Libro delle fondazioni

Capitolo 28

La fondazione di Villanueva de la Jara.

1. Dopo la fondazione di Siviglia, si sospesero le fondazioni per più di quattro anni.

Ne fu causa il sorgere all'improvviso di grandi persecuzioni contro gli scalzi e le scalze.

Sebbene ce ne fossero state molte altre, non erano giunte a questo estremo da far quasi naufragare tutto.

Si vide bene allora, da una parte, quanto il demonio avesse in odio questa santa Riforma a cui nostro Signore aveva dato inizio, e dall'altra come fosse opera di Dio, perché continuò a vivere.

Gli scalzi, soprattutto i superiori, soffrirono moltissimi patimenti, per le gravi attestazioni e opposizioni di quasi tutti i padri calzati.

2. Questi diedero tali informazioni al nostro reverendissimo padre generale che, pur essendo egli un gran santo ed avendo dato proprio lui l'autorizzazione per la fondazione di tutti i monasteri ( eccetto il primo, San Giuseppe di Avila, che si era fondato con il permesso del Papa ), ne rimase così contrariato da adoperarsi con ogni sforzo a sopprimere gli scalzi.

Con i monasteri delle religiose, invece, mantenne sempre buoni rapporti.

Tuttavia, siccome io non condividevo il suo punto di vista, s'indispose anche contro di me.

E questa fu la pena più grande che ho dovuto sopportare nel corso di tutte le fondazioni, anche se ne ho avute molte.

Da una parte, cessare di cooperare all'incremento di un'opera con la quale io vedevo chiaramente che si serviva nostro Signore e si dava impulso al nostro Ordine, non mi era consentito dai grandi teologi che avevo per confessori e consiglieri; dall'altra, andare contro l'esplicita volontà del mio superiore era per me la morte, perché, oltre ai doveri che avevo verso di lui come tale, lo amavo assai teneramente, ed egli, certamente, ben lo meritava.

Ma non avrei potuto contentarlo neppure volendolo, perché avevamo visitatori apostolici ai quali ero costretta a ubbidire.

3. Nel frattempo morì il Nunzio, uomo di grande santità, che favoriva molto la virtù e stimava gli scalzi.

Gli successe un altro che sembrava mandato da Dio per esercitarci nella pazienza.

Era un po' parente del Papa e doveva essere certo un buon servo di Dio.

Subito prese molto a cuore la causa dei calzati e, in base alle informazioni che di noi essi gli diedero, si mantenne saldo nel proposito di impedire che la Riforma andasse avanti e cominciò ad attuarlo con grandissimo rigore, condannando al carcere o all'esilio coloro che gli sembrava potessero resistergli.

4. Quelli che soffrirono di più furono il padre fra Antonio de Jesús, che aveva fondato il primo convento di scalzi, e il padre fra Girolamo Graziano, che il nunzio precedente aveva nominato visitatore apostolico dei carmelitani calzati; contro di lui e contro il padre Mariano de San Benito si mostrò assai indignato.

Ho già detto nelle fondazioni precedenti chi siano questi padri.

Inflisse anche ad altri autorevoli religiosi penitenze, ma senza infierire.

A questi tre vietò con molte censure di occuparsi di qualsiasi cosa.

5. Era evidente che tutto ciò accadeva per disposizione di Dio e che Sua Maestà lo permetteva per un maggior bene e per far meglio conoscere la virtù di questi padri, come effettivamente è stato.

Lo stesso nunzio fece visitare i nostri monasteri, tanto di religiose quanto di religiosi, da un superiore del Panno e, se le cose fossero state come egli pensava, ne avremmo avuto grossi guai.

Comunque, non ce ne mancarono di gravissimi, come ne scriverà meglio di me chi lo sa fare.

Io non faccio che darne un cenno nel solo intento di rendere evidente alle monache che verranno dopo di noi quanto siano obbligate a progredire nella perfezione, trovando già bell'e pronto quello che è costato così caro alle religiose di ora.

Alcune di esse hanno sofferto moltissimo in questo periodo, sotto l'imperversare di gravi calunnie, cosa che mi affliggeva molto più delle mie sofferenze personali, le quali, anzi, mi erano motivo di grande gioia.

Ritenevo d'essere io la causa di tutta questa tempesta, e mi sembrava che sarebbe cessata se mi fossi gettata in mare come Giona.

6. Sia lodato Dio che difende la verità, come fece in questo caso!

Quando, infatti, il nostro cattolico sovrano, don Filippo, seppe quel che accadeva, conoscendo la vita e l'osservanza religiosa degli scalzi, cominciò a favorirci in modo tale che non volle lasciare il nunzio come solo giudice della nostra causa, e lo fece affiancare da quattro consiglieri, persone autorevoli, di cui tre religiosi, perché fossero salvaguardati i nostri diritti.

Uno di essi era il padre maestro fra Pedro Fernández, uomo di santa vita, oltre che di molta dottrina e intelligenza.

Era stato commissario apostolico e visitatore dei calzati della provincia di Castiglia, e a lui anche gli scalzi avevano dovuto obbedienza.

Conosceva quindi come vivessero realmente gli uni e gli altri: quanto tutti noi desideravamo non era altro se non che si sapesse questo.

Così, quando vidi che la scelta del re era caduta su di lui, ritenni conclusa la faccenda, come effettivamente lo è per la misericordia di Dio.

