Commercio internazionale delle armi |
1. Nessun trasferimento di armi è moralmente indifferente.
Al contrario, ognuno chiama in causa tutta una serie di interessi politici, strategici ed economici che talvolta convergono, tal'altra divergono, ma che comportano sempre conseguenze morali specifiche.
La liceità del trasferimento sia mediante la vendita e l'acquisto, che mediante qualsiasi altra modalità può essere valutata soltanto prendendo in considerazione tutti i fattori che lo condizionano.
2. Ogni trasferimento deve, perciò, essere sottoposto a un giudizio rigoroso, effettuato secondo criteri morali ben precisi.
Esistono tuttavia alcuni princìpi etici di ordine generale che permettono di fissare il quadro entro il quale si situano i criteri concernenti più direttamente i paesi esportatori o quelli destinatari.
Questi principi generali si applicano a tutti, con tutte le sfumature necessarie.
Nel 1965, nel suo discorso all'assemblea generale della Organizzazione delle nazioni unite, Paolo VI, pienamente consapevole della gravità del suo messaggio, ha pronunciato queste parole: « Non gli uni contro gli altri, non più, non mai! ... non più la guerra, non più la guerra!
La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell'intera umanità! ».4
Disgraziatamente, malgrado questo appello, continuano le guerre, i conflitti interni, le guerriglie, le azioni terroristiche.
Perciò, lunghi anni di lotte, sovente ignorate o coperte dal silenzio, non hanno fatto che confermare la validità di questo appello.
Bisogna ripeterlo, come Giovanni Paolo II ha fatto recentemente davanti all'orrore della guerra in Bosnia Erzegovina,5 e come non cessa di fare di fronte alle vittime di interessi nazionalistici, etnici o tribali, di fronte ai rifugiati sballottati da una parte all'altra a capriccio dei combattimenti: non più la guerra, non più la guerra.
La guerra non è la soluzione dei problemi politici, economici o sociali:6
« Nulla si risolve con la guerra; tutto è, anzi, dalla guerra seriamente compromesso ».7
La guerra rappresenta, infatti, il declino di tutta l'umanità.8
4. D'altronde, gli stessi stati hanno riconosciuto da molto tempo l'inutilità della guerra e hanno tentato, sfortunatamente senza successo, di interdire qualsiasi ricorso alle armi per la soluzione dei conflitti.9
Di fronte alla ferocia dei combattimenti odierni, bisogna raddoppiare urgentemente gli sforzi per spezzare la logica della guerra.
Tutti devono partecipare a questo sforzo; tutti devono pronunciare insieme questo no alla guerra; tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti ad adoperarsi per evitare le guerre.10
È sempre alla luce di questo no che si deve valutare la moralità del trasferimento delle armi.
In un mondo segnato dal male e dal peccato, esiste il diritto alla legittima difesa mediante le armi.11
Questo diritto può diventare un grave dovere per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile.12
Soltanto questo diritto può giustificare il possesso o il trasferimento delle armi.
Non è tuttavia un diritto assoluto; esso è accompagnato dal dovere di fare il possibile per ridurre al minimo, fino a eliminarle, le cause della violenza.
6. C'è un'esigenza altrettanto grave: il rispetto e lo sviluppo della vita umana richiedono la pace.13
Per assicurare al proprio popolo questo bene della pace, lo stato non può accontentarsi di provvedere alla propria difesa.
Lo stato, insieme con tutti i suoi cittadini, ha anche l'obbligo imperioso di adoperarsi per garantire le condizioni della pace, non soltanto sul proprio territorio ma in tutto il mondo.14
Oggi comincia a definirsi un dovere permanente: quello di aiutare le vittime innocenti che sono incapaci di difendersi dalle terribili conseguenze dei conflitti, come la fame e le malattie.
Il mondo attuale rimane paralizzato davanti alla sofferenza di migliaia di innocenti, vittime di interessi ai quali essi sovente sono estranei.
Sono queste tragedie che fanno sorgere il problema del dovere di intervenire in favore di popolazioni che non hanno i mezzi per assicurarsi la sussistenza: « Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali siano stati messi in atto, e che, nonostante questo, delle intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli stati non hanno più il « diritto all'indifferenza ».
Sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore, se tutti gli altri mezzi si sono rivelati inefficaci.
I princìpi della sovranità degli stati e della noningerenza nei loro affari interni che conservano tutto il loro valore non devono tuttavia costituire un paravento dietro il quale si possa torturare e assassinare.
È di questo, infatti, che si tratta.
Certo, i giuristi dovranno studiare ancora questa nuova realtà e definirne i contorni ».15
8. Infatti, la definizione del diritto dei popoli a un'assistenza umanitaria potrebbe condurre a una nuova formulazione del concetto di sovranità.
