La dottrina cristiana |
Cose come queste tanto più dispiacciono agli uomini quanto più essi sono deboli, e sono tanto più deboli quanto più smaniano di essere considerati dotti, non di quella scienza mediante la quale siamo edificati ma della scienza dei segni, a motivo della quale non è certo difficile gonfiarsi di superbia.
In effetti la conoscenza delle cose di per se stessa molte volte fa alzare la cresta, a meno che non intervenga ad abbassarla il giogo del Signore.
A chi infatti mira alla semplice comprensione cosa nuoce se si trova scritto così: Qual è la terra nella quale costoro risiedono in essa? se sia buona o cattiva?
E come sono le città nelle quali loro abitano in esse? ( Nm 13,19 sec. LXX )
Io riterrei che questa espressione appartenga a una lingua straniera piuttosto che contenere un qualche senso più profondo.
Inoltre c'è quella parola che ormai non riusciamo a togliere via dalla bocca di chi canta: Su di lui invece fiorisce la mia santificazione. ( Sal 132,18 )
Il termine latino floriet non pregiudica affatto il senso della frase.
L'uditore più dotto preferirebbe che la si correggesse e si dicesse: Florebit e non floriet; correzione che nessun'altra cosa ostacola se non l'abitudine dei cantori.
Su cose come queste si potrebbe passar sopra facilmente, quando qualcuno non volesse evitarle, poiché non nuocciono affatto alla retta comprensione.
Assai diverso è il caso del detto dell'Apostolo: Ciò che è stolto di Dio è più sapiente per gli uomini; ciò che è debole di Dio è più forte degli uomini. ( 1 Cor 1,25 )
Se in questa espressione uno avesse voluto conservare la forma dell'espressione greca e avesse detto: Ciò che è stolto di Dio è più sapiente degli uomini, l'attenzione del lettore avveduto sarebbe certo andata alla verità della frase, ma qualcuno meno intelligente o non avrebbe capito niente o avrebbe capito male.
In latino infatti tale espressione non sarebbe soltanto viziosa ma anche causerebbe una ambiguità, quasi che ciò che è stolto e debole negli uomini sia più sapiente e più forte di ciò che è stolto e debole in Dio.
Anzi, la stessa espressione: È più sapiente per gli uomini non è senza ambiguità sebbene non contenga solecismi.
A prescindere infatti dalla luce che proviene da tutta la frase, non risulta con chiarezza se per gli uomini sia stato detto derivandolo da " a questo uomo " o derivandolo da " da questo uomo ".
Per cui è meglio dire: " È più sapiente che non gli uomini ed è più forte che non gli uomini ".
Più avanti parleremo dei segni ambigui; adesso vogliamo trattare dei segni non conosciuti, che sono, per quello che riguarda le parole, di due forme.
Difatti a bloccare il lettore c'è o una parola sconosciuta o una frase sconosciuta.
Le quali se derivano dalle lingue straniere, bisogna interrogare le persone che parlano quelle lingue o, se si ha tempo e intelligenza, occorre imparare tali lingue o consultare parecchi traduttori confrontandoli fra loro.
Se invece è perché non conosciamo certe parole o frasi della nostra propria lingua, queste si impareranno abituandoci a leggere o ad ascoltare.
In realtà, nessun'altra cosa è tanto necessaria imparare a memoria quanto quelle specie di parole o di frasi che ignoriamo.
Ci può capitare, ad esempio, una persona più istruita a cui si possa domandare ciò che noi non conosciamo, o può darsi che il testo stesso mostri, da quel che precede o da quel che segue o da tutti e due i contesti, quale portata abbia o cosa significhi quel che ignoriamo.
In tale ipotesi con l'ausilio della memoria potremo facilmente decifrarlo e apprenderlo.