Piaccia a Sua Maestà che sia a suo onore e gloria!

Anche se erano molti i signori e i vescovi del regno a darsi premura d'informare il nunzio della verità della situazione, ciò e il resto sarebbe giovato a poco se Dio non si fosse servito della mediazione del re.

7. Siamo pertanto tutte obbligate, sorelle, a raccomandare sempre nelle nostre orazioni al Signore sia lui, sia quanti hanno favorito la causa di Dio e della Vergine nostra Signora: torno, quindi, a farvene viva istanza.

In conseguenza di ciò che ho detto, potete immaginarvi, sorelle, quale fosse l'opportunità di dedicarsi alle fondazioni.

Tutte noi attendevamo senza tregua all'orazione e alle penitenze, affinché Dio desse incremento ai monasteri esistenti, se doveva servirsi di essi a sua gloria.

8. Quand'ebbero inizio queste grandi tribolazioni ( che, raccontate così in breve vi sembreranno cosa da poco, ma sofferte a lungo furono di rilevante gravità ), io ero a Toledo, ritornata lì dalla fondazione di Siviglia.

Nel 1576, un sacerdote di Villanueva de la Jara mi consegnò alcune lettere delle autorità municipali di quella città che volevano avviare trattative con me per la fondazione di un monastero.

Mi pregava di accettare, in vista di esso, nove giovani donne che si erano riunite da alcuni anni in una piccola casa attigua a un romitorio di quel luogo, dedicato alla gloriosa sant'Anna, e vivevano lì in tanto raccoglimento e in così grande santità, da indurre tutto il villaggio ad assecondare il loro desiderio, che era quello di essere monache.

Mi scrisse anche il parroco del luogo, il dottore Agustín de Ervías, uomo di grande dottrina e di molta virtù, in forza della quale favoriva come meglio poteva questa santa opera.

9. A me parve che la proposta fosse assolutamente inaccettabile per le seguenti ragioni:

la prima, il fatto che erano molte e mi sembrava assai difficile che, abituate al loro modo di vivere, potessero adattarsi al nostro;

la seconda, perché non avevano quasi nulla per potersi mantenere, e il luogo ha solo poco più di mille famiglie, il che ci avrebbe fornito scarso aiuto per vivere di elemosina: anche se il Comune si offriva di mantenerle, non credevo che ciò sarebbe durato a lungo;

la terza, perché non avevano casa;

la quarta, perché il borgo era lontano dagli altri nostri monasteri;

la quinta, perché, malgrado mi si dicesse che erano assai buone, non avendole viste, non potevo sapere se avessero le attitudini richieste per il nostro genere di vita;

decisi, allora, di lasciar perdere tutto.

10. Prima di rifiutarmi, però, volli parlarne al mio confessore, che era il dottor Velázquez, canonico e professore a Toledo, uomo assai dotto e virtuoso, attualmente vescovo di Osma, e questo perché ho l'abitudine di non far mai nulla in base al mio criterio personale, ma di rimettermi sempre a quello di persone di tal merito.

Appena vide le lettere e prese conoscenza della faccenda, mi consigliò di non rifiutare e di rispondere benevolmente, perché se Dio riuniva tanti cuori a un sol fine, era chiaro che se ne sarebbe servito per la sua gloria.

Allora mi regolai in questo modo: non accettai né rifiutai in maniera assoluta.

Fra continue insistenze e interventi di persone intese a sollecitare la mia accettazione, trascorsero quattro anni, fino al 1580.

Continuavo a ritenere sempre un'insensatezza aderire alla proposta, ma, rispondendo, non avevo la possibilità di opporre un reciso rifiuto.

11. Avvenne che il padre Antonio de Jesús si recasse a trascorrere il suo esilio nel monastero di nostra Signora del Soccorso, distante tre leghe da Villanueva.

Poiché a volte andava a predicare lì, e lo stesso faceva anche il padre fra Gabriel de la Asunción, priore del convento, uomo assai perspicace e gran servo di Dio, amici com'erano entrambi del dottor Ervías, entrarono in contatto con le nostre sante sorelle.

Conquistati dalle loro virtù e indotti dal curato e dagli abitanti del borgo, fecero del progetto una faccenda personale e cominciarono ad inviarmi lettere per convincermi ad accettarlo.

Inoltre, mentre stavo a San Giuseppe di Malagón, che dista più di ventisei leghe da Villanueva, venne a parlarmi di ciò lo stesso padre priore, informandomi di quel che si poteva fare con il permesso di Roma.

Mi disse come, una volta fondato il monastero, il dottor Ervías effettivamente avrebbe dato trecento ducati di rendita su quella che aveva da un suo beneficio.

12. Quest'impegno non mi parve cosa sicura, ritenendo che, fondato il monastero, si sarebbe trascurato di mantenerlo.

Tale considerazione, unitamente alla consapevolezza del poco che quelle giovani avevano, era motivo sufficiente per impedirmi di accettare.

Pertanto esposi al padre priore molte ragioni, a mio parere assai convincenti, per dimostrargli che la cosa non era fattibile e lo esortai a ripensarci insieme al padre Antonio, dicendogli che io lasciavo la questione a carico della loro coscienza, poiché mi sembrava che le ragioni addotte dovessero bastare a non farne nulla.

