La verginità |
Ma forse nessuno ignora tutto questo; piuttosto, è naturale che alcuni cerchino di sapere se è possibile trovare una sorta di metodo e di via capace di condurci a questa meta.
I libri divini sono pieni di tali istruzioni, e molti santi rendono visibile la loro vita, che serve come da faro a coloro che camminano secondo il volere di Dio.
Ma ciascuno può attingere in abbondanza da entrambi i Testamenti le relative norme della Scrittura ispirata da Dio: molto si può prendere senza limitazione sia dai profeti e la legge sia dalle tradizioni evangeliche ed apostoliche; le riflessioni che potremmo fare seguendo le parole divine sono invece le seguenti.
L’uomo, quest’essere vivente provvisto di ragione e di pensiero, opera ad imitazione della natura divina e pura ( nella cosmogonia è scritto a proposito di lui che « Dio lo fece a sua immagine » ); quest’essere vivente, quest’uomo, non ricevette dunque alla sua nascita, come parte della propria natura e della propria essenza, la proprietà di essere soggetto alle passioni ed alla morte.
Non sarebbe infatti stato possibile salvaguardare il principio dell’immagine, se la bellezza rappresentante l’immagine fosse risultata contraria al suo modello.
Solo dopo la sua prima formazione furono introdotte nell’uomo le passioni.
Questo avvenne nel modo seguente.
Come si è detto, l’uomo era l’immagine e l’imitazione della potenza che su tutto regna, e per tale ragione, nella libertà delle sue scelte, era simile al padrone di tutte le cose; non era schiavo di nessuna necessità esterna, e poteva disporre di sé come voleva secondo il proprio giudizio, giacché aveva la facoltà di scegliere ciò che gli piaceva.
Fu lui ad attirare volontariamente su di sé, fuorviato da un inganno, la disgrazia in cui ora si trova il genere umano: da sé scopri il male, senza averlo visto prodotto da Dio.
« Non fu infatti Dio a creare la morte », ma fu l’uomo a divenire in un certo senso il creatore e l’artefice del male.
La luce solare può essere percepita da tutti coloro che sono provvisti della facoltà visiva.
Chi vuole può, chiudendo gli occhi, rimanere estraneo a questa percezione; in tal caso però non è il sole a ritirarsi altrove ed a produrre quindi la tenebra, ma è l’uomo a separare il proprio occhio dal raggio chiudendo le palpebre.
Poiché la facoltà visiva non può funzionare a causa della chiusura degli occhi, è fatale che l’inattività della vista metta in azione la tenebra, che l’uomo fa insorgere deliberatamente tramite la cecità.
Così pure, chi si costruisce una casa senza lasciare aperta nessuna via capace di far entrare la luce nell’interno, deve necessariamente vivere nella tenebra, in quanto ha chiuso di proposito l’ingresso ai raggi solari.
Allo stesso modo il primo uomo nato dalla terra, o piuttosto colui che fece nascere il male nel genere umano, trovava il bello ed il buono a portata di mano in qualsiasi punto del suo ambiente naturale e ne poteva disporre come voleva; tuttavia, agendo contro se stesso, introdusse volontariamente delle novità contrarie alla natura e così, rifiutando la virtù, venne a provare il male di sua libera scelta.
Il male, considerato al di fuori della libera scelta ed in se stesso, non esiste nella natura: « ogni creatura di Dio è bella e non va disprezzata » e « tutte le cose che Dio ha fatto sono fin troppo belle ».
Ma quando l’ingranaggio del male s’introdusse nel modo sopra descritto nella vita dell’uomo corrompendola, e quando in seguito al riversarsi nell’uomo di un’enorme quantità di vizi originatisi da un piccolo pretesto, anche la bellezza della sua anima - simile a Dio ed imitazione della bellezza originaria - venne annerita come un ferro dalla ruggine del vizio, l’uomo in quelle circostanze non seppe più conservare la grazia dell’immagine che gli era propria e che era conforme alla natura, ed assunse l’aspetto turpe caratteristico del peccato.
Per questo l’uomo, « questa cosa grande e preziosa » - così lo chiama la Scrittura - abbandonò la propria dignità: come chi scivola e cade nel sudiciume diventa irriconoscibile anche alle persone con cui ha familiarità perché tutta la sua figura è sporca di fango, così anche l’uomo, caduto nel sudiciume del peccato, perse l’immagine del Dio incorruttibile ed assunse con il peccato un’immagine soggetta a corruzione e fangosa.