Tuttavia, tanta è la forza dell'abitudine anche nell'imparare che della gente nutrita ed educata nelle Sacre Scritture si stupisca di fronte a certe espressioni dell'uso profano e le ritenga meno latine di quelle che hanno imparato nelle Scritture e che non si trovano negli scrittori latini.
In questo campo giova anche moltissimo il numero dei traduttori quando lo si controlla ed esamina confrontando i loro codici.
Si badi solo che non ci siano falsificazioni di senso.
Difatti la diligenza di coloro che desiderano conoscere le sacre Scritture deve prima di tutto essere vigile nell'emendare i codici, per cui quelli non emendati cedano il posto a quelli emendati, se provengono esclusivamente da un'unica famiglia di traduzioni.
Fra le diverse traduzioni alle altre si preferisca l'Itala, che è più aderente alle parole e più chiara nel pensiero.
Per emendare poi qualsiasi codice latino si ricorra ai testi greci, tra i quali, per quel che riguarda il Vecchio Testamento, tutti li supera in autorità la versione dei Settanta.3
A proposito di questi traduttori, presso tutte le Chiese più competenti si dice che abbiano tradotto in virtù di tale e tanta presenza dello Spirito Santo che una sia stata la voce di quegli uomini, pur essendo così numerosi.
Si dice anche - e sono molti e non immeritevoli di fiducia quelli che lo affermano - che abbiano tradotto separati, ciascuno nella sua propria cella; eppure nel codice di nessuno di loro si trovò cosa che non si trovasse negli altri, espressa con le stesse parole e la stessa successione [ di parole ].
Chi oserebbe, non dico preferire, ma anche paragonare qualche altra versione ad una così autorevole?
Se poi lavorarono insieme, di modo che una sia stata la voce di tutti a motivo dell'investigazione e del parere comune, nemmeno in tal caso è necessario o conveniente che un sol traduttore, esperto quanto si voglia, pretenda di emendare ciò che d'accordo hanno detto tanti antichi e dotti personaggi.
Per la qual cosa, anche se nei codici ebraici si trovasse qualcosa di diverso da quello che hanno detto costoro, credo che bisogni arrendersi al piano divino che si è realizzato per loro mezzo.
In tal modo quei libri che il popolo giudaico o per attaccamento religioso o per invidia si rifiutava di far conoscere agli altri popoli, tramite il potere del re Tolomeo furono comunicati con molto anticipo alle genti che per grazia del Signore avrebbero creduto.
Può darsi quindi che quegli scrittori abbiano tradotto come credette fosse opportuno dire alle genti lo Spirito Santo che li muoveva all'azione e che aveva donato a tutti un'identica loquela.
Ma, come ho detto sopra, non è mai inutile il confronto con gli autori che come questi rimasero più aderenti alle parole per spiegare, in diverse occasioni, il senso della frase.
In conclusione, i codici latini del Vecchio Testamento, come avevo cominciato a dire, se è necessario, occorre revisionarli sull'autorità dei codici greci, in particolare dei codici di quegli uomini che, essendo Settanta, a quanto ci è stato tramandato, hanno tradotto come ad una sola voce.
Quanto ai libri del Nuovo Testamento, se qualcosa è incerto nella varietà dei testi latini, non c'è dubbio che questi debbono cedere ai greci, soprattutto quelli in uso presso le Chiese meglio istruite e più accurate.
Per quanto riguarda i segni traslati, se ce ne sono di sconosciuti che costringono il lettore a sospendere il giudizio, li si deve ricercare in parte con la conoscenza delle lingue e in parte con quella delle cose.
Ci può infatti essere qualcosa che abbia valore figurativo; e di fatto la piscina di Siloe, dove per comando di Cristo andò a lavarsi il viso colui al quale il Signore aveva spalmato gli occhi col fango fatto mediante lo sputo, ( Gv 9,7 ) suggerisce senza dubbio un senso nascosto.
Ciononostante, essendo il nome in una lingua sconosciuta, se l'Evangelista non l'avesse tradotto, un significato così importante sarebbe rimasto celato.