13. Dopo la sua partenza, considerando quanto il progetto gli stesse a cuore, pensai che avrebbe cercato di convincere il maestro fra Angel de Salazar, attuale nostro superiore, ad accettare la fondazione.

Mi affrettai a scrivergli, supplicandolo di non dare la sua autorizzazione e spiegandogliene i motivi.

In base a quanto mi rispose, egli già non aveva voluto concederla, visto che io non ero d'accordo.

14. Trascorse circa un mese e mezzo, forse un po' di più.

Quando ormai credevo d'aver scongiurato ogni rischio, mi fu inviato un messo con lettere dal Comune di Villanueva in cui la municipalità si obbligava a non far mancare alle religiose tutto quello che fosse stato necessario; il dottor Ervías s'impegnava, da parte sua, a fare quanto si è detto precedentemente; c'erano anche lettere dei due reverendi padri che raccomandavano caldamente la cosa.

Mi vidi in estremo imbarazzo, perché l'ammissione di tante consorelle mi faceva temere molto che, come suole accadere, esse si schierassero contro le religiose che avrei condotte lì; inoltre, non mi sentivo sicura del loro mantenimento, visto che le offerte ricevute mancavano di sufficienti garanzie.

Ho capito in seguito che le mie perplessità erano opera del demonio, il quale, proprio perché il Signore m'incoraggiava, si adoperava a rendermi così pusillanime che sembrava non avessi più fiducia in Dio.

Ma le preghiere di quelle anime benedette finirono con il prevalere.

15. Un giorno, dopo la comunione, mentre stavo raccomandando al Signore questa fondazione, come facevo spesso, perché ciò che per l'innanzi mi aveva indotto a dare una risposta favorevole era il timore di ostacolare il profitto di qualche anima – in quanto il mio desiderio è sempre di essere un mezzo per far lodare il Signore e accrescere il numero di coloro che lo servono –, Sua Maestà mi rimproverò severamente, chiedendomi con quali tesori si erano eretti i monasteri fino allora fondati: non dovevo quindi esitare a permettere quella fondazione che avrebbe contribuito molto alla sua gloria e al bene delle anime.

16. Le parole di Dio hanno tale potere, che non solo penetrano l'intelletto, ma gli danno luce per capire la verità, e dispongono la volontà ad eseguire quel che dicono.

Ciò è quanto allora mi accadde.

Non solo accettai con gioia il progetto, ma mi parve una colpa aver esitato tanto, aggrappata fortemente a umane ragioni, io che avevo visto quanto al di sopra della ragione sono le cose straordinarie operate da Sua Maestà in favore del nostro santo Ordine.

17. Decisa ormai ad accettare questa fondazione, mi sembrò necessario accompagnare io stessa le monache che vi dovevano rimanere, per vari motivi che mi si presentarono alla mente, quantunque fisicamente mi riuscisse gravoso perché, giunta a Malagón assai sofferente, lo ero ancora.

Ma, ritenendo che ciò sarebbe stato a gloria di Dio, ne scrissi al nostro superiore, affinché mi ordinasse quello che ritenesse il meglio da farsi.

Egli m'inviò l'autorizzazione per la fondazione, con l'ordine di trovarmi lì presente e di condurvi le religiose che volevo.

La scelta mi dava molta preoccupazione, perché avrebbero dovuto vivere con quelle che già erano sul posto.

Raccomandando vivamente la cosa a nostro Signore, ne presi due dal monastero di San Giuseppe di Toledo, una delle quali doveva essere priora, e due da quello di Malagón, di cui una sarebbe stata vicepriora.

Siccome si erano rivolte molte preghiere a Sua Maestà, la scelta fu assai felice.

Ciò ebbe per me una grande importanza, più del consueto, perché nelle fondazioni a cui diamo inizio noi sole, l'accordo di tutte è cosa facile.

18. Vennero a cercarci il padre fra Antonio de Jesús e il padre fra Gabriel de la Asunción.

Avuto tutto il necessario dagli abitanti del villaggio, partimmo da Malagón il sabato precedente la Quaresima del 13 febbraio 1580.

Piacque a Dio regalarci un tempo splendido e farmi sentire così bene che mi sembrava di non essere mai stata ammalata.

Ne ero stupita e consideravo la grande importanza di non badare alla nostra debolezza fisica né a qualunque altra difficoltà ci si frapponga, quando si sa di servire il Signore, poiché egli ha il potere di rendere forti i deboli e sani gli infermi.

Qualora non lo faccia, il meglio per noi, ai fini della salvezza della nostra anima, è soffrire e, fissi gli occhi al suo onore e alla sua gloria, dimenticare noi stessi.

A cosa deve servire la vita e la salute se non a perderla al servizio di un così grande Re e Signore?

Credetemi, sorelle, non potrete mai sbagliare, seguendo questa strada.

19. Vi confesso che spesso la mia meschinità e la mia debolezza mi hanno fatto temere e dubitare, ma non ricordo una sola volta, da quando il Signore mi ha dato l'abito di carmelitana scalza e anche da qualche anno prima, che non mi abbia fatto la grazia, unicamente per la sua misericordia, di vincere queste tentazioni e gettarmi a occhi chiusi in quello che ritenevo sua maggior gloria, quali ne fossero le difficoltà.

Capisco bene che era poco quanto facevo da parte mia, ma Dio non vuole altro da noi che una ferma risoluzione per fare poi da parte sua tutto il resto.

