ad operare nelle varie circostanze solo secondo l'interesse e la potenza, riesce a far sì che i casi di accuse per disturbo alla pace vengano trattati assai diversamente, e che in tal guisa il differente peso, che a questi casi, presi individualmente, spetta alla luce dei valori assoluti, senz'altro si perverta nel suo contrario.
Nessuno aspetta o richiede l'impossibile, neppure dalle stesse Nazioni Unite; ma si sarebbe potuto attendere che la loro autorità avesse avuto il suo peso, almeno mediante osservatori, nei luoghi in estremo pericolo per i valori essenziali dell'uomo.
Per quanto sia degno di riconoscimento che l'ONU condanni violazioni gravi dei diritti degli uomini e d'intieri popoli, si potrebbe tuttavia desiderare che in simili casi a Stati, i quali rifiutano perfino l'ammissione di osservatori, - dimostrando in tal modo di avere della sovranità dello Stato un concetto che mina i fondamenti stessi dell'ONU, - non sia permesso l'esercizio dei loro diritti di membri dell'Organizzazione medesima.
Questa dovrebbe avere anche il diritto e il potere di prevenire ogni intervento militare di uno Stato in un altro, che si intendesse di effettuare sotto qualsiasi pretesto, non meno che di assumere con sufficienti forze di Polizia la tutela dell'ordine nello Stato minacciato.
Se accenniamo a questi lati manchevoli, è perchè desideriamo di vedere rinvigorita l'autorità dell'ONU, soprattutto per il conseguimento del disarmo generale, che Ci sta tanto a cuore, e sul quale già altre volte parlammo.
Infatti, solamente nell'ambito di una Istituzione come quella delle Nazioni Unite l'impegno dei singoli Stati a ridurre gli armamenti, e specialmente a rinunziare alla produzione e all'impiego di determinate armi, potrà essere concordato e tramutato in stretto obbligo di diritto internazionale.
Parimente solo le Nazioni Unite sono al presente in grado di esigere l'osservanza di questo obbligo, assumendo l'effettivo controllo degli armamenti dei singoli, senza esclusione di alcuno.
Il suo esercizio mediante l'osservazione aerea, mentre evita gl'inconvenienti cui potrebbe dar luogo la presenza di commissioni straniere, assicura l'effettivo accertamento della produzione e consistenza bellica con relativa facilità.
Ha invero quasi del prodigioso ciò che la tecnica ha saputo ottenere in questo campo.
Disponendo infatti di obiettivi di bastevole apertura angolare e luminosità, è possibile ora fotografare, da diversi chilometri di altezza e con sufficiente abbondanza di particolari, oggetti che si trovano sulla superficie della terra.
Il progresso Scientifico, la moderna tecnica meccanica e fotografica sono riusciti a costruire macchine da presa, che hanno raggiunto una singolare perfezione in tutti gli aspetti; le pellicole sono state portate a un grado di sensibilità e di finezza di grana così elevato, da rendere possibili ingrandimenti di molte centinaia di volte.
Tali macchine, montate su aerei, che vanno a una velocità prossima a quella del suono, possono automaticamente eseguire migliaia di riprese, in modo che centinaia di migliaia di chilometri quadrati vengano esplorati in un tempo relativamente breve.
Gli esperimenti condotti in questo campo hanno dato risultati di importanza eccezionale, permettendo di mettere in evidenza fabbricati, macchine, singole persone e oggetti esistenti sul suolo ed anche almeno indirettamente nel sottoterra.
Il complesso delle ricerche eseguite ha mostrato come sia molto difficile di poter mascherare un movimento di truppe o di mezzi corazzati, vasti depositi di armi, importanti complessi industriali a scopi bellici.
Se la ricerca potesse avere carattere permanente e sistematico, si potrebbero mettere in rilievo particolari molto minuti, in guisa da offrire una solida garanzia contro eventuali sorprese.
Accettare il controllo; ecco il punto cruciale da superare, dove ogni nazione dimostrerà la sua sincera volontà di pace.
La volontà di pace: sommo pregio dell'uomo libero, inestimabile tesoro della presente vita, essa è frutto dello sforzo degli uomini, ma è anche un prezioso dono di Dio!
Il cristiano lo sa, poiché lo ha appreso alla culla del neonato Figlio di Dio, sulla cui verità e sopra i cui comandamenti, supremi valori assoluti, ogni ordine è fondato, da essi custodito e reso fecondo in opere di progresso e di civiltà.
Ci si consenta, infine, un'ultima esortazione.
Ci consola vivamente il pensare al commosso e generoso comportamento verso l'oppressa Ungheria da parte di tutti i Nostri diletti figli, di organizzazioni di soccorso, di intiere nazioni, ed anche della stampa onesta.
Siamo altresì persuasi che tutti gli animi bennati non cesseranno di pregare e di sacrificarsi per alleviare le tristi condizioni di quel popolo martoriato.
Vi sono già molti sulla terra, che nelle sconvolte vicende degli ultimi decenni hanno sperimentato di persona che cosa è la miseria.
Come potrebbero rimanere indifferenti dinanzi all'indigenza altrui?
E come potrebbero coloro, che vivono agiatamente, restare insensibili alla povertà dei loro prossimi?
Ma insieme con la vostra carità ridondino soprattutto sugli sventurati la « luce » e la « vita » del mistero natalizio.
L'una e l'altra sono donate in Cristo, e questa grazia e questa pace, questa fiducia in Dio, che restaurerà ogni giustizia e premierà ogni sacrificio, non potrà esser loro tolta da alcun umano potere.
Ed ora, su quanti Ci ascoltano; e specialmente sui sofferenti, sugli umili, sui poveri, su coloro che patiscono persecuzione a causa della giustizia ( cfr. Mt 5,10 ), scenda, auspicio delle grazie divine, la Nostra Apostolica Benedizione.