La parola divina suggerisce di toglierla lavandola con l’acqua pura della retta condotta di vita, in modo che « una volta eliminato l’involucro » di terra, possa apparire di nuovo la bellezza dell’anima.
La deposizione di ciò che è contrario all’uomo consiste nel ritorno a ciò che gli è proprio e secondo natura: in quest’intento egli non può riuscire, se non ritorna ad essere quello che era all’inizio, quando fu creato.
La somiglianza a Dio non è infatti opera nostra né una realizzazione delle facoltà umane, ma dipende dalla generosità di Dio, che la donò alla natura umana fin dalla sua prima nascita.
L’uomo deve preoccuparsi solo di togliere la sporcizia che il vizio ha accumulato in lui e di far risplendere la bellezza della sua anima, prima velata.
Penso che nel Vangelo il Signore insegni proprio questo quando dice a coloro che sono in grado di ascoltare « la sapienza comunicata nel mistero »: « il regno di Dio è dentro di voi ».
La sua parola mostra, a mio parere, come il bene concesso da Dio non sia separato dalla nostra natura né sia situato lontano da coloro che intendono cercarlo, ma si trovi in ciascuno di noi: esso è ignorato e nascosto quando « viene soffocato dagli affanni e dai piaceri della vita », ma può essere ritrovato quando diventa l’oggetto dei nostri pensieri.
Se devo rendere più credibile con altri argomenti ciò che ho detto, ricorderò che a mio avviso il Signore vuole farci pensare proprio a questo quando parla della ricerca della dracma perduta: pur essendo tutte presenti, di nessuna utilità possono essere le rimanenti virtù - chiamate dracme dal Vangelo - se quella sola dracma manca nell’anima rimasta vedova.
Per questo il Signore, alludendo forse alla ragione « che illumina gli oggetti nascosti », ci ordina di « accendere innanzitutto la lampada » e di cercare quindi la dracma perduta « nella nostra casa », vale a dire in noi stessi.
Con la dracma cercata Egli vuole alludere proprio all’immagine del re, che non è persa del tutto, ma è solo nascosta nello sterco.
Per sterco bisogna intendere, a mio parere, la sporcizia prodotta dalla carne: una volta che questa è stata spazzata via ed eliminata da una retta condotta di vita, l’oggetto cercato riappare; allora, l’anima che l’ha ritrovato ha ragione di rallegrarsi e di rendere i vicini partecipi della sua gioia.
In effetti, quando la grande immagine del re impressa fin dal principio sulla nostra dracma « da colui che ha formato i nostri cuori ad uno ad uno » viene scoperta ed ha modo di risplendere, allora tutte le facoltà presenti nell’anima - chiamate « vicini » - si voltano sotto l’effetto di quella gioia ed esultanza divina, e rimangono fisse nella contemplazione dell’ineffabile bellezza dell’oggetto trovato.
« Rallegratevi con me - dice il Signore - perché ho ritrovato la dracma che avevo perso ».
Le facoltà dell’anima « vicine », vale a dire presenti in lei -quella razionale, quella concupiscibile, quella che regola il dolore e l’ira e tutte le altre di cui si può pensare dotata l’anima - piene di gioia per la scoperta della dracma divina a buon diritto possono essere ritenute amiche: è naturale che tutte si rallegrino nel Signore, quando contemplano il bello ed il buono ed agiscono per glorificare Dio, senza essere più le armi del peccato.
Se il ritrovamento di ciò che si cercava significa il ritorno alla condizione primitiva dell’immagine divina che ora è nascosta dalla sporcizia della carne, noi dobbiamo diventare quello che il primo uomo creato fu all’inizio della sua vita.
Com’era dunque? Non aveva vestiti fatti con pelli morte, poteva guardare con tutta sicurezza il volto di Dio, non giudicava il bello mediante il gusto e la vista, « gioiva solo nel Signore », e a tale scopo - questo fa capire la divina Scrittura - si serviva dell’aiuto che gli era stato dato, giacché non conobbe la sua donna prima della cacciata dal paradiso e prima che essa fosse condannata alla pena del parto per il peccato che aveva commesso lasciandosi ingannare.