Sia egli per sempre benedetto e lodato! Amen.

20. Dovevamo recarci al monastero di Nostra Signora del Soccorso che, come si è detto, dista tre leghe da Villanueva, e fermarci lì per avvertire del nostro arrivo.

Era questo l'accordo stabilito dai padri che ci accompagnavano, ed era giusto che obbedissi loro in tutto.

Il convento si trova in un deserto che offre una solitudine assai piacevole.

Non appena vi fummo vicini, i frati vennero molto ordinatamente a ricevere il loro priore.

Nel vederli scalzi, con le loro povere cappe di bigello, ci sentimmo tutte prese da devozione.

Io ne rimasi profondamente commossa, parendomi di essere ai tempi felici dei nostri santi Padri.

Sembravano, in quel campo, bianchi e profumati fiori.

E credo che tali siano innanzi a Dio perché, a mio parere, lì egli è servito con gran fervore.

Entrarono in chiesa cantando il Te Deum con voci piene d'umiltà.

L'ingresso della chiesa è sottoterra.

Sembra una grotta, che ci faceva pensare a quella del nostro padre Elia.

Non c'è dubbio che provassi così grande gioia interiore, che avrei dato per ben impiegato un viaggio ancora più lungo.

Ebbi però gran dolore che fosse già morta la santa di cui nostro Signore si era servito per fondare quella casa.

Non meritava, evidentemente, di vederla, benché lo avesse tanto desiderato.

21. Non sarà inutile, credo, dire qui qualcosa della vita e delle vie per le quali nostro Signore volle che si fondasse là questo monastero che è stato di tanto profitto, per quanto ho saputo, alle anime di quei dintorni.

Voglio anche che, vedendo le penitenze di questa santa, vi rendiate conto, sorelle mie, di quanto noi le restiamo indietro e vi sforziate di servire maggiormente nostro Signore.

Non c'è, infatti, ragione di essere da meno di lei, noi che non discendiamo, come lei, da gente raffinata e nobile.

Anche se questo non ha importanza – lo dico per far vedere che aveva avuto una vita agiata, quale richiedeva il suo stato, discendendo dai duchi di Cardona; si chiamava, infatti, donna Catalina de Cardona.

Dopo avermi scritto alcune volte, si firmava, però, solo « la peccatrice ».

22. Coloro che scriveranno la sua vita racconteranno quello cha ha fatto prima che il Signore le concedesse così grandi favori, e si soffermeranno sui molti particolari che ci sono da dire di lei, ma nel caso che tale biografia non giunga a vostra conoscenza, riferirò qui quello che mi hanno detto alcune persone degne di fede che hanno trattato con lei.

23. Questa santa, pur vivendo fra signore e signori di alto rango, aveva sempre molta cura della sua anima e praticava la penitenza.

Il desiderio dei patimenti andò man mano crescendo in lei al punto da sentire l'ispirazione a ritirarsi dove, in solitudine, potesse godere di Dio e sottoporsi a rigorose discipline, senza che alcuno glielo impedisse.

Ne parlò con i suoi confessori, ma essi non vi acconsentirono.

Non mi meraviglio che la sua aspirazione sembrasse loro una follia, visto come il mondo sia oggi infatuato di prudenza, al punto da apparire quasi immemore delle straordinarie grazie accordate da Dio ai santi e alle sante che lo servirono nei deserti.

Ma, poiché Sua Maestà aiuta sempre a mettere in pratica i desideri che vengono dal cuore, aiutandone l'attuazione, fece in modo che ella si confessasse da un padre francescano chiamato fra Francisco de Torres, che conosco assai bene e che ritengo un santo.

Questi già da molti anni conduce una vita di penitenza e d'orazione con grande zelo, fra molte persecuzioni.

Conoscendo le grazie che Dio concede a chi si sforza di riceverle, disse a Catalina di non indugiare a seguire l'invito che Sua Maestà le rivolgeva.

Non so se le sue parole furono queste, ma è da supporlo, perché subito ella attuò il suo disegno.

24. Si confidò con un eremita di Alcalá e lo pregò di accompagnarla, raccomandandogli, al tempo stesso, il più assoluto segreto.

Arrivati al luogo dove oggi sorge questo monastero, ella trovò una piccola grotta in cui entrava a stento, e qui l'eremita la lasciò.

Ma quale doveva essere il suo amore, se non si preoccupò minimamente sia di come sostentarsi, sia dei pericoli a cui si esponeva, sia della cattiva fama che la sua fuga le avrebbe probabilmente procurato!

Quale ebbrezza doveva provare questa santa anima, immersa nel desiderio di godere del suo Sposo senza che alcuno le fosse di ostacolo!

Com'era ferma nel proposito di staccarsi totalmente dal mondo, se fuggiva così da tutti i suoi piaceri!

25. Meditiamo bene, sorelle, su questo esempio e consideriamo come d'un colpo ella abbia riportato una completa vittoria sulle cose terrene perché, pur non essendo da meno quello che voi fate entrando in questo santo Ordine, offrendo a Dio la vostra volontà e professando una perpetua clausura, io non so se in qualcuna di noi i fervori dei primi tempi non vengano a cessare, e se non torniamo, su certi punti, a essere schiave del nostro amor proprio.