Così è di molti nomi ebraici che non sono stati tradotti dagli autori dei rispettivi libri.
Non c'è dubbio che, se uno riesce a tradurli, contengono una non piccola forza e sono un valido aiuto per risolvere le incomprensibilità della Scrittura.
Effettivamente hanno arrecato ai posteri un non piccolo aiuto quegli uomini che, esperti in lingua ebraica, tradussero tutti quei nomi, staccandoli dal contesto scritturale.
Così ci han detto cosa significhi Adamo, cosa Eva, cosa Abramo, cosa Mosè, e così pure i nomi geografici come Gerusalemme, Sion, Gerico, Sinai, Libano, Giordano, e ancora tanti altri nomi di quella lingua che a noi sarebbero rimasti sconosciuti.
Spiegati e tradotti quei nomi, diventano palesi molte locuzioni figurate contenute nella Scrittura.
La mancata conoscenza delle cose rende oscure le locuzioni figurate, come accade quando non conosciamo la natura degli animali, o delle pietre, o delle erbe, o di qualsiasi altra cosa che nelle Scritture il più delle volte viene menzionata con valore di similitudine.
Così è di quella cosa nota che usa fare il serpente, che cioè per riparare il capo presenta a chi vuol ferirlo il resto del corpo.
Questo spiega il detto del Signore in cui ci comanda di essere astuti come serpenti. ( Mt 10,16 )
In luogo del nostro capo, che è Cristo, ( Ef 4,15 ) dobbiamo offrire ai persecutori il nostro corpo, di modo che non succeda che, in certo qual modo, venga uccisa in noi la fede cristiana, se per risparmiare il corpo rinneghiamo Dio.
Del serpente si dice ancora che, cacciandosi forzatamente per le strettoie della sua buca, abbandoni la vecchia squamatura e riceva nuove forze.
Quanto ci giova imitare questa astuzia del serpente perché, come dice l'Apostolo, ci spogliamo dell'uomo vecchio e rivestiamo del nuovo ( Ef 4,22-24; Col 3,9-10 )
E ce ne spogliamo passando per luoghi stretti, avendo detto il Signore: Entra per la porta stretta. ( Mt 7,13 )
Ecco come la conoscenza della natura del serpente ci illustra parecchie similitudini che la Scrittura è solita trarre da questo animale.
Analogamente la mancata conoscenza di alcuni animali, ricordati non meno del serpente per motivi figurativi, ostacola moltissimo chi vuol comprendere la Scrittura.
Così delle pietre, così delle erbe e di tutto ciò che è sostenuto da radici. Sapere, ad esempio, che il carbonchio riluce nell'oscurità illumina molti passi anche oscuri dei nostri libri, dovunque lo si ponga a modo di similitudine.
Inoltre ignorare come sia il berillo e il diamante chiude parecchie volte la porta di una esatta comprensione della Bibbia.
È facile invece capire come mai la pace permanente sia significata dal ramoscello di olivo che la colomba riportò all'arca al suo ritorno. ( Gen 8,14 )
Questo, perché sappiamo che l'olio, anche se liscio, se tocca un altro liquido non si altera e, quanto alla pianta stessa, è tutto l'anno coperta di foglie verdi.
Viceversa, molti non conoscono cosa sia l'issopo e quale vigore abbia.
Esso giova a liberare il polmone [ dal catarro ] e così pure, a quel che si racconta, riesce con le sue radici a penetrare la roccia, essendo un'erbetta bassa e piccola.
Per questo non riescono a trovare il motivo per cui è detto: Mi aspergerai con l'issopo e io sarò mondato. ( Sal 51,9 )
L'ignoranza dei numeri impedisce di comprendere molte cose poste nella Scrittura in forma traslata o figurativa.