Possiamo ritornare alla primitiva beatitudine ripercorrendo in senso inverso quello stesso cammino che ci portò fuori del paradiso, quando ne venimmo scacciati insieme al nostro progenitore.
Di quale cammino si tratta? Allora il piacere, prodotto dall’inganno, diede inizio alla caduta.
Alla passione accesa dal piacere seguirono quindi la vergogna, la paura, il non avere più il coraggio di stare al cospetto del Creatore, ed il nascondersi tra le foglie nell’ombra; dopo di che, essi si ricoprirono di pelli morte.
Così furono mandati esuli in questa regione malsana ed aspra, nella quale il matrimonio fu concepito come un mezzo di consolazione di fronte alla morte.
Se è dunque nostra intenzione andarcene via di qui ed unirci a Cristo, è bene far cominciare questo distacco dall’ultimo stadio, così come coloro che sono lontani dai propri familiari, quando vogliono ritornare al loro punto di partenza, lasciano per primo l’ultimo posto nel quale sono arrivati.
Il matrimonio è l’ultimo momento della separazione dal soggiorno nel paradiso: proprio perché rappresenta l’ultima tappa il nostro scritto suggerisce a coloro che ritornano a Cristo di considerarlo come la prima cosa da lasciare.
Occorre quindi abbandonare le miserie terrene in cui fu posto l’uomo dopo il peccato e, successivamente, uscire dai rivestimenti della carne togliendoci le tuniche di pelle, vale a dire i pensieri carnali.
Abbandonata « ogni azione vergognosa fatta di nascosto », non dobbiamo più coprirci con il fico della vita amara, ma gettare via queste foglie caduche che ricoprono la vita, ritornare al cospetto del creatore, rifiutare l’inganno offerto dal gusto e dalla vista, e farci consigliare non più dal serpente velenoso ma dal comandamento di Dio.
Questo c’ingiunge di toccare solo il bene e di rifiutare l’assaggio del male, giacché tutto il male che ci colpisce si origina proprio dal nostro desiderio di non ignorarlo.
Per questo ai primi uomini creati fu vietato di conoscere assieme al bene il suo contrario ed ordinato di tenersi lontani dalla conoscenza del bene e del male e di cogliere il bene puro, non mescolato con il male.
A mio avviso, ciò significa stare soltanto con Dio, gustare questa delizia all’infinito ed ininterrottamente e non mescolare al godimento del bene ciò che trascina verso il suo opposto.
E se si deve parlare con franchezza, bisogna aggiungere che in tal modo ci si può forse allontanare da questo mondo sommerso dal male, e tornare di nuovo in paradiso, giunto nel quale Paolo udì e vide cose ineffabili e non contemplabili, di cui non è lecito parlare agli uomini.
Ma poiché il paradiso è la dimora dei vivi che non accoglie coloro che sono stati uccisi dal peccato, e noi d’altra parte siamo carnali, soggetti alla morte e « venduti al peccato », come potrà soggiornare nel luogo riservato ai vivi colui che soggiace alla signoria della morte?
Quale mezzo o quale sotterfugio potrà mai trovare per sfuggire a questo potere?
Basta a tale scopo il suggerimento del Vangelo.
Sentiamo che il Signore dice a Nicodemo: « Chi è nato dalla carne è carne; chi è nato dallo spirito è spirito ».
Sappiamo che la carne è soggetta alla morte a causa del peccato, mentre lo spirito di Dio è incorruttibile, vivificatore ed immortale.
È evidente che, come la nascita materiale comporta necessariamente anche la generazione della forza destinata a distruggere l’essere generato, così lo spirito infonde una forza vivificatrice in coloro che vengono generati tramite esso.
Qual è il risultato di ciò che si è detto?
Lasciata la vita carnale che è necessariamente seguita dalla morte, dobbiamo cercare quella vita che non porta come conseguenza la morte: e questa è la vita della verginità.
La verità di ciò che dico potrà risultare più chiara da queste brevi considerazioni aggiuntive.
Chi non sa che l’effetto della congiunzione tra i corpi è la formazione di corpi mortali, mentre coloro che si congiungono secondo un legame spirituale ricevono in luogo dei figli la vita e l’incorruttibilità?
È bene ricordare a tal proposito il detto dell’apostolo: « Con questa generazione si salva la gioiosa madre di tali figli »; così pure, il salmista gridò nei canti divini: « Colui che fa abitare nella sua casa una donna sterile, perché diventi una madre che si rallegra dei figli ».