Piaccia alla divina Maestà che ciò non sia, ma che, avendo imitato questa santa nel fuggire il mondo, ne stiamo in modo assoluto lontane anche interiormente!

26. Ho sentito raccontare molte cose della rigorosa austerità della sua vita, e quanto se ne sa dev'essere il meno; avendo infatti trascorso tanti anni in quella solitudine, così ardentemente desiderosa di penitenza, senza alcuno che ne moderasse gli eccessi, dovette certamente trattare il suo corpo in modo da far paura.

Dirò quello che hanno udito da lei stessa alcune persone, in particolare le nostre religiose di San Giuseppe di Toledo, dove ella si recò a visitarle e alle quali, come fossero sorelle, parlò con tutta franchezza.

Faceva lo stesso con altre persone, perché dotata d'una grande semplicità e, senza dubbio, di altrettanta umiltà.

Essendo perfettamente consapevole di non aver nulla di suo, era ben lontana da ogni forma di vanagloria.

Si compiaceva di manifestare le grazie che Dio le faceva, affinché a motivo di esse fosse lodato e glorificato il suo nome: cosa che, a coloro i quali non sono arrivati a questo grado di perfezione, sembra pericolosa o, per lo meno, una lode di se stessi.

Ma la sua modestia e la sua semplicità probabilmente la preservavano da un siffatto giudizio, perché non ho mai sentito incolparla di questo.

27. Raccontò dunque di essere stata in quella grotta otto anni, nutrendosi per giorni e giorni di sole radici e d'erbe di campo.

Finiti infatti i tre pani che le aveva lasciato l'eremita che l'aveva accompagnata, non si cibò più di tale alimento, fino a quando non passò di lì un pastorello.

Egli la provvide, a partire da allora, di pane e farina con cui faceva certe piccole focacce cotte al fuoco.

Questo era tutto il suo nutrimento: non aveva altro.

Se ne cibava ogni tre giorni.

È cosa assai certa, di cui anche i frati del convento possono rendere testimonianza.

Questi, più tardi, quand'era già assai indebolita, a volte le facevano mangiare una sardina o qualche altra cosa – era l'epoca in cui si occupava della fondazione del monastero –, ma ne aveva più danno che vantaggio.

Vino, che io sappia, non ne bevve mai.

Le discipline a cui si sottoponeva e per le quali si serviva di una grande catena, duravano spesso due ore o, quanto meno, un'ora e mezzo.

I suoi cilici erano di così grande asperità, che una donna la quale, reduce da un pellegrinaggio, si era fermata a dormire una notte con lei, mi raccontò che, fingendo di essere addormentata, l'aveva vista toglierseli pieni di sangue e pulirli.

Il peggio era, però, quello che doveva soffrire – a quanto ebbe a dire alle nostre consorelle – da parte dei demoni, i quali le apparivano a volte sotto l'aspetto di grossi cani che l'assalivano alle spalle, altre volte sotto quello di serpenti.

Ma non ne aveva paura.

28. Anche dopo la fondazione del monastero continuava a ritirarsi nella sua grotta e lì stava e dormiva, non uscendo da essa se non per recarsi all'Ufficio divino.

Prima della fondazione, andava a Messa in un convento dei Mercedari, che dista un quarto di lega da quel luogo, talvolta percorrendo le strade in ginocchio.

Il suo abito era di panno grezzo, con sopra una tunica di bigello, tutto fatto in modo che veniva presa per un uomo.

Dopo gli anni trascorsi qui in completa solitudine, il Signore volle che si divulgasse la fama delle sue virtù e cominciò ad essere oggetto di tanta venerazione che non poteva difendersi dall'afflusso della gente.

Parlava a tutti con grande carità e benevolenza.

Più tempo passava e maggiore era il concorso del popolo: chi riusciva a parlarle si riteneva non poco fortunato.

Ella ne era assai stanca e diceva che la facevano morire

Accadeva a volte che quasi tutta la campagna intorno fosse piena di carri.

Quando i religiosi si stabilirono là, non trovarono nulla di meglio da fare che sollevarla in alto perché potesse benedire la folla, e questo era l'unico modo di liberarla da quella ressa.

Trascorsi otto anni di permanenza nella grotta già un po' ingrandita per opera dei suoi visitatori, fu colta da una così grave malattia che credette di morire, ma non per questo abbandonò la grotta.

29. Cominciò ad avere il desiderio di far sorgere lì un convento di frati; indecisa, però, sulla scelta dell'Ordine a cui affidarlo, lasciò così passare qualche tempo.

Un giorno, mentre pregava davanti ad un crocifisso che portava sempre con sé, nostro Signore le mostrò una cappa bianca ed ella capì che doveva essere di carmelitani scalzi.

Fino a quel momento non aveva mai saputo che al mondo esistesse questo Ordine, perché allora di esso non c'erano che due conventi, quello di Mancera e quello di Pastrana.

Dopo ciò, dovette probabilmente prenderne informazioni.

Conosciuta l'esistenza del monastero di Pastrana, dove aveva avuto in passato molta amicizia con la principessa di Eboli, moglie del principe Ruy Gómez da cui dipendeva Pastrana, si recò in questo borgo, per trovare il modo di provvedere alla fondazione del monastero da lei tanto desiderato.