Ad esempio, una mente che io chiamerei nobile non può non rimanere sorpresa dal perché mai Mosè, Elia e lo stesso nostro Signore abbiano digiunato quaranta giorni. ( Es 24,18; 1 Re 19,8; Mt 4,2 )
Questo fatto comporta un groviglio di simbologie che non si scioglie se non mediante la conoscenza e la meditazione del numero in parola, il quale contiene il dieci preso quattro volte, quasi che si sia voluta inserire nel tempo la conoscenza di tutte le cose.
Difatti il corso del giorno e dell'anno si svolgono sulla base del numero quattro: il giorno secondo frazioni orarie costituenti il mattino, il mezzogiorno, la sera e la notte; l'anno, secondo i mesi, della primavera, dell'estate, dell'autunno e dell'inverno.
Orbene, noi, che pur viviamo nel tempo, ci dobbiamo astenere, o con altro termine " digiunare ", dai piaceri temporali in vista dell'eternità nella quale vogliamo avere la vita.
Anzi, dallo stesso fluire del tempo ci si offre l'ammaestramento del disprezzo delle cose temporali e della brama delle cose eterne.
Quanto poi al numero dieci, esso a sua volta ci inculca simbolicamente la conoscenza del Creatore e della creatura; l'essere trino infatti è proprio del Creatore, mentre il sette indica la creatura, a motivo della vita e del suo corpo.
Nella vita infatti ci sono tre elementi, per i quali ci si dice anche di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. ( Mt 22,37 )
Quanto poi al corpo, vi appaiono manifestissimi i quattro elementi da cui risulta.
In questo numero dieci presentato a noi nella prospettiva temporale, mentre lo si moltiplica per quattro, ci si dà l'ordine di vivere con castità e continenza, segregati dai piaceri temporali, che sarebbe poi il digiunare per quaranta giorni.
A questo ci richiama la legge, rappresentata dalla persona di Mosè, a questo i Profeti rappresentati da Elia; a questo lo stesso nostro Signore, che, quasi ricevesse la testimonianza dalla Legge e dai Profeti, là sul monte risplendette in mezzo a loro di fronte ai tre discepoli che lo guardavano stupiti. ( Mt 17,1-4; Mc 9,2-6 )
Successivamente si ricerca come dal numero quaranta si formi il cinquanta, numero altamente sacro nella nostra religione a motivo della Pentecoste. ( At 2,1ss )
Questo numero moltiplicato per tre - a motivo dei tre periodi: prima della legge, sotto la legge e sotto la grazia, o a motivo del nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo - con l'aggiunta eminentissima, cioè, della stessa Trinità si riferisce al mistero della Chiesa quando sarà perfettamente purificata.
Si arriverà cioè a quei centocinquantatré pesci, presi dalle reti gettate a destra nella pesca dopo la risurrezione del Signore. ( Gv 21,6-11 )
Così in moltissime altre forme numeriche certe misteriose rappresentazioni sono poste nelle sacre Scritture, forme che rimangono inesplorate ai lettori a causa dell'ignoranza dei numeri.
Non pochi contenuti impedisce e nasconde l'ignoranza di certe realtà in campo musicale.
Un tale, ad esempio, partendo dalla differenza fra salterio e cetra, scoprì in maniera non bizzarra alcuni simbolismi annessi alle cose.
Così è del salterio a dieci corde. ( Sal 33,2; Sal 92,4 )
Non scriteriatamente si cerca tra gli esperti se abbia una qualche esigenza musicale che richieda un così elevato numero di corde, o, se non ce l'ha, il numero di per se stesso debba essere preso piuttosto con valore mistico.
Il quale valore potrebbe derivare dal rapporto col decalogo della legge - il cui numero, se si vogliono fare ricerche, non si deve riferire ad altri all'infuori del Creatore e della creatura - o dal numero dieci di per se stesso, come sopra è stato esposto.
E poi c'è il numero della durata della costruzione del tempio, riferito dal Vangelo, ( Gv 2,20 ) cioè il numero di quarantasei anni.