Gioisce veramente la madre vergine che genera figli immortali tramite lo spirito: il profeta la chiama « sterile » grazie alla continenza.
Tale vita deve essere dunque tenuta in più alta considerazione dalle persone assennate, in quanto è superiore alla signoria della morte.
La procreazione fisica - nessuno se l’abbia a male per queste mie parole - è per gli uomini causa non di vita, ma di morte.
La corruzione comincia infatti con la nascita; coloro che la fermano grazie alla verginità pongono in sé stessi un limite alla morte, impedendole di procedere oltre in loro: fungendo come da linea di demarcazione tra la morte e la vita, fermano l’avanzata della prima.
La morte quindi, se non può oltrepassare la verginità ma cessa di avere effetto e si dissolve in essa, mostra chiaramente la superiorità di questa virtù: a ragione è chiamato incorruttibile il corpo che non si sottomette al servizio della vita corrotta e che non accetta di diventare strumento di una successione mortale.
In un corpo siffatto s’interrompe la serie continua di corruzioni e di morti che ha dominato l’intervallo di tempo intercorso tra il primo uomo creato e la vita di chi resta vergine.
Non era infatti possibile che la morte restasse inoperosa, quando la nascita umana riceveva impulso dal matrimonio; viaggiando assieme a tutte le generazioni precedenti ed accompagnando nella loro traversata coloro che nascevano continuamente, trovò nella verginità un limite alla sua azione, che è impossibile valicare.
Come nel caso di Maria madre di Dio la morte che aveva regnato da Adamo fino a lei una volta raggiuntala urtò contro il frutto della verginità come contro una roccia e si consunse, così in ogni anima che grazie alla verginità va oltre la vita carnale si dissolve in un certo senso la forza della morte, che non ha dove mettere il suo pungolo.
Il fuoco, se non gli vengono gettate la legna, le canne, l’erba o altri materiali combustibili, non è in grado di durare da sé; allo stesso modo, neanche la forza della morte si può esplicare, se il matrimonio non le sottopone la materia su cui agire e non le prepara - come se fossero dei condannati - le persone destinate a morire.
Se hai dei dubbi, presta attenzione ai nomi delle disgrazie che, come ho già detto all’inizio del mio trattato, il matrimonio porta agli uomini e rifletti sulle loro origini.
Sarebbe forse possibile piangere sul fatto di rimanere vedovi od orfani o sulle disgrazie che toccano ai figli, se non ci fosse prima il matrimonio?
Le tanto ricercate soddisfazioni, gioie e voluttà e tutto ciò che si vuole dal matrimonio trovano la loro conclusione in questi dolori.
Come l’impugnatura della spada è liscia, facile a toccarsi, ben levigata, brillante e adatta ad essere stretta dal palmo della mano, mentre la parte rimanente è un ferro, uno strumento di morte pauroso a vedersi ed ancora più pauroso quando lo si esperimenta, così è anche il matrimonio: mentre dapprima offre alla sensazione tattile la levigatezza superficiale del piacere come se si trattasse di un’impugnatura adorna di un cesello ben eseguito, quando viene in mano a chi l’ha toccato porta strettamente legati a sé i dolori e diventa per gli uomini causa di pianti e di disgrazie.
È proprio il matrimonio ad offrire spettacoli pietosi e lacrimevoli: si pensi ai figli che restano orfani in età prematura, che divengono preda dei potenti e che spesso, non rendendosi conto dei propri mali, sorridono di fronte alla sventura.
Ed esiste una causa di vedovanza diversa dal matrimonio?
Non è fuori luogo dire che il sottrarsi ad esso comporta l’esenzione da tutti questi funesti tributi.
Quando infatti decade la condanna che fu stabilita all’inizio contro i trasgressori, cessano di esistere le sofferenze delle madri di cui parla la Scrittura ed il dolore non anticipa più la nascita degli uomini; ogni disgrazia prodotta dalla vita viene eliminata, e « dai volti scompaiono le lacrime », come dice il profeta: « il concepimento non avviene più nella trasgressione » e « la gravidanza non si verifica più nel peccato » né « è prodotta dal sangue e dal volere dell’uomo e della carne »; al contrario, la generazione deriva soltanto da Dio.