Senza ledere questo principio, si deve trovare il modo di poter difendere le persone, ovunque si trovino, contro i mali di cui esse sono soltanto vittime innocenti.
Il fatto che lo stato possa legittimamente possedere armi, e quindi, implicitamente, trasferirle o riceverle, comporta obblighi gravi.
Ogni stato deve infatti poter giustificare ogni possesso o acquisto di armi in nome del principio della sufficienza, in base al quale ogni stato può possedere unicamente le armi necessarie per assicurare la propria legittima difesa.
Questo principio si oppone all'accumulazione eccessiva di armi o al loro trasferimento indiscriminato.
10. È evidente che spetta in primo luogo ai paesi importatori di armi valutare con cura il motivo del loro desiderio di acquistare armi.
Gli obblighi derivanti dal principio della sufficienza sono gravi e restrittivi.
Infatti, l'introduzione di nuove armi in una regione può scatenare una corsa agli armamenti nei paesi vicini o destabilizzare tutta la regione.
Di conseguenza, nessuno stato può lecitamente, secondo i propri desideri, cercare di procurarsi qualsiasi tipo o quantità di armi.
Ogni acquisto deve corrispondere al rigoroso criterio della sufficienza.
11. Ogni stato esportatore di armi è perciò legittimamente autorizzato e talvolta obbligato a rifiutare a un altro stato le armi che gli sembrano superare i limiti imposti da questo principio.
In un campo così delicato come quello della difesa nazionale, è difficile, per un paese esportatore, giudicare se la fornitura di certi sistemi di armamento ecceda o no questi bisogni.
Queste difficoltà non possono tuttavia dispensare dalla responsabilità di valutare tutti gli elementi che vi sono implicati prima di pronunciarsi in favore di una possibile fornitura.
Le armi non sono mai assimilabili agli altri beni che possono essere scambiati sul mercato mondiale o interno.
Certo, il possesso di armi può avere un effetto dissuasivo, ma le armi hanno anche un'altra finalità.
Esiste, infatti, un rapporto stretto e indissociabile tra le armi e la violenza, in ragione di questo rapporto che le armi non possono in nessun caso essere trattate come semplici beni commerciabili.
Così pure, nessun interesse economico può da solo giustificare la loro produzione o il loro trasferimento: « Neanche qui la legge del profitto può ritenersi suprema ».16
13. Che il commercio delle armi coinvolga o no direttamente lo stato, spetta a lui il dovere di vegliare che esso sia sottoposto a un controllo molto rigoroso.
Infatti, è innegabile che « la vendita arbitraria di armi, soprattutto a paesi poveri, rappresenta uno degli attentati più gravi alla pace ».17
Indice |
4 | Paolo VI, Allocuzione all'assemblea generale della Organizzazione delle nazioni unite, 4.10.1965 n. 5 |
5 | Messaggio al segretario generale dell'Organizzazione delle nazioni unite B. Boutros Ghali, 1.3.1993 |
6 | Giovanni Paolo II, Discorso ai presuli della conferenza episcopale dei vescovi di rito latino della regione araba, 1.10.1990, n. 4 |
7 | Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata mondiale della pace, 1.1.1993, n. 4 |
8 | Giovanni Paolo II, Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12.1.1991, n. 7 |
9 | Cf., tra gli altri, il patto di Parigi, detto patto Briand Kellogg, del
27.8.1928, secondo il quale le sessanta parti contraenti decisero di condannare « il ricorso alla guerra per la soluzione delle controversie internazionali e a rinunciare a essa quale strumento di politica nazionale nei loro rapporti reciproci » ( articolo 1 ). La carta delle Nazioni unite del 26.6.1945 afferma solennemente che scopo dell'organizzazione è di « preservare le generazioni future dal flagello della guerra » ( preambolo ) |
10 | Catechismo della chiesa cattolica, n. 2308 e Gaudium et spes, nn. 79-82 |
11 | Gaudium et spes, n. 79 |
12 | Catechismo della chiesa cattolica, n. 2265 |
13 | Catechismo della chiesa cattolica, n. 2304 |
14 | Cf. Giovanni XXIII, enc. Pacem in terris, terza parte, passim |
15 | Giovanni Paolo II, Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede,
16.1.1993, n. 13 Si veda anche: Discorso alla Conferenza internazionale sulla nutrizione organizzata dalla FAO e dall'OMS, 5.12.1992, n. 3 |
16 | Giovanni Paolo II, Discorso al mondo del lavoro, Verona 17.4.1988, n. 6 |
17 | Card. Agostino Casaroli, Intervento alla celebrazione della giornata mondiale per la pace, promossa dall'Organizzazione delle nazioni unite per lo sviluppo industriale ( UNIDO ) presso la sede delle Nazioni unite a Vienna, 6.3.1986, n. 3c, in Attività della Santa Sede 1986, Libreria Editrice Vaticana 1987, 191 |