Mi pare che abbia un non so che di musicale, e, riferito all'edificio del corpo del Signore, in vista del quale si fa menzione del tempio, esso costringe certi eretici a confessare che il Figlio di Dio non si rivestì di un corpo fittizio ma veramente umano.
Effettivamente troviamo in parecchi passi delle sante Scritture che il numero e la musica sono collocati in posizioni di privilegio.
Né bisogna ascoltare le false superstizioni dei pagani a proposito delle Muse, che essi supposero essere nove, figlie di Giove e di Memoria.
Li confuta Varrone, del quale non saprei dire se nel paganesimo ci sia un uomo più informato e un ricercatore più accanito a proposito di cose come queste.
Dice che in una non so quale città - non ne ricordo il nome - si misero a concorso presso tre artisti tre statue delle Muse.
Le si doveva porre come dono votivo nel tempio di Apollo e sarebbero state scelte e comprate, di preferenza, quelle dell'artista che le avesse fatte più belle.
Accadde invece che quegli artisti presentarono le loro opere tutte ugualmente belle: tutte e nove piacquero alla cittadinanza e tutte furono comprate per essere esposte nel tempio di Apollo.
A loro - dice ancora Varrone - più tardi il poeta Esiodo impose il nome.
Non fu dunque Giove a generare le nove muse ma tre artisti ne composero tre per ciascuno.
E, quanto a quella città, ne aveva messe a concorso tre non perché qualcuno le aveva così viste in sogno o perché loro stesse avevano mostrato agli occhi di qualcuno di essere in tal numero, ma perché era facile osservare che ogni suono - che è la materia delle canzoni - si presenta per sua natura in triplice forma.
Infatti, o lo si emette con la voce, come quando senza strumento si canta con la gola, o soffiando, come accade nelle trombe o nei flauti, o per percussione, come nella cetra o nei tamburi e in tutti gli altri strumenti che emettono suoni quando li si percuote.
Stiano o no le cose come dice Varrone, quanto a noi non dobbiamo per delle superstizioni dei profani rifuggire dalla musica, se da essa possiamo trarre vantaggi per comprendere le sante Scritture.
Né dobbiamo badare alle loro banalità teatrali quando trattiamo delle cetre e degli organi e ciò contribuisce alla comprensione delle cose spirituali.
Difatti non ci siamo sentiti obbligati a non imparare le lettere perché dicono che loro inventore sia stato Mercurio.
Ancora, per il fatto che essi dedicarono templi a Giustizia e a Virtù, preferendo di adorare nella pietra ciò che invece si sarebbe dovuto custodire nel cuore, non per questo dobbiamo fuggire la giustizia e la virtù.
Tutt'altro! Ogni cristiano buono e sincero, dovunque trova la verità, comprende che appartiene al suo Signore e, confrontandola e discernendola, ripudi anche nei libri sacri gli elementi superstiziosi ivi indotti.
Si rammarichi - e ne stia in guardia - che gli uomini, conoscendo Dio, non l'hanno glorificato come Dio né l'hanno ringraziato ma, diventati vani nei loro pensieri, si oscurò il loro stupido cuore.
Dicendo di essere sapienti, divennero stolti e scambiarono la gloria del Dio incorruttibile con l'immagine figurata dell'uomo corruttibile, o degli uccelli o dei quadrupedi o dei serpenti. ( Rm 1,21-23 )
Tutto questo argomento, essendo sommamente necessario, dobbiamo spiegarlo con la massima diligenza.
Ebbene, due sono le categorie della dottrina dei pagani, che da loro poi vengono tradotte in pratica anche nei costumi: una comprende le cose istituite dagli uomini, l'altra le cose che, come hanno essi stessi notato, si sono già realizzate o sono state istituite da Dio.
Ciò che è di istituzione umana in parte è superstizioso, in parte no.
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3 | De civ. Dei 18, 43 |