Libro delle fondazioni |
1. Ho detto che il padre maestro fra Girolamo Graziano venne a trovarmi a Beas.
Prima d'allora non ci eravamo mai visti, anche se io lo avessi molto desiderato; avevamo avuto solo qualche scambio epistolare.
Quando seppi del suo arrivo me ne rallegrai moltissimo, perché il bene che mi avevano detto di lui mi faceva desiderare di conoscerlo; ma molto più mi rallegrai quando cominciai a trattarlo: mi piacque tanto infatti da farmi ritenere che quanti me lo avevano lodato non lo avessero apprezzato abbastanza.
2. Quando venne, ero molto afflitta, ma, appena lo vidi, mi parve che il Signore mi mettesse davanti agli occhi il bene che per mezzo suo ci sarebbe venuto.
Mi sentivo in quei giorni così piena di consolazione e di gioia, che io stessa restavo sinceramente stupita di me.
In quel momento la sua autorità era ancora limitata all'Andalusia, ma mentre era a Beas il Nunzio lo mandò a chiamare e gliela affidò anche sugli scalzi e le scalze della provincia di Castiglia.
Era tale la felicità di cui mi sentivo inondare il cuore che non finivo mai, in quei giorni, di rendere grazie a nostro Signore, né avrei voluto far altro.
3. Intanto arrivò l'autorizzazione per la fondazione di Caravaca, ma di un tenore diverso da quello che doveva servire al mio scopo.
Pertanto fu necessario mandarla di nuovo alla Corte, perché scrissi alle fondatrici che in nessun modo si sarebbe fatta la fondazione se non si esigeva una condizione che mancava.
Dunque, si doveva tornare alla Corte.
A me riusciva gravosa quella lunga attesa a Beas.
Avrei voluto ritornare in Castiglia, ma siccome si trovava lì il padre fra Girolamo che, essendo commissario di tutta la provincia di Castiglia, era anche superiore di Beas, non potevo fare nulla senza la sua approvazione: perciò gliene parlai.
4. Gli parve che, una volta partita io, la fondazione di Caravaca non si sarebbe più fatta.
Inoltre gli sembrava che farne una a Siviglia sarebbe stato rendere un grande servizio a Dio, ed era cosa assai facile, essendone stato richiesto da alcune persone influenti e abbastanza ricche da offrire subito una casa.
L'arcivescovo di Siviglia, poi, favoriva tanto l'Ordine che egli era convinto di rendergli, con quest'iniziativa, un gran piacere.
Si convenne dunque che la priora e le religiose che avevo con me per la fondazione di Caravaca venissero destinate a Siviglia.
Io, sebbene per vari motivi mi fossi sempre energicamente rifiutata di fondare monasteri riformati in Andalusia ( quando partii per Beas, se avessi saputo che apparteneva alla provincia dell'Andalusia, non vi sarei andata in alcun modo; mi trasse in inganno il fatto che il borgo non fa ancora parte dell'Andalusia, il cui confine credo sia quattro o cinque leghe dopo, ma la provincia sì ), vedendo che era tale la decisione del mio superiore, mi arresi subito.
Nostro Signore, infatti, mi dà la grazia di ritenere che i superiori vedano sempre giusto.
E così fu in questa circostanza, pur avendo il fermo proposito di attendere a un'altra fondazione e vari motivi ben gravi per non andare a Siviglia.
5. Ebbero subito inizio i preparativi del viaggio, perché il caldo cominciava ad essere intenso.
Il padre commissario apostolico Graziano andò dal Nunzio, che l'aveva chiamato, e noi a Siviglia, con i miei buoni compagni di viaggio, il padre Giuliano d'Avila, Antonio Gaytán e un frate scalzo.
Andavamo in carri ben coperti, essendo questo, sempre, il nostro modo di viaggiare.
Arrivate alla locanda, prendevamo una stanza – buona o cattiva, come si trovava – e una consorella riceveva alla porta ciò di cui avevamo bisogno, essendo vietato l'accesso in quella stanza anche a coloro che ci accompagnavano.
6. Per quanto ci affrettassimo, non arrivammo a Siviglia che il giovedì precedente alla festa della Santissima Trinità, dopo aver sofferto nel viaggio un caldo tremendo.
Difatti, anche se s'interrompeva il cammino durante la siesta, vi assicuro, sorelle, che avendo il sole dardeggiato in pieno sui carri, rientrare in essi era come entrare in una specie di purgatorio.
Le mie consorelle, però, ora pensando all'inferno, ora considerando di fare e di patire qualcosa per Dio, viaggiavano piene di gioia e d'allegria.
Le sei religiose che venivano con me erano infatti tali anime che io credo che con loro avrei avuto il coraggio di andare anche in terra di Turchi: non sarebbe loro mancata la forza di patire per nostro Signore, o, meglio, gliel'avrebbe data lui, poiché a questo erano rivolti i loro desideri e i loro discorsi, ben esercitate com'erano sia all'orazione sia alla mortificazione.
Dovendo rimanere in una regione così lontana, cercai di sceglierle fra quelle che mi sembravano più adatte, precauzione necessaria, con tutte le sofferenze che si dovettero sopportare.
Di alcune – e le più gravi – non parlerò, perché potrebbero compromettere qualche persona.
7. La vigilia della Pentecoste, Dio le sottopose a una ben dura prova, mandandomi una fortissima febbre.
Credo che le loro pietose voci di supplica a Dio bastarono ad evitare che il male aumentasse, perché mai, nella mia vita, sono stata colpita da una febbre così violenta, senza che durasse ben più a lungo.
Fu tale che sembrava che fossi caduta in letargo, tanto ero fuori dei sensi.
Esse mi spruzzavano acqua sul viso, ma il sole la rendeva così calda che offriva poco refrigerio.
8. Non tralascerò di dirvi il cattivo alloggio che incontrammo in quella circostanza.
Ci fu data una piccola camera, sotto un tetto di tegole, senza assito.
Non aveva finestre, e se si apriva la porta, il sole la inondava tutta.
Dovete considerare che da quelle parti il sole non è come in Castiglia, ma molto più molesto.
Mi fecero coricare su un letto tale che avrei preferito sdraiarmi per terra, perché era tanto alto da una parte e tanto basso dall'altra, che non sapevo come starci: mi sembrava fatto di pietre aguzze.
Cos'è mai la malattia!
Quando c'è la salute, per lo meno, tutto si sopporta facilmente.
In conclusione, ritenni preferibile alzarmi e andarmene da lì con le mie compagne, perché mi sembrava più tollerabile il sole della campagna che il caldo di quello stanzino.
9. Che sarà degli infelici condannati all'inferno, che eternamente non potranno cambiar luogo!
Un cambiamento, anche se si passa da una sofferenza a un'altra, sembra sempre essere di un qualche sollievo.
A me è accaduto di avere un dolore assai forte in una parte del corpo, e benché poi venissi attaccata da un altro non meno forte in un'altra parte, il cambiamento mi sembrava un sollievo.
Così avvenne in questa circostanza.
Per quanto mi ricordi, a me non dava alcuna pena vedermi malata; le consorelle ne soffrivano più di me.
Piacque al Signore che il male durasse solo quel giorno in tutta la sua violenza.
10. Poco prima – forse due giorni prima – ci era accaduto un altro incidente che ci procurò una certa tensione, mentre attraversavamo su una chiatta il Guadalquivir.
Quando si trattò del trasporto dei carri, non fu possibile farlo dov'era teso il cavo, ma si dovette prendere la corrente di traverso, nonostante che il cavo, manovrato anch'esso di traverso, ci desse un po' d'aiuto.
Ma, o perché quelli che lo tenevano se lo lasciarono sfuggire, o non so per quale altro motivo, avvenne che la chiatta andava col carro alla deriva senza cavo né remi.
La vista del barcaiolo pieno d'affanno mi affliggeva molto più del pericolo che correvamo.
Noi ci mettemmo a pregare, tutti gli altri a lanciare alte grida d'aiuto.
11. Da un castello vicino ci stava guardando un cavaliere il quale, mosso a compassione, ci inviò prontamente soccorso.
In quel momento non si era ancora abbandonato il cavo: i nostri compagni lo trattenevano aggrappandovisi con tutte le loro forze, ma la violenza della corrente era tale da trascinarli tutti e darne perfino stramazzare a terra qualcuno.
In questa circostanza mi destò davvero profonda commozione un figlio del barcaiolo, che ho sempre presente alla memoria.
Poteva avere, mi pare, dieci o undici anni, e quel che egli soffriva nel vedere il dolore del padre mi faceva render lode al Signore.
Ma poiché sempre Sua Maestà alle sofferenze unisce la clemenza, ne diede prova anche qui.
La chiatta andò a fermarsi su un banco di sabbia, ove l'acqua da una parte era abbastanza bassa, e così fu possibile portarci aiuto.
Ci saremmo trovati a mal partito nel rintracciare la strada, se l'uomo accorso dal castello non ci avesse fatto da guida.
Non avevo intenzione di entrare in questi particolari, di così poca importanza; avrei avuto molto da dire se avessi dovuto raccontare le disavventure dei miei viaggi.
Mi sono dilungata di più in questa perché me ne è stata fatta insistente richiesta.
12. Assai più penoso fu per me il contrattempo che avemmo l'ultimo giorno della Pentecoste.
Ci affrettammo di buona lena per arrivare a Cordova la mattina presto e ascoltare la Messa senza che alcuno ci vedesse.
Venivamo condotte ad una chiesa posta al di là del ponte per sicurezza di maggiore solitudine.
Già stavamo per attraversarlo, quando ci fu detto che non avevamo l'autorizzazione per far passare di lì i carri, autorizzazione che è rilasciata dal governatore.
Da allora a quando ci pervenne trascorsero più di due ore, perché la gente era ancora a letto.
Frattanto una quantità di persone si avvicinava per cercare di sapere chi fossero quei viaggiatori.
Di questo non ci importava molto, perché non potevano vederci, essendo i carri ben coperti.
Venuto ormai il permesso, ecco che i carri, risultando più larghi della porta del ponte, non vi entravano.
Fu necessario segarli, o non so a quale altro espediente ricorrere, perdendo così altro tempo.
Infine, quando giungemmo alla chiesa, dove il padre Giuliano d'Avila doveva celebrare la Messa, la trovammo piena di gente, perché, essendo dedicata allo Spirito Santo – ciò che noi ignoravamo – v'era gran festa con un discorso.
13. A quella vista provai una grande pena; a mio parere era meglio andarcene senza ascoltare la Messa che entrare in quella baraonda.
Il padre Giuliano d'Avila non la pensò allo stesso modo, e siccome egli è teologo, dovemmo aderire al suo parere.
Gli altri compagni, forse, avrebbero seguito il mio, e avremmo sbagliato in pieno.
Tuttavia, non so se mi sarei fidata solo di me.
Scendemmo vicino alla chiesa; anche se nessuno poteva vederci in viso, perché portiamo sempre grandi veli calati davanti, bastava la vista di tali veli, delle cappe bianche di bigello, quali sono le nostre, dei nostri poveri sandali ai piedi per mettere in subbuglio tutti.
E così infatti fu.
Grazie a quell'apprensione, senza dubbio, mi andò via del tutto la febbre, perché fu certamente grande per me e per tutti.
14. Appena entrammo nella chiesa mi si avvicinò un uomo dabbene, per farci largo tra la gente.
Lo supplicai di condurci in qualche cappella.
Lo fece, ne chiuse l'entrata e non ci lasciò finché non ci ebbe ricondotte fuori della chiesa.
Pochi giorni dopo venne a Siviglia e disse a un padre del nostro Ordine che in premio di quella sua buona opera egli pensava di aver avuto da Dio la grazia di ricevere in eredità o in dono una considerevole ricchezza, che non si aspettava davvero.
Vi assicuro, figlie mie, che anche se ciò vi sembrerà nulla, fu per me uno dei peggiori momenti della mia vita, perché il subbuglio che faceva quella gente era tale che sembrava stessero per entrare i tori.
Pertanto, non vedevo l'ora di lasciare quel luogo; non essendoci nei dintorni un angolo per passare la siesta, la trascorremmo sotto un ponte.
15. Giunte a Siviglia e preso alloggio in una casa che il padre fra Mariano, avvisato del nostro arrivo, aveva affittato per noi, mi pareva che ormai tutto fosse fatto, perché – ripeto – era grande il favore dato agli scalzi dall'arcivescovo, il quale mi aveva scritto qualche volta dimostrandomi molto affetto.
Questo non bastò a risparmiarmi grandi sofferenze perché il Signore così permetteva.
L'arcivescovo era molto contrario a monasteri di religiose senza rendite, e a ragione.
Il male, o per meglio dire, il vantaggio per la riuscita di quell'opera, fu non averlo avvisato.
Se glielo avessero detto prima che io mi mettessi in viaggio, sono certa che non avrebbe dato il suo consenso.
Ma sia il padre commissario sia il padre Mariano – il quale era assai contento anche lui della mia venuta –, essendo certissimi che con la sorpresa del mio arrivo gli avrebbero procurato una grandissima gioia, non lo avevano preavvisato.
Se, pensando di far bene, avessero agito diversamente, avrebbero forse commesso – ripeto – un grande errore.
Nelle fondazioni degli altri monasteri quello a cui anzitutto provvedevo era l'autorizzazione dell'Ordinario, come prescrive il sacro Concilio.
Qui non solo la consideravamo per data, ma – ripeto – credevamo di rendere una grande servizio all'arcivescovo, ciò che in fondo era vero, come egli stesso ha poi costatato.
Ma Dio ha voluto che nessuna fondazione si facesse senza che in un modo o in un altro io non dovessi molto soffrire.
16. Giunte dunque alla casa che, come ho detto, era stata affittata per noi, pensai di prenderne subito possesso, secondo il solito, per poter dire l'Ufficio divino.
Senonché il padre Mariano, che risiedeva a Siviglia, cominciò a trovare scuse per ritardare la fondazione.
Egli, per non affliggermi, non voleva dirmi tutta la verità.
Ma non essendo, le sue, ragioni plausibili, capii dove stava la difficoltà: nella mancanza d'autorizzazione.
Egli mi consigliò di accettare la fondazione di un monastero con rendita, o altra cosa del genere, di cui non mi ricordo.
Infine, mi disse che l'arcivescovo non aveva piacere che si fondassero monasteri di monache con la sua autorizzazione, né, in tanti anni di episcopato a Siviglia e a Cordova, l'aveva mai concesso ad alcuno, benché gran servo di Dio.
Molto meno si sarebbe indotto a concederla per un monastero senza rendite.
17. Questo era come dirmi di rinunziare al monastero, anzitutto perché, anche se avessi potuto fondarlo con rendite, l'avrei fatto molto a malincuore in una città come Siviglia: infatti, dove li avevo fondati con rendite era in piccole località nelle quali o non si fanno fondazioni, o devono essere fatte così, mancandovi qualunque risorsa.
In secondo luogo perché dalle spese di viaggio ci era rimasta solo una blanca né avevamo portato altro con noi eccetto i vestiti che indossavamo, qualche tunica, qualche cuffia e la tela che era servita a coprire bene i carri.
Per il ritorno di quelli che ci avevano accompagnato si dovette ricorrere a un prestito: ce lo fece un amico che Antonio Gaytán aveva a Siviglia; quanto al denaro che occorreva per sistemare la casa, lo cercò il padre Mariano.
La casa, inoltre, non era nostra: la fondazione di un tale monastero era, quindi, impossibile.
18. Cedendo certamente alle vive insistenze di questo padre, l'arcivescovo ci permise di celebrare la Messa il giorno della Santissima Trinità, e fu la nostra prima Messa a Siviglia.
Ci fece anche dire di non suonare campane e neppure di metterne, ma era cosa già fatta.
Trascorsi così più di quindici giorni in cui mi sentivo decisa, se non fosse stato per un riguardo verso il padre commissario e il padre Mariano, a tornarmene con le mie monache, senza grande rincrescimento, a Beas, per la fondazione di Caravaca.
Molto più ebbi a soffrire durante il protrarsi di questa situazione, che non so bene quanto durò, perché ho cattiva memoria, ma credo più di un mese.
Dopo, infatti, la partenza era ben più difficile che nel primo momento, perché la notizia del monastero si era ormai divulgata.
Il padre Mariano non mi permise mai di scrivere all'arcivescovo: cercava di addolcirlo a poco a poco e gli faceva inviare lettere da Madrid dal padre commissario.
19. Una cosa calmava i miei scrupoli: il fatto che la Messa si era celebrata con il suo permesso e che sempre, nel coro, recitavamo l'Ufficio divino.
Non tralasciava di farmi avere visite da parte sua e i farmi sapere che egli sarebbe venuto presto di persona.
Ci aveva mandato un sacerdote della sua curia a celebrare la prima Messa.
Da ciò capivo bene che quanto accadeva serviva evidentemente solo a procurarmi l'occasione di soffrire.
Io, poi, se soffrivo, non era per me né per le mie monache, ma per il padre commissario, il quale era molto addolorato, perché mi aveva ordinato quel viaggio.
E lo sarebbe stato ben più ancora, nel caso di un completo fallimento del nostro progetto, come tutto faceva prevedere.
20. Nel frattempo vennero da me anche i padri calzati per sapere attraverso quali vie si fosse fatta la fondazione.
Mostrai loro le patenti, che avevo con me, del nostro reverendissimo padre generale.
Questo bastò a tranquillizzarli, ma se avessero saputo quale fosse l'atteggiamento dell'arcivescovo, non credo che ciò sarebbe stato sufficiente.
Nessuno però ne era al corrente, anzi tutti credevano che la cosa fosse di suo assoluto piacere e gradimento.
Finalmente piacque a Dio che l'arcivescovo venisse a vederci.
Io gli mostrai quale torto ci arrecasse.
Infine mi disse di fare quel che volessi e come volessi.
D'allora in poi non ha cessato, in ogni occasione, di beneficiarci e favorirci.
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