30. Lì, nella chiesa del convento, intitolato a san Pietro, prese l'abito di nostra Signora.

Non aveva alcuna intenzione di abbracciare la vita religiosa, né di emettere i voti, non essendo stata mai propensa a questo stato, condotta com'era dal Signore per altro cammino.

Temeva che, entrando in un Ordine, avrebbe dovuto rinunziare, in virtù dell'obbedienza, ai suoi propositi di austerità e di solitudine.

Ricevette, peraltro, l'abito di nostra Signora, alla presenza di tutti i frati.

31. Si trovava lì anche il padre Mariano, di cui ho già parlato in queste fondazioni.

Questi mi ha raccontato che, durante la cerimonia, ebbe una sospensione o un rapimento che lo trasse completamente fuori dai sensi.

In questo stato vide un gran numero di frati e di monache uccisi: alcuni decapitati, altri con le gambe e le braccia mozzate, come a significare il martirio da essi subito, almeno tale ne appariva il senso.

E questo padre non è uomo da raccontare una cosa che non abbia visto, né il suo spirito è abituato a sospensioni di tal genere, perché Dio non lo conduce per questo cammino.

Pregate Dio, sorelle, che ciò si avveri e che possiamo meritare di conoscere ai nostri giorni un così gran bene e far parte del numero di tali religiosi.

32. Qui, da Pastrana, la santa Cardona cominciò a cercare i mezzi per la fondazione del suo monastero e, a tal fine, tornò alla Corte da cui era partita con tanta gioia.

Ciò dovette essere per lei un grande tormento, né le mancarono in gran numero mormorazioni e tribolazioni.

Quando usciva di casa non riusciva a liberarsi dalla gente: questo, dovunque andasse.

Alcuni le tagliavano brandelli dall'abito, altri dalla cappa.

Da lì si recò a Toledo, dove alloggiò presso le nostre religiose.

Tutte mi hanno dichiarato concordemente che da lei emanava un così penetrante odore di reliquie che perfino l'abito e la cintura, dopo che se li tolse, per sostituirli con altri, e le furono portati via, ne erano talmente impregnati da far rendere lode a Dio.

E quanto più l'avvicinavano, tanto più il profumo aumentava, pur essendo i suoi vestiti fatti di un tipo di stoffa che, col gran caldo di allora, avrebbero dovuto produrre l'effetto contrario.

So che esse sono incapaci di mentire.

Ne rimasero, pertanto, tutte edificate.

33. Alla Corte e altrove ricevette doni sufficienti per poter fondare il suo monastero.

Ottenuta l'autorizzazione, la fondazione ebbe luogo.

La chiesa fu costruita dove era la sua grotta, e a lei ne scavarono un'altra un po' più lontano in cui misero, in rilievo, un sepolcro con l'effigie di Cristo morto.

Trascorreva lì la maggior parte del tempo, giorno e notte.

Ma ciò non durò a lungo, perché non sopravvisse che cinque anni e mezzo circa alla fondazione del monastero.

Con la vita così dura che conduceva, sembrava un miracolo anche il tempo che era vissuta.

Se ben ricordo, la sua morte avvenne l'anno 1577.

Le furono resi onori funebri estremamente solenni per vivo interessamento di un cavaliere chiamato fra Juan de León, il quale nutriva per lei una profonda venerazione.

Riposa ora provvisoriamente in una cappella di nostra Signora, di cui era molto devota, in attesa che si costruisca una chiesa più grande ove sia data alle sue sante spoglie degna sepoltura.

34. È grande il fervore religioso a cui è fatto segno questo monastero, in ricordo di lei.

Si direbbe quasi che sia ancora presente lì e nei dintorni, specialmente quando si ha dinanzi agli occhi quel romitaggio e quella grotta in cui visse.

Mi è stato assicurato che, prima di prendere la decisione di fondare il monastero, era così stanca e afflitta di vedersi visitata da tanta gente, che voleva andarsene in un altro luogo dove nessuno la conoscesse.

Aveva pertanto mandato a cercare l'eremita da cui era stata condotta lì, perché l'accompagnasse altrove, ma era morto.

Nostro Signore, che voleva la fondazione in quel luogo di questo monastero consacrato a nostra Signora, non le diede la possibilità di allontanarsene; infatti sono convinta, come ho detto, che egli vi è assai ben servito.

I religiosi hanno in esso un'ottima sistemazione ed è evidente che sono felici di vivere separati dal resto degli uomini, specialmente il priore, chiamato anch'egli da Dio a prendere il nostro abito da una vita assai comoda, e poi da lui ben ricompensato con ricchezze spirituali.

35. Egli fu pieno di carità verso di noi.

Ci diede per la chiesa della nostra futura fondazione alcuni paramenti sacri della loro, che ne era ampiamente provvista essendo questa santa molto amata da un gran numero di persone ragguardevoli.

Trassi motivo di grande consolazione dal mio soggiorno in quel luogo, anche se, al tempo stesso, ero piena di confusione, che mi dura tuttora.

Pensando a colei che aveva praticato lì così aspra penitenza, costatavo che era una donna come me, anche più delicata, dato il rango a cui apparteneva, e assai meno peccatrice – non essendovi a questo riguardo nessun paragone possibile – e che io avevo, ciò malgrado, ricevuto ben maggiori grazie d'ogni genere da nostro Signore, fra le quali quella – grandissima – di non essere stata precipitata nell'inferno, come meritavano i miei gravi peccati.

Mi era di conforto solo il desiderio d'imitare, se mi riusciva, il suo esempio, ma non era neanche un gran conforto, perché tutta la mia vita se n'è andata in desideri cui non sono seguite le opere.

Mi sia d'aiuto la misericordia di Dio, in cui ho sempre confidato per i meriti del suo santissimo Figlio e della Vergine nostra Signora, di cui porto l'abito per la bontà del Signore.

36. Un giorno, dopo essermi comunicata in quella santa chiesa, entrai in un profondo raccoglimento, accompagnato da una sospensione che mi trasse fuori dei sensi, nel corso della quale mi apparve questa santa donna in visione intellettuale, sotto forma di un corpo glorioso e circondato da angeli.

Mi disse di non stancarmi di quanto facevo, ma di proseguire nella fondazione di questi monasteri.

Intesi, benché non me lo dicesse, che ella mi aiutava presso Dio.

Aggiunse anche un'altra cosa che non ha ragione d'essere scritta qui.

Ne rimasi assai consolata e con vivo desiderio di lavorare a quest'opera: spero nella bontà del Signore che, con così grande aiuto qual è quello di tali preghiere, possa fare qualcosa in suo onore.

Vedete, dunque, sorelle mie, come ebbero presto fine le sue sofferenze, mentre la gloria di cui gode sarà eterna.

Sforziamoci pertanto, per amore di nostro Signore, di seguire l'esempio di questa nostra sorella.

Se riusciremo ad avere in odio noi stesse come ella fece, daremo altrettanto rapido compimento alla nostra giornata, poiché tutto si svolge e finisce così presto quaggiù!

37. Arrivammo a Villanueva de la Jara la prima domenica di quaresima dell'anno 1580, vigilia della Cattedra di San Pietro, festa di san Barbaziano.

Quel giorno stesso fu posto il santissimo Sacramento nella chiesa della gloriosa sant'Anna, all'ora della Messa solenne.

Ci vennero incontro tutte le autorità municipali e alcune altre persone fra cui il dottor Ervías.

Smontammo presso la chiesa parrocchiale, assai lontana da quella di sant'Anna.

Era così grande la gioia di tutto il borgo, che mi fu di grande consolazione vedere con quale gioia fosse accolto l'Ordine della santissima Vergine nostra Signora.

Udivamo da lontano il suono a festa delle campane.

Appena fummo entrate in chiesa, intonarono il Te Deum la cui esecuzione era fatta a versi alterni dal coro dei cantori e dalle note dell'organo.

Finito questo, il santissimo Sacramento fu posto in una portantina e la statua di nostra Signora in un'altra, con croci e stendardi.

La processione cominciò a svolgersi in grande solennità.

Noi, con le nostre cappe bianche e i veli calati sul viso, eravamo al centro, vicino al santissimo Sacramento, e vicino a noi stavano i nostri frati scalzi, venuti in gran numero dal loro monastero.

C'erano anche i francescani ( poiché a Villanueva si trova un loro convento ), e infine un padre domenicano, di passaggio nel borgo; benché fosse solo, fui assai lieta di vedere in quest'occasione l'abito del suo Ordine.

Trattandosi di un lungo percorso, vi erano stati eretti molti altari, ove i partecipanti alla processione si fermavano di tanto in tanto, cantando strofe in onore del nostro Ordine.

Eravamo tutte prese da grande devozione, come anche di veder innalzare da tutti lodi al gran Dio che portavamo con noi, per amore del quale si rendeva tanto onore a sette povere piccole scalze lì presenti.

Di fronte a un tale spettacolo era grande la mia confusione nel vedermi fra loro, convinta che se avessi dovuto esser trattata come meritavo, avrebbero dovuto voltarsi tutti contro di me.

38. Vi ho parlato così a lungo dell'onore reso all'abito della Vergine affinché lodiate nostro Signore e lo supplichiate che si serva di questa fondazione a sua maggior gloria.

Da parte mia, sono più contenta quando essa comporta grandi difficoltà e persecuzioni: allora mi è più gradito parlarvene.

Vero è che queste sorelle lì presenti avevano sofferto per quasi sei anni, o almeno per più di cinque e mezzo, prima del loro ingresso in questa casa della gloriosa sant'Anna.

Non vi parlo della grande povertà in cui erano e della fatica che costava loro procurarsi il cibo, non avendo mai voluto chiedere elemosine ( questo, per non far pensare che stessero lì allo scopo di essere mantenute da quegli abitanti ), né parlo delle grandi penitenze che facevano, sia nel digiunare molto e mangiar poco, sia nell'aver letti molto scomodi e la casa piccolissima, cose tutte che erano assai penose per la stretta clausura da loro sempre osservata.

39. La più grande sofferenza che mi dissero d'aver avuto veniva dal loro ardente desiderio di vedersi con il nostro abito: ne erano estremamente tormentate giorno e notte, temendo di non essere esaudite.

Le loro lacrime e preghiere miravano ad ottenere da Dio questa grazia.

Quando si accorgevano di qualche ostacolo, si affliggevano molto e aumentavano le penitenze.

Si toglievano il pane di bocca per avere di che pagare, con quel che guadagnavano, i messi che mandavano a me, e per offrire qualche segno di gratitudine, come lo permetteva la loro povertà, a quelli che avevano la possibilità di aiutarle almeno un po'.

Mi rendo ben conto, dopo averle trattate e aver visto la loro santità, che le loro preghiere e le loro lacrime hanno fatto sì che l'Ordine le abbia accettate.

Mi è sembrato pertanto ben più gran tesoro la presenza in esso di tali anime che non ricche rendite, e spero che questo monastero abbia vita prospera.

40. Al nostro ingresso nella casa erano tutte riunite presso la porta interna, ognuna vestita a modo suo, cioè com'erano entrate, perché, sperando sempre di ricevere il nostro abito, non avevano mai voluto prendere quello di beate.

Indossavano però un vestito dimesso, dal quale era evidente quanta poca cura avessero di sé, malconce com'erano e quasi tutte così emaciate che il loro aspetto rivelava la vita di dura penitenza da esse condotta.

41. Ci ricevettero con grandi lacrime di gioia, e si è ben visto come fossero sincere.

La loro virtù rifulge nella loro letizia, nella loro umiltà, nella loro obbedienza alla priora.

Non sanno, inoltre, cosa fare per compiacere ognuna delle religiose venute per la fondazione.

Tutta la loro paura era che, alla vista della loro povertà e della ristrettezza di quella casa, se ne fossero ripartite.

Nessuna aveva avuto il comando sulle altre, ma, con grande spirito di fratellanza, ognuna lavorava quanto più era possibile.

Le due più anziane trattavano gli affari, quando ce n'era bisogno, le altre non parlavano né volevano parlare mai con nessuno.

La porta fu sempre senza chiave, con solo un martello.

Nessuno osava avvicinarsi ad essa; quando c'era da rispondere, lo faceva la più anziana.

Dormivano pochissimo, per guadagnarsi da vivere senza trascurare l'orazione, che le occupava molte ore: le feste, tutto il giorno.

Come guida della loro condotta spirituale si servivano dei libri di fra Luis de Granada e di fra Pietro di Alcántara.

42. Passavano la maggior parte del tempo a recitare l'Ufficio divino, adoperandosi a farlo con quella scarsa pratica di lettura che avevano, perché una sola sa leggere bene, e con breviari discordanti; alcuni di antico rito romano li avevano avuti da certi preti che non se ne servivano più, altri se li erano procurati come avevano potuto.

E siccome non sapevano leggere, vi impegnavano molte ore, ma lo recitavano dove, da fuori, non potessero essere udite.

Dio avrà accettato la loro buona intenzione e i loro sforzi, perché di verità dovevano dirne ben poche.

Quando il padre fra Antonio de Jesús cominciò a trattarle, fece sì che non recitassero se non l'Ufficio di nostra Signora.

Avevano un forno dove cuocevano il pane, e tutto era così ben regolato come se ci fosse stata una superiora.

43. Io ne lodavo il Signore, e quanto più le trattavo, tanto più mi rallegravo d'essere venuta.

Credo che per quante tribolazioni avessi dovuto soffrire, non avrei lasciato di consolare queste anime.

Quelle fra le mie compagne che sono rimaste con loro mi dicevano che lì per lì, i primi giorni, ne avevano avuto un po' di contrarietà, ma che da quando, in seguito, le avevano conosciute meglio e ne avevano visto la virtù, erano felicissime di viverci insieme e le amavano molto.

Grande è la potenza della santità e della virtù!

È pur vero che esse erano tali che, se anche avessero trovato molte difficoltà e grandi prove, le avrebbero sopportate volentieri con l'aiuto del Signore, desiderando patire per amor suo.

La consorella che non senta in sé questo desiderio, non si ritenga per vera scalza, poiché le nostre aspirazioni non devono essere indirizzate al riposo, ma alla sofferenza, se vogliamo imitare in qualche cosa il nostro vero Sposo.

Piaccia a Sua Maestà di darci la grazia di farlo! Amen.

44. L'origine del romitorio di sant'Anna fu questo: viveva qui, nel borgo di Villanueva de la Jara, un sacerdote nativo di Zamora, che era stato frate di nostra Signora del Carmine.

Si chiamava Diego de Guadalajara ed era devoto della gloriosa sant'Anna.

Aveva pertanto fatto costruire accanto alla sua casa questo romitorio che gli permetteva di ascoltare la Messa.

Spinto dalla sua grande devozione, era andato a Roma riportandone una Bolla con molte indulgenze per questa chiesa o, meglio, per il romitorio.

Era un uomo virtuoso e desideroso di vivere ritirato.

Prima di morire aveva disposto nel testamento che questa casa e tutto quello che aveva servisse a un monastero di religiosi di Nostra Signora del Carmine.

Se ciò non si fosse fatto, doveva restarne erede un cappellano che era tenuto a celebrarvi qualche Messa ogni settimana.

Nel caso in cui si fosse costruito un monastero, tale obbligo sarebbe cessato.

45. Il romitorio rimase, così, servito da un cappellano per più di venti anni, durante i quali i beni diminuirono di molto.

Queste giovani, al loro ingresso lì, non ebbero che la casa.

Il cappellano stava in un'altra della stessa cappellania, che ora lascerà con tutto il resto: si tratta di ben poco, ma la misericordia di Dio è così grande, che non mancherà di favorire la casa della sua ava gloriosa.

Piaccia a Sua Maestà di esservi sempre servito, e tutele creature lo lodino in eterno! Amen.

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