Ciò si verifica, quando si accoglie nella parte viva del proprio cuore lo spirito incorruttibile, e quando si generano « la sapienza, la giustizia, la santificazione e la redenzione ».
Ognuno può diventare madre di chi è tutte queste cose, così come dice il Signore in un passo del Vangelo: « Chi esegue la mia volontà è mio fratello, mia sorella e mia madre ». ( Mc 3,35 )
Quale posto ha la morte in tali gravidanze?
Quando queste hanno luogo, l’elemento mortale è veramente inghiottito dalla vita, e la vita verginale, recando in sé i segni dei beni tenuti in riserva dalla speranza, sembra un’immagine della beatitudine futura.
Se si esamina il mio ragionamento, si può riconoscere la verità di quello che dico: innanzitutto, chi muore per il peccato vive per Dio per il resto del tempo, non produce più frutti per la morte, pone fine per quanto sta in lui alla vita della carne ed attende il « realizzarsi della beata speranza e l’apparizione del grande Dio », senza creare con generazioni intermedie un intervallo tra sé e la sua venuta; in secondo luogo, anche nella vita presente trae profitto dall’eccellenza dei beni della resurrezione.
Se la vita promessa dal Signore ai giusti dopo la resurrezione è uguale a quella degli angeli, e se la rinunzia al matrimonio è propria della natura angelica, egli riceve i beni promessi unendosi agli splendori dei santi ed imitando con la sua vita incontaminata la purezza delle essenze incorporee.
Se la verginità procura tali beni ed altri simili, quale discorso potrà esprimere degnamente l’ammirazione per questa grazia?
Quale altro bene dell’anima apparirà così grande e prezioso, e potrà mai uguagliare in un paragone la sublimità di tale dono?
Se abbiamo compreso l’eccellenza di questa grazia, dobbiamo renderci conto anche delle sue conseguenze: questa virtù non è così semplice come si potrebbe credere, né si ferma ai corpi, ma giunge dappertutto e grazie alla sua versatilità permea di sé tutte quelle che sono e vengono ritenute le perfezioni dell’anima.
L’anima che grazie alla verginità si unisce al vero sposo non solo si tiene lontana dalle sozzure materiali ma, dopo avere dato avvio in tal modo alla propria purezza, si comporta in ogni circostanza in maniera simile e con uguale fiducia, nel timore di accogliere in sé la passione per l’adulterio nella misura in cui il suo cuore si mostra incline più del dovuto alla partecipazione al vizio.
Per ritornare sull’argomento, ricorderò questo: l’anima che si unisce al Signore in modo da diventare assieme a Lui un unico spirito e che decide di amarlo con tutto il cuore e con tutte le forze facendo di quest’amore la norma costante della sua vita, non si dà più alla fornicazione per non diventare un tutt’uno con essa e non ammette in sé neppure gli altri vizi che sono di ostacolo alla salvezza, giacché la contaminazione è sempre la stessa, quali che siano i vizi: se è sporcata da uno di essi, l’anima non può più possedere la sua purezza immacolata.
Quanto io dico può essere illustrato con un esempio.
L’acqua di uno stagno resta calma ed immobile se nessun turbamento proveniente dall’esterno agita la sua tranquillità; se però vi cade una pietra gettata da qualche parte, essa si muove tutta in cerchi concentrici, e si producono delle onde, determinate dallo scuotimento locale; mentre la pietra va a fondo a causa del suo peso, le onde si producono in cerchio attorno ad essa l’una dopo l’altra e vengono spinte verso le estremità dello specchio d’acqua dal movimento verificatosi al suo centro: in tal modo, tutta la superficie dello stagno si agita, risentendo di ciò che è avvenuto in profondità.
Analogamente, basta il sopravvenire di una sola passione a scuotere la tranquillità assoluta dell’anima, che risente del danno subito da una sua parte.
Dicono gli esperti in materia che le virtù non sono separate le une dalle altre e che non è possibile possedere in modo perfetto una virtù se non si possiedono le altre invece, nella persona in cui è presente una virtù entrano fatalmente al suo seguito anche le altre.
Così pure, nel campo contrario un danno che colpisce una nostra parte si estende a tutta la vita virtuosa; è proprio vero, come dice l’apostolo, che il tutto si adegua alla parte: se un membro soffre, tutto il corpo soffre con esso, mentre se è glorificato tutto il corpo gioisce.
